Storia d'Italia/Libro XI/Capitolo II
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II
Assicurata adunque per questo anno Italia dall’armi del re di Francia, dalle cui genti ancora si guardavano Brescia Crema e Lignago, il Castelletto e la Lanterna di Genova, il castello di Milano quello di Cremona e alcune altre fortezze di quello stato, apparivano segni di diffidenza e disunione tra’ collegati, essendo molto varie le volontá e i fini loro. Desideravano i viniziani ricuperare Brescia e Crema, debite per le capitolazioni, e per l’avere tanto sopportato de’ pericoli e delle molestie della guerra; il che medesimamente desiderava per loro il pontefice: Cesare, da altra parte, dalla cui volontá non poteva finalmente separarsi il re d’Aragona, pensava d’attribuirle a sé, e oltre a questo a spogliare i viniziani di tutto quello che gli era stato aggiudicato per la lega di Cambrai. Trattavano Cesare e il medesimo re, ma con occulti consigli, che il ducato di Milano pervenisse in uno de’ nipoti comuni. In contrario, s’affaticavano scopertamente il pontefice e i svizzeri perché nel grado paterno fusse restituito, come sempre si era ragionato da principio, Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; il quale dopo la ruina del padre era dimorato continuamente nella Germania: mosso il pontefice perché Italia non cadesse interamente in servitú tedesca e spagnuola, [i svizzeri] perché per l’utilitá propria desideravano che quello stato non fusse dominato da príncipi tanto potenti, ma da chi non potesse reggersi senza gli aiuti loro: la qual cosa dependendo quasi del tutto da’ svizzeri, in potestá de’ quali era quello stato, e per il terrore delle loro armi, il pontefice per confermargli in questa volontá, e per avere in tutte le cose parato questo freno col quale potesse moderare l’ambizione di Cesare e del re cattolico, usava ogni industria e arte per farsegli benevoli. Perciò, oltre all’esaltare publicamente il valore della nazione elvezia insino alle stelle e magnificare l’opere fatte per la salute della sedia apostolica, aveva per onorargli donate loro le bandiere della Chiesa e intitolatogli, con nome molto glorioso, ausiliatori e difensori della libertá ecclesiastica. Aggiugnevasi agli altri dispareri che, avendo il viceré rimesse in ordine le genti spagnuole che dopo la rotta si erano insieme con lui ritirate tutte nel reame, e movendosi per passare con esse in Lombardia, negavano il pontefice e i viniziani di riassumere il pagamento de’ quarantamila ducati il mese intermesso dopo la rotta, allegando che per l’avere l’esercito franzese passato di lá da’ monti non erano piú sottoposti a quella obligazione, la quale terminava, secondo i capitoli della confederazione, ogni volta che i franzesi fussino cacciati di Italia; e a questo si replicava, in nome del re d’Aragona, non si potere dire cacciato il re di Italia mentre che erano in potestá sua Brescia, Crema e tante fortezze. Querelavasi oltre a questo insieme con Cesare che il pontefice, a sé proprio i premi della vittoria comune attribuendo e quel che ad altri manifestamente apparteneva usurpando, avesse, con ragioni o finte o consumate dalla vecchiezza, occupate Parma e Piacenza, cittá possedute lunghissimo tempo da quegli che aveano dominato a Milano come feudatari dello imperio. Appariva similmente diversitá d’animi nelle cose del duca di Ferrara, ardendo il pontefice della medesima cupiditá, e da altra parte desiderando il re d’Aragona di salvarlo, sdegnato ancora che (come si credeva) fusse stato tentato di ritenerlo in Roma contro alla fede data; onde il pontefice soprasedeva dal molestare Ferrara, aspettando per avventura che prima si componessino le cose maggiori: nella determinazione delle quali volendo [Cesare] intervenire, mandava in Italia il vescovo Gurgense, destinato a venirvi insino quando dopo la giornata di Ravenna si trattava la pace tra ’l pontefice e il re di Francia, perché temeva non si facesse tra loro senza avere in considerazione gli interessi suoi; ma succeduta poi la mutazione delle cose continuò nella deliberazione di mandarlo.
