Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo V
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V
Accrebbe questa prorogazione il sospetto al pontefice che tra questi tre príncipi non fusse fatta o in procinto di farsi, in pernicie d’Italia, conclusione di cose maggiori. Ma non perciò partendosi dalle prime deliberazioni, che alla libertá comune fusse molto pernicioso che il ducato di Milano pervenisse in potere di Cesare e del re cattolico ma dannoso anche che e’ fusse recuperato dal re di Francia, gli era molto difficile procedere, e bilanciare le cose in modo che i mezzi che giovavano all’una di queste intenzioni non nocessino a l’altra; conciossiaché l’uno de’ pericoli nascesse dalla bassezza e dal timore, l’altro dalla grandezza e dalla sicurtá del re di Francia. Però, per liberare quel re dalla necessitá di accordarsi con loro, continuava di confortare i svizzeri, a’ quali era sospetta la tregua fatta, di comporsi con lui; e per difficultargli in qualunque evento il passare in Italia, si affaticava piú che mai per la concordia tra Cesare e il senato viniziano: il quale, giudicando che il fare tregua stabilisse le cose di Cesare nelle terre che gli restavano, si risolveva con animo costante o di fare pace o di continuare in sulle armi, non si removendo da questa generositá per accidente o infortunio alcuno. Perché, oltre a tanti danni e tanti infelici successi avuti nella guerra, e il disperare che per quello anno il re di Francia mandasse esercito in Italia, avendo ancora contraria o l’ira del cielo o i casi fortuiti che dependono dalla potestá della fortuna, era stato in Vinegia, nel principio dell’anno, uno grandissimo incendio; il quale, cominciato di notte dal ponte del Rialto e aiutato da’ venti boreali, non potendo rimediarvi alcuna diligenza o fatica degli uomini, distesosi per lunghissimo spazio, aveva abbruciato la piú frequentata e la piú ricca parte di quella cittá. Per la interposizione del pontefice allo accordo, si fece di nuovo tra Cesare e loro compromesso in lui, non ristretto a tempo alcuno e con ampia e indeterminata potestá; ma nondimeno con secreta promessa sua, confermata con cedola di propria mano di non pronunziare se non con consentimento di ciascuno: il quale compromesso come fu fatto, comandò per breve suo all’una parte e all’altra che sospendessino l’armi. La quale sospensione fu dagli spagnuoli e tedeschi poco osservata: perché quella parte degli spagnuoli che erano alle stanze nel Pulesine e a Esti predorono tutto il paese circostante; e il viceré mandò gente a Vicenza, per trovarsi in possessione quando si desse il lodo.
Fece anche in questo tempo il Frangiapane in Friuli molti danni; e stando incauti i viniziani, i tedeschi per trattato tenuto da alcuni fuorusciti presono Marano, terra del Friuli vicina ad Aquileia e posta in sul mare: però i viniziani vi mandorono per terra Baldassarre di Scipione con certo numero di genti, e Ieronimo da Savorniano con molti paesani. I quali essendosi accampati, e strignendo anche con l’armata la terra per mare, vennono in soccorso di quella cinquecento cavalli tedeschi e dumila fanti; per la venuta de’ quali, uscendo anche quegli di dentro ad assaltare le genti de’ viniziani, gli roppono con non piccola uccisione e tolseno loro l’artiglieria; e fu anche, con alcuni legni, loro tolta una galea e molti altri legni: dopo la qual vittoria preseno per forza Monfalcone. Aggiunsesi alle genti di Marano, pochi dí poi, quattrocento cavalli e mille dugento lanzchenech che erano stati a Vicenza; i quali, congiunti con altri fanti e cavalli venuti nuovamente nel Friuli, correvano tutto il paese: però Malatesta da Sogliano, governatore di quella regione, con seicento cavalli e dugento fanti, e Ieronimo da Savorniano con dumila uomini del paese, che si erano ridotti a Udine, non vedendo potere resistere, passorono di lá dal fiume di Liquenza, soccorrendo dove potevano. Ma essendosi divisi i tedeschi, una parte prese Feltro e correva per tutto il paese circostante; ma i viniziani, che avevano occupati tutti i passi, ne assaltorono una parte a Bassano, dove erano improvisti, ed essendo di numero minore gli messeno in fuga, ammazzati trecento fanti, di cinquecento che erano, e presi molti soldati e capitani. L’altra parte de’ tedeschi era andata a campo a Osopio, situato in cima d’uno aspro monte; dove, poi che ebbeno battuta la rocca con l’artiglieria e dato piú assalti invano, si ridusseno a speranza di averla per assedio, confidatisi nello essere dentro carestia d’acqua: ma avendo a questa proveduto il beneficio celeste, perché in quegli dí furono spesse e grosse pioggie, ricominciorono di nuovo a dare la battaglia, [ma invano]; tanto che disperatisi e degli assalti e dell’assedio si levorono da campo.
