Storia d'Italia/Libro X/Capitolo XVI
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XVI
Ma giá sopragiugnevano apertamente alle cose del re gravissimi pericoli; perché i svizzeri aveano finalmente deliberato di concedere seimila fanti agli stipendi del pontefice, che gli aveva dimandati sotto nome di usare l’opera loro contro a Ferrara, non avendo quegli che sostenevano le parti del re di Francia potuto ottenere altro che ritardare la deliberazione insino a quel dí. Contro a’ quali con furore grande esclamava nelle diete la moltitudine, accesa di odio maraviglioso contro al nome del re di Francia: non essere bastata a quel re la ingratitudine di avere negato di accrescere piccola quantitá alle pensioni di coloro con la virtú e col sangue de’ quali aveva acquistata tanta riputazione e tanto stato, che oltre a questo avesse con parole contumeliosissime dispregiata la loro ignobilitá, come se al principio non avessino avuta tutti gli uomini una origine e uno nascimento medesimo, e come se alcuno fusse al presente nobile e grande che in qualche tempo i suoi progenitori non fussino stati poveri ignobili e umili; avere cominciato a soldare i fanti lanzchenech per dimostrare di non gli essere necessaria piú nella guerra l’opera loro, persuadendosi che essi, privati del soldo suo, avessino oziosamente a tollerare di essere consumati dalla fame in quelle montagne: però doversi dimostrare a tutto il mondo vani essere stati i suoi pensieri false le persuasioni nociva solamente a lui la ingratitudine, né potere alcuna difficoltá ritenere gli uomini militari che non dimostrassino il suo valore, e che finalmente l’oro e i danari servivano a chi aveva il ferro e l’armi; ed essere necessario fare intendere una volta a tutto ’l mondo quanto imprudentemente discorreva chi alla nazione degli elvezi preponeva i fanti tedeschi. Traportavagli tanto questo ardore che, trattando la causa come propria, si partivano da casa ricevuto solamente uno fiorino di Reno per ciascuno; ove prima non movevano a’ soldi del re se a’ fanti non erano promesse molte paghe e a’ capitani fatti molti doni. Congregavansi a Coira terra principale de’ grigioni; i quali, confederati del re di Francia da cui ricevevano ordinariamente pensioni, aveano mandato a scusarsi che per l’antiche leghe che aveano co’ cantoni piú alti de’ svizzeri non potevano recusare di mandare con loro certo numero di fanti.
Perturbava molto gli animi de’ franzesi questo moto, le forze de’ quali erano molto diminuite: perché, poi che il generale di Normandia ebbe cassati i fanti italiani, non aveano oltre a diecimila fanti; ed essendo passate di lá da’ monti le genti d’arme che aveva richiamate il re, non rimanevano loro in Italia piú che mille trecento lancie, delle quali trecento erano a Parma. E nondimeno il generale di Normandia, facendo piú l’ufficio di tesoriere che d’uomo di guerra, non consentiva si soldassino nuovi fanti senza la commissione del re; ma aveano fatto ritornare a Milano le genti che, per passare sotto la Palissa in Romagna, erano giá pervenute al Finale, e ordinato che il cardinale di San Severino facesse il medesimo con quelle che erano in Romagna. Per la partita delle quali, Rimini e Cesena con le loro rocche e insieme Ravenna tornorono senza difficoltá all’ubbidienza del pontefice: né volendo i franzesi sprovedere il ducato di Milano, Bologna, per sostentazione della quale si erano ricevute tante molestie, rimaneva come abbandonata in pericolo.
