Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo XVI
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XVI
Avuta la nuova della vittoria de’ franzesi, il viceré, soprastato pochi dí nel medesimo alloggiamento piú per necessitá che per volontá, potendo difficilmente per carestia di danari muovere l’esercito, ricevutane finalmente certa quantitá, e in prestanza da Lorenzo de’ Medici seimila ducati, si ritirò a Pontenuro, con intenzione di andarsene nel reame di Napoli. Perché, se bene il pontefice, inteso i casi successi, aveva nel principio rappresentato agli uomini la costanza del suo antecessore, confortando gli oratori de’ confederati a volere mostrare il volto alla fortuna e sforzarsi di tenere in buona disposizione i svizzeri e, variando loro, che in luogo suo si conducessino fanti tedeschi, nondimeno, parendogli le provisioni non potere essere se non tarde a’ pericoli suoi e che il primo percosso aveva a essere egli, perché, quando bene la riverenza della Chiesa facesse che il re si astenesse da molestare lo stato ecclesiastico, non credeva bastasse a farlo ritenere da assaltare Parma e Piacenza, come membri attenenti al ducato di Milano, e da molestare lo stato di Firenze, nel quale cessava ogni rispetto, ed era offesa sí stimata dal pontefice quanto se offendesse lo stato della Chiesa. Né era vano il suo timore, perché giá il re aveva fatto ordinare il ponte in sul Po presso a Pavia per mandare a pigliare Parma e Piacenza; e prese quelle cittá, quando il pontefice stesse renitente all’amicizia sua, mandare per la via di Pontriemoli a fare pruova di cacciare i Medici dello stato di Firenze. Ma giá, per commissione sua, il duca di Savoia e il vescovo di Tricarico suo nunzio trattavano col re; il quale, sospettoso ancora di nuove unioni contro a sé e inclinato alla reverenza della sedia apostolica per lo spavento che era in tutto il regno di Francia delle persecuzioni avute da Giulio, era molto desideroso dello accordo. Però fu prestamente conchiuso tra loro confederazione a difesa degli stati d’Italia, e particolarmente: che il re pigliasse la protezione della persona del pontefice e dello stato della Chiesa, di Giuliano e di Lorenzo de’ Medici e dello stato di Firenze; desse stato in Francia e pensione a Giuliano, pensione a Lorenzo e la condotta di cinquanta lancie; consentisse che il pontefice desse il passo per lo stato della Chiesa al viceré di tornare con l’esercito nel regno di Napoli; fusse tenuto il pontefice levare di Verona e dallo aiuto di Cesare contro a’ viniziani le genti sue; restituire al re di Francia le cittá di Parma e di Piacenza, ricevendo in ricompenso dal re che il ducato di Milano fusse tenuto a levare per uso suo i sali da Cervia, che si calcolava essere cosa molto utile per la Chiesa, e giá il pontefice nella confederazione fatta col duca di Milano aveva convenuto seco questo medesimo; che si facesse compromesso nel duca di Savoia se i fiorentini avevano contrafatto alla confederazione che avevano fatto col re Luigi, e che avendo contrafatto avesse a dichiarare la pena, il che il re diceva dimandare piú per onore suo che per altra cagione. E fatta la conclusione, Tricarico andò subito in poste a Roma per persuadere al pontefice la ratificazione; e Lorenzo, acciò che il viceré avesse cagione di partirsi piú presto, ritirò a Parma e Reggio le genti che erano a Piacenza, ed egli andò al re per farsegli grato e persuadergli, secondo gli ammunimenti artificiosi del zio, di volere in ogni evento delle cose dipendere da lui. Non fu senza difficoltá indurre il pontefice alla ratificazione, perché gli era molestissimo il perdere Parma e Piacenza, e arebbe volentieri aspettato di intendere prima quel che deliberassino i svizzeri: i quali, convocata la dieta a Zurich, cantone principale di tutti gli elvezi e inimicissimo a’ franzesi, trattavano di soccorrere il castello di Milano, nonostante che avessino abbandonato le valli e le terre di Bellinzone e di Lugarno ma non le fortezze, benché il re pagati seimila scudi al castellano ottenesse quella di Lugarno; ma non abbandonorono giá i grigioni Chiavenna. Nondimeno, dimostrandogli Tricarico essere pericolo che il re non assaltasse senza dilazione Parma e Piacenza e mandasse gente in Toscana, e magnificando il danno che i svizzeri avevano ricevuto nella giornata, fu contento ratificare; con modificazione però di non avere egli o suoi agenti a consegnare Parma e Piacenza, ma