Erano molestissime al pontefice queste cose, ma gli era molesto molto piú non trovare mezzo di concordia che sodisfacesse all’una parte e all’altra. Perché dalla spessa variazione delle cose, variandosi secondo i progressi di quelle le speranze, era proceduto che quando Cesare aveva consentito di lasciare Vicenza, ritenendosi Verona, i viniziani avevano recusato se non erano reintegrati di Verona; ora che i viniziani, sbattuti da tante percosse, si contentavano d’avere Vicenza sola, Cesare non contento di Verona voleva anche Vicenza. Dalle quali difficoltá stracco il pontefice, e presupponendo che la dichiarazione sua non sarebbe accettata, ma per mostrare che per lui non mancasse, pronunziò la pace tra loro, con questo: che subito da ogni parte si posassino le armi, riservandosi la facoltá di dichiarare infra uno anno le condizioni della pace, nella quale e nella sospensione delle armi fusse compreso il re cattolico: che Cesare deponesse Vicenza in sua mano e quanto egli e gli spagnuoli possedevano nel padovano e nel trevigiano, e i viniziani deponessino Crema; l’altre cose ciascuno insino alla dichiarazione possedesse secondo possedeva. Dovessesi ratificare il lodo infra uno mese da tutti, e ratificandosi pagassino i viniziani allora a Cesare venticinquemila ducati e fra tre mesi prossimi venticinquemila altri, e che non ratificandosi da tutti si intendesse il lodo essere nullo: il quale modo insolito di giudicare fu seguitato da lui per non dispiacere ad alcuna delle parti. E perché non vi era facoltá di chi ratificasse in nome del re cattolico, se bene l’oratore suo faceva fede del suo consenso, riservò tanto tempo a ratificare a ciascuno che potesse venire la facoltá: ma essendo risoluti a non ratificare i viniziani, perché arebbeno desiderato che in uno tempo medesimo si fussino pronunziate le condizioni della pace, restò vano il giudizio.
Procedevano in questo tempo prosperamente le cose loro nella difesa di Crema, vessata dentro dalla peste e dalla carestia e di fuora dallo assedio degli inimici: perché da una parte era venuto Prospero Colonna a Efenengo con dugento uomini d’arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti, e da altra parte, a Umbriano, Silvio Savello con la compagnia sua di cavalli e dumila fanti, distante l’uno luogo e l’altro due miglia da Crema: donde usciva spesso gente a scaramucciare con gli inimici. I quali mentre stanno incauti allo alloggiamento di Umbriano, Renzo da Ceri, uscito una notte con parte delle genti che erano dentro, assaltati gli alloggiamenti, gli messe in fuga, ammazzati di loro molti fanti: per il che Prospero si discostò con la sua gente: e pochi dí poi Renzo, avuta l’occasione di potere per la bassezza delle acque guadare il fiume dell’Adda, passato a Castiglione di Lodigiana, svaligiò cinquanta uomini d’arme che vi erano alloggiati; riportando tanta laude di queste sí prospere e industriose fazioni che per consenso universale fusse giá numerato tra’ principali capitani di tutta Italia.
Deliberorono dipoi i viniziani di recuperare il Friuli: però vi fu mandato l’Alviano, con dugento uomini d’arme quattrocento cavalli leggieri e settecento fanti. Il quale camminando alla volta di Portonon, dove era parte de’ tedeschi, i suoi cavalli leggieri che correvano innanzi, scontrato fuora della terra il capitano Rizzano tedesco con dugento uomini d’arme e trecento cavalli leggieri, venuti insieme alle mani, erano ributtati; ma sopravenendo l’Alviano col resto delle genti, si cominciò una aspra battaglia, l’effetto della quale stette dubbio insino che Rizzano, ferito nella faccia, fu preso da Malatesta da Sogliano. Rifuggissi la gente rotta in Portonon, ma dubitando non potersi difendere si fuggirono; e la terra, abbandonata, fu, con morte di molti uomini del paese, messa a sacco. Andò dipoi l’Alviano alla volta di Osopio, assediato dal Frangiapane e da un’altra parte di tedeschi; i quali inteso lo approssimare suo si levorno, ma, avendo alla coda i cavalli leggieri, perderono i carriaggi e l’artiglierie. Per i quali successi essendo ritornato a ubbidienza de viniziani quasi tutto il paese, l’Alviano, poi che ebbe tentato invano Gorizia, se ne ritornò a Padova con le genti; avendo, secondo scrisse egli a Roma, tra presi e morti dugento uomini d’arme dugento cavalli leggieri e dumila fanti. Ma per la partita sua i tedeschi, ingrossati di nuovo, preseno Cromonio e Monfalcone e costrinseno i viniziani a levarsi da campo da Marano, dove in uno aguato era stato preso, pochi dí innanzi, e condotto a Vinegia il Frangiapane; ma sentendo la venuta del soccorso, si levorono quasi come rotti: e poco poi, messi in fuga i loro stradiotti, fu preso Giovanni Vitturio loro proveditore, con cento cavalli. E accadevano spesso in Friuli queste variazioni per la vicinitá de’ tedeschi, i quali non si servivano in quel paese se non di genti comandate; le quali, poi che avevano corso e predato o sentendo la venuta delle genti viniziane, con le quali si congiugnevano molti del paese, si ritiravano presto alle loro case, ritornandovi dipoi secondo l’occasione. Mandoronvi i viniziani gente di nuovo, per il che il viceré ordinò che Alarcone, uno de’ capitani spagnuoli che erano alloggiati tra Esti, Montagnana e Cologna, andasse con dugento uomini d’arme cento cavalli leggieri e cinquecento fanti nel Friuli; ma, inteso per il cammino che nel paese era stata fatta tregua per fare la vendemmia, se ne tornò al primo alloggiamento.