Vennono i svizzeri, come furno congregati, da Coira a Trento; avendo conceduto loro Cesare che passassino per il suo stato: il quale, ingegnandosi di coprire al re di Francia quanto poteva quel che giá avea deliberato, affermava non poteva per la confederazione che avea con loro vietare il passo. Da Trento vennono nel veronese dove gli aspettava l’esercito de’ viniziani, i quali concorrevano insieme col pontefice agli stipendi loro: e con tutto non vi fusse tanta quantitá di danari che bastasse a pagargli tutti, perché erano, oltre al numero dimandato, piú di seimila, era tanto ardente l’odio della moltitudine contro al re di Francia che contro alla loro consuetudine tolleravano pazientemente tutte le difficoltá. Dall’altra parte, la Palissa era venuto prima coll’esercito a Pontoglio per impedire il passo, credendo volessino scendere in Italia da quella parte; dipoi, veduto altra essere la loro intenzione, si era fermato a Castiglione dello Striviere, terra vicina a sei miglia a Peschiera: incerti quali fussino i pensieri de’ svizzeri, o di andare come si divulgava verso Ferrara o di assaltare il ducato di Milano. La quale incertitudine accelerò forse i mali che sopravennero, perché non si dubita che arebbono seguitato il cammino verso il ferrarese se non gli avesse fatto mutare consiglio una lettera intercetta, per mala sorte de’ franzesi, dagli stradiotti de’ viniziani; per la quale la Palissa, significando lo stato delle cose al generale di Normandia rimasto a Milano, dimostrava essere molto difficile il resistere loro se si volgessino a quel [cammino]: sopra la quale lettera consultato insieme il cardinale sedunense, che era venuto da Vinegia, e i capitani deliberorono, con ragione che rare volte è fallace, volgersi a quella impresa la quale comprendevano essere piú molesta agli inimici. Però andorono da Verona a Villafranca, dove si unirono con l’esercito viniziano; nel quale sotto il governo di Giampaolo Baglione erano quattrocento uomini d’arme ottocento cavalli leggieri e seimila fanti, con molti pezzi di artiglieria atti all’espugnazione delle terre e alla campagna. Fu questo causa che la Palissa, abbandonata Valeggio perché era luogo debole, si ritirò a Gambara con intenzione di fermarsi a Pontevico; non avendo nello esercito piú che sei o settemila fanti, perché gli altri erano distribuiti tra Brescia, Peschiera e Lignago, né piú che mille lancie; perché, se bene fusse stato inclinato a richiamare le trecento che erano a Parma, l’aveva il pericolo manifestissimo di Bologna costretto, dopo grandissima instanza de’ Bentivogli, a ordinare che entrassino in quella cittá, restata quasi senza presidio. Quivi accorgendosi tardi de’ pericoli loro e della vanitá delle speranze dalle quali erano stati ingannati, e sopratutto lacerando l’avarizia e i cattivi consigli del generale di Normandia, lo costrinsono a consentire che Federigo da Bozzole e certi altri capitani italiani soldassino con piú prestezza potessino seimila fanti, rimedio che non si poteva mettere in atto se non dopo il corso almeno di dieci dí. E indeboliva l’esercito franzese oltre al piccolo numero de’ soldati la discordia tra i capitani, perché gli altri quasi si sdegnavano di ubbidire al la Palissa; e la gente d’arme, stracca da tante fatiche e cosí lunghi travagli, desiderava piú presto che si perdesse il ducato di Milano, per ritornarsene in Francia, che difenderlo con tanto disagio e pericolo. Partito la Palissa da Valeggio, vi entrorno le genti de’ viniziani e i svizzeri, e passate dipoi il Mincio alloggiorono nel mantovano; ove il marchese, scusandosi per la impotenza sua, concedeva il passo a ciascuno. In queste difficoltá, fu la deliberazione de’ capitani, abbandonata del tutto la campagna, attendere alla guardia delle terre piú importanti; sperando, e non senza cagione, che col temporeggiare s’avesse a risolvere tanto numero di svizzeri: perché il pontefice, non manco freddo allo spendere che caldo alla guerra, diffidandosi anche di potere supplire a’ pagamenti di numero tanto grande, mandava molto lentamente danari. Però messono in Brescia dumila fanti cento cinquanta lancie e cento uomini d’arme de’ fiorentini, in Crema cinquanta lancie e mille fanti, in Bergamo mille fanti e cento uomini d’arme de’ fiorentini; il resto dello esercito, nel quale erano settecento lancie dumila fanti franzesi e quattromila tedeschi, si ritirò a Pontevico, sito forte e opportuno a Milano, Cremona, Brescia e Bergamo, dove facilmente speravano potersi sostenere: ma