Venivano similmente in considerazione le cose de’ fiorentini, i quali pieni di sospetto cominciavano a sentire i frutti della neutralitá usata improvidamente, e a conoscere non essere sufficiente presidio l’abbondare la giustizia della causa dove era mancata la prudenza. Perché nella presente guerra non aveano offeso i collegati, né prestato al re di Francia aiuto alcuno se non quanto erano tenuti alla difesa del ducato di Milano per la confederazione fatta comunemente col re cattolico e con lui; non aveano permesso fussino molestati nel dominio loro i soldati spagnuoli fuggiti della battaglia di Ravenna (della qual cosa il re d’Aragona proprio aveva rendute grazie all’imbasciadore fiorentino), anzi aveano interamente adempiuto co’ fatti le sue dimande: perché, poi che partí il concilio da Pisa, e i ministri suoi in Italia e il re medesimo aveva offerto allo imbasciadore di obligarsi a difendere la loro republica contro a ciascuno, pure che si promettesse non difendere Bologna non muovere l’armi contro alla Chiesa né dare favore al conciliabolo pisano. Ma essi, impediti dalle discordie civili a eleggere la parte migliore, né si accompagnorno col re di Francia, alle cose del quale arebbono giovato sommamente, e la neutralitá, di giorno in giorno e con consigli ambigui e interrotti, osservando ma non mai unitamente deliberando né di volerla osservare dichiarando, offesono non mediocremente l’animo del re di Francia il quale da principio si prometteva molto di loro, l’odio del pontefice non mitigorno, e al re d’Aragona lasciorno senza averne alcun ricompenso godere il frutto della loro neutralitá, il quale per ottenere arebbe cupidamente convenuto con loro.
Dunque il pontefice, stimolato dall’odio contro al gonfaloniere, dal desiderio antico di tutti i pontefici d’avere autoritá in quella republica, faceva instanza perché si tentasse di restituire nella pristina grandezza la famiglia de’ Medici: alla qual cosa, benché con lo imbasciadore fiorentino usasse parole diverse da’ fatti, inclinava medesimamente, ma non giá con tanto ardore, il re d’Aragona, per sospetto che in qualunque movimento non inclinassino per l’autoritá del gonfaloniere al favore del re di Francia; anzi si sospettava che, eziandio rimosso il gonfaloniere, la republica governata liberamente avesse, per le dependenze fresche e antiche, la medesima affezione. Ma e la deliberazione di questa cosa si riservava, insieme coll’altre, alla venuta di Gurgense, con cui era deliberato convenissino in Mantova il viceré e i ministri degli altri collegati. Il quale mentre veniva, mandò il pontefice a Firenze Lorenzo Pucci fiorentino, suo datario (quel che poi eletto al cardinalato si chiamò il cardinale di Santi Quattro) a ricercare, insieme con l’oratore che vi teneva il viceré, che si aderissino alla lega, contribuendo alle spese contro a franzesi: questo era il colore della sua venuta, ma veramente lo mandava per esplorare gli animi de’ cittadini. Sopra la quale dimanda trattata molti dí non si faceva alcuna conclusione, offerendo i fiorentini di pagare a’ confederati certa quantitá di danari ma rispondendo dubiamente sopra la dimanda dell’entrare nella lega e dichiararsi contro al re: della quale ambiguitá era in parte cagione il credere (come era vero) che queste cose si proponessino artificiosamente, ma molto piú la risposta fatta a Trento dal vescovo Gurgense all’oratore il quale aveano mandato a rincontrarlo; perché, mostrando non tenere conto di quello gli era ricordato (Cesare, per la capitolazione fatta a Vicenza per mano sua, essere tenuto alla loro difesa) affermava, il pontefice avere in animo di molestargli, e che pagando a Cesare quarantamila ducati gli libererebbe da questo pericolo: aggiugneva durare ancora la confederazione tra Cesare e il re di Francia, però gli confortava a non entrare nella lega insino a tanto non vi entrava Cesare. Non sarebbeno stati i fiorentini alieni da ricomperare con danari la loro quiete; ma dubitando che il nome solo di Cesare, ancora che Gurgense affermasse che la volontá sua seguiterebbono gli spagnuoli, non bastasse a rimuovere la mala intenzione degli altri, stavano sospesi, per potere con consiglio piú maturo porgere gli unguenti a chi potesse giovare alla loro infermitá. Era forse questo considerato prudentemente; ma procedeva o da imprudenza o dalle medesime contenzioni, o da confidare piú che non si doveva nell’ordinanza de’ fanti del suo dominio, il non si provedere di soldati esercitati, i quali sarebbono stati utili a potersi piú agevolmente difendere da uno assalto subito o a facilitare almeno il convenire co’ collegati, quando avessino conosciuto essere difficile lo sforzargli.
Le quali cose mentre che si trattavano era giá il viceré pervenuto co’ soldati spagnuoli nel bolognese; nel quale luogo mancandogli la facoltá di pagare i danari promessi a’ fanti, corsono con tanto tumulto allo alloggiamento suo minacciando di ammazzarlo che a fatica ebbe tempo di fuggirsene occultamente andando verso Modona: una parte de’ fanti si voltò verso il paese de’ fiorentini, gli altri non mutorno alloggiamento ma stando senza legge senza ordine senza imperio; pure dopo tre o quattro dí, quietati, con una parte de’ danari promessi, gli animi loro, e ritornati il viceré e tutti i fanti all’esercito, promessono aspettarlo nel luogo medesimo insino a tanto ritornasse da Mantova, ove giá era pervenuto, Gurgense. Al quale, quando passava per il veronese, i franzesi che guardavano Lignago, rifiutate molte offerte de’ viniziani, aveano data quella terra che da loro non si poteva piú tenere; per comandamento, secondo che si crede, fatto prima da la Palissa cosí a loro come a tutti quegli che guardavano l’altre terre, a fine di nutrire la discordia tra Cesare e i viniziani: benché questo a’ soldati succedette infelicemente, perché usciti di Lignago furno, non avuto rispetto al salvocondotto ottenuto da Gurgense, depredati dalle genti viniziane che erano intorno a Brescia, ove quando ritornorno dal Bosco, ricuperato senza fatica Bergamo, si erano fermate ma non combattevano la cittá, perché (secondo si diceva) era stato proibito loro dal cardinale sedunense.
Nella congregazione di Mantova si determinò che nel ducato di Milano venisse Massimiliano Sforza, desiderato ardentemente da’ popoli, concedendolo Cesare e il re d’Aragona, per la volontá costantissima del pontefice e de’ svizzeri; e che il tempo e il modo si stabilisse da Gurgense col pontefice: al quale doveva andare per stabilire amicizia tra Cesare e lui e per trattare la concordia co’ viniziani, e per mezzo dell’unione comune confermare la sicurtá di Italia dal re di Francia. Trattossi nella medesima dieta d’assaltare i fiorentini, facendone instanza, in nome suo e del cardinale, Giuliano de’ Medici, e proponendo facile la mutazione di quello stato per le divisioni de’ cittadini, perché molti desideravano il ritorno loro, e per occulto intendimento che (secondo affermava), v’aveano con alcune persone nobili e potenti, e perché i fiorentini, dissipata una parte de’ loro uomini d’arme in Lombardia, un’altra parte rinchiusa in Brescia, non aveano forze sufficienti a difendersi contro a uno assalto tanto repentino. Dimostrava il frutto che, oltre a’ danari che offeriva, risulterebbe della loro restituzione; perché la potenza di quella cittá, levata di mano di uno che dependeva interamente dal re di Francia, perverrebbe in mano di persone che, offese e ingiuriate da quegli re, non riconoscerebbono altra dependenza e congiunzione che quella de’ collegati: del medesimo in nome del pontefice si affaticava Bernardo da Bibbiena che fu poi cardinale, mandato dal pontefice per questa cagione, ma nutrito insieme co’ fratelli insino da puerizia nella casa de’ Medici. Era imbasciadore appresso a Gurgense Giovanvettorio Soderini giurisconsulto, fratello del gonfaloniere; al quale né dal viceré né in nome della lega era detta o dimandata cosa alcuna, ma il vescovo Gurgense, dimostrando questi pericoli, persuadeva a convenire con Cesare secondo le dimande fatte prima, e offerendo che Cesare e il re d’Aragona gli riceverebbono in protezione: ma lo imbasciadore, [non] avendo autoritá di convenire, non poteva se non significare alla republica e aspettare le risposte; né per lui né per altri si faceva instanza col viceré, né diligenza di interrompere le proposte de’ Medici. E nondimeno la cosa in se medesima non mancava di molte difficoltá: perché il viceré non aveva esercito tanto potente che, se non fusse necessitato, dovesse volentieri esperimentare le forze sue; e Gurgense, per impedire che i viniziani non recuperassino Brescia o facessino maggiori progressi, desiderava che gli spagnuoli passassino quanto piú presto si poteva in Lombardia. Però si crede che se i fiorentini, ponendo da parte il negoziare con vantaggi e con risparmio, come ricercavano gli imminenti pericoli, avessino consentito di dare a Cesare i danari dimandati, e aiutato con qualche somma di danari il viceré costituito in somma necessitá, arebbono facilmente schifata questa tempesta; e che Gurgense e il viceré arebbono per avventura convenuto piú volentieri con la republica, la quale erano certi che attenderebbe le cose promesse, che co’ Medici i quali non potevano dare cosa alcuna se prima non ritornavano coll’armi in Firenze. Ma essendo, o per negligenza o per malignitá degli uomini, abbandonata quasi del tutto la causa di quella cittá, fu deliberato che l’esercito spagnuolo, col quale andassino il cardinale e Giuliano de’ Medici, si volgesse verso Firenze; chiamasse il cardinale, il quale il pontefice dichiarava in questa espedizione legato della Toscana, i soldati della Chiesa e quegli che piú gli paressino a proposito delle terre vicine.