lasciandole vacue di sue genti e di suoi officiali, permettere che il re se le pigliasse; che il pontefice non fusse tenuto a levare le genti da Verona per non fare questa ingiuria a Cesare, ma bene prometteva da parte di levarle presto con qualche comoda occasione; e che i fiorentini fussino assoluti dalla contrafazione pretensa della lega. Fu anche in questo accordo che il re non pigliasse protezione di alcuno feudatario o suddito dello stato della Chiesa, né solo [non] vietare al pontefice come superiore loro il procedere contro a essi e il gastigargli, ma eziandio obligandosi, quando ne fusse ricercato, a dargli aiuto. Trattossi ancora che il pontefice e il re si abboccassino in qualche luogo comodo insieme, cosa proposta dal re ma desiderata dall’uno e dall’altro di loro: dal re, per stabilire meglio questa amicizia, per assicurare le cose degli amici che aveva in Italia, e perché sperava, con la presenza sua e con offerire stati grossi al fratello del pontefice e al nipote, ottenere di potere con suo consentimento assaltare, come ardentissimamente desiderava, il reame di Napoli; dal pontefice, per intrattenere con questo officio, o con la maniera sua efficacissima a conciliarsi gli animi degli uomini, il re mentre che era in tanta prosperitá, nonostante che da molti fusse dannata tale deliberazione come indegna della maestá del pontificato, e come se convenisse che il re, volendo abboccarsi seco, andasse a trovarlo a Roma. Alla quale cosa egli affermava condiscendere per desiderio di indurre il re a non molestare il regno di Napoli durante la vita del re cattolico; la quale, per essere egli, giá piú di uno anno, caduto in mala disposizione del corpo, era comune opinione avesse a essere breve.
Travagliavasi in questo mezzo Pietro Navarra intorno al castello di Milano; e insignoritosi di una casamatta del fosso del castello per fianco verso porta Comasina, e accostatosi con gatti e travate al fosso e alla muraglia della fortezza, attendeva a fare la mina in quel luogo: e levate le difese ne cominciò poi piú altre; e tagliò con gli scarpelli, da uno fianco della fortezza, grande pezzo di muraglia e messela in su i puntelli, per farla cadere nel tempo medesimo che si desse fuoco alle mine. Le quali cose, benché, secondo il giudicio di molti, non bastassino a fargli ottenere il castello se non con molta lunghezza e difficoltá, e giá s’avesse certa notizia i svizzeri prepararsi, secondo la determinazione fatta nella dieta di Zurich, per soccorrerlo; nondimeno, essendo nata pratica tra Giovanni da Gonzaga condottiere del duca di Milano, che era in castello, e il duca di Borbone parente suo, e dipoi intervenendo nel trattare col duca di Borbone Ieronimo Morone e due capitani de’ svizzeri che erano nel castello, si conchiuse, con grande ammirazione di tutti, il quarto dí di ottobre; con imputazione grandissima di Ieronimo Morone, che o per troppa timiditá o per poca fede avesse persuaso a questo accordo il duca con la autoritá sua, che appresso a lui era grandissima; il quale carico egli scusava con allegare essere nata diffidenza tra i fanti svizzeri e gli italiani. Contenne la concordia: che Massimiliano Sforza consegnasse subito al re di Francia i castelli di Milano e di Cremona; cedessegli tutte le ragioni che aveva in quello stato; ricevesse dal re certa somma di danari per pagare i debiti suoi, e andasse in Francia, dove il re gli desse ciascuno anno pensione di trentamila ducati o operasse che fusse fatto cardinale con pari entrata; perdonasse il re a Galeazzo Visconte e a certi altri gentiluomini del ducato di Milano, che si erano affaticati molto per Massimiliano; desse a’ svizzeri che erano nel castello scudi seimila; confermasse a Giovanni da Gonzaga i beni che per donazione del duca aveva nello stato di Milano, e gli desse certa pensione; confermasse similmente al Morone i beni propri e i donati dal duca e gli uffici che aveva, e lo facesse maestro delle richieste della corte di Francia. Il quale accordo fatto, Massimiliano, altrimenti il moro per il nome paterno, uscito del castello, se ne andò in Francia; dicendo essere uscito della servitú de’ svizzeri, degli strazi di Cesare e degli inganni degli spagnuoli: e nondimeno, lodando ciascuno piú la fortuna di averlo presto deposto di tanto grado che di avere prima esaltato uno uomo che, per la incapacitá sua e per avere pensieri estravaganti e costumi sordidissimi, era indegno di ogni grandezza.