il seguente dí sopravennono lettere e comandamenti di Cesare a’ fanti tedeschi che subitamente partissino dagli stipendi del re di Francia; i quali essendo quasi tutti del contado di Tiruolo, né volendo essere contumaci al signore proprio, partirono il dí medesimo. Per la partita de’ quali perderono la Palissa e gli altri capitani ogni speranza di potere piú difendere il ducato di Milano: però da Pontevico si ritirorono subito tumultuosamente a Pizzichitone. Per la qual cosa i cremonesi, del tutto abbandonati, si arrenderono all’esercito de’ collegati che giá s’approssimava, obligandosi a pagare a’ svizzeri quarantamila ducati: i quali avendo disputato in cui nome s’avesse a ricevere, sforzandosi i viniziani che fusse loro restituita, fu finalmente ricevuta (ritenendosi perciò la fortezza per i franzesi) in nome della lega, e di Massimiliano figliuolo di Lodovico Sforza; per il quale il pontefice e i svizzeri pretendevano che si acquistasse il ducato di Milano. Era venuta, ne’ dí medesimi, [in potestá de' collegati] alienata da’ franzesi la cittá di Bergamo, perché avendo la Palissa richiamate le genti che vi erano per unirle all’esercito, entrativi, subito che quelle furno partite, alcuni fuorusciti, furno causa si ribellasse. Da Pizzichitone passò la Palissa il fiume dell’Adda, nel quale luogo si unirono seco le trecento lancie destinate alla difesa di Bologna, le quali crescendo il pericolo aveva richiamate; e sperava quivi potere vietare agli inimici il passo del fiume se fussino sopravenuti i fanti che si era deliberato di soldare: ma questo pensiero appariva, come gli altri, vano perché mancavano i danari da soldargli, non avendo il generale di Normandia pecunia numerata, né modo (essendo in tanti pericoli perduto interamente il credito) a trovarne, come soleva, obligando l’entrate regie in prestanza. Però, poi che vi fu dimorato quattro dí, subito che li inimici si accostorno al fiume tre miglia sotto Pizzichitone, si ritirò a Santo Angelo per andarsene il dí seguente a Pavia. Per la qual cosa, essendo del tutto disperato il potersi difendere il ducato di Milano e giá tutto il paese in grandissima sollevazione e tumulti, si partirno da Milano, per salvarsi nel Piemonte, Gianiacopo da Triulzi, il generale di Normandia, Antonio Maria Palavicino, Galeazzo Visconte e molti altri gentiluomini, e tutti gli officiali e ministri del re. E alquanti dí prima, temendo non meno de’ popoli che degli inimici, si erano fuggiti i cardinali; con tutto che, piú feroci ne’ decreti che nell’altre opere, avessino quasi nel tempo medesimo, come preambolo alla privazione, sospeso il pontefice da tutta l’amministrazione spirituale e temporale della Chiesa.
Giovorno questi tumulti alla salute del cardinale de’ Medici, riservato dal cielo a grandissima felicitá; perché essendo menato in Francia, quando entrava la mattina nella barca al passo del Po che è di contro a Basignano, detto dagli antichi Augusta Bactianorum, levato il romore da certi paesani della villa che si dice la Pieve dal Cairo, de’ quali fu capo Rinaldo Zallo, con cui alcuni familiari del cardinale, che vi era alloggiato la notte, si erano convenuti, fu tolto di mano a’ soldati franzesi che lo guardavano, che spaventati e timorosi di ogni accidente, sentito il romore, attesono piú a fuggire che a resistere.
Ma la Palissa entrato in Pavia deliberava di fermarvisi, e perciò ricercava il Triulzio e il generale di Normandia che v’andassino. Al quale mandato il Triulzio gli dimostrò (cosí gli aveano commesso il generale e gli altri principali) la vanitá del suo consiglio: non essere possibile fermare tanta ruina essendo l’esercito senza fanti, non comportare la brevitá del tempo di soldarne di nuovo, non si potere piú trarne se non di luoghi molto distanti e con somma difficoltá; e quando questi impedimenti non fussino, mancare i danari da pagargli, la riputazione essere perduta per tutto, gli amici pieni di spavento, i popoli pieni di odio per la licenza usata giá tanto tempo immoderatamente da’ soldati. Dette queste cose, il Triulzio andò, per dare comoditá alle genti di passare il Po, a fare gittare il ponte dove il fiume lontano da Valenza verso Asti piú si ristrigne. Ma giá l’esercito de’ collegati, a cui si era arrenduta, quando i franzesi si ritirorno da Adda, la cittá di Lodi con la rocca, si era da Santo Angelo accostato a Pavia; dove subito che giunsono cominciorno i capitani de’ viniziani a percuotere con l’artiglierie il castello, e una parte de’ svizzeri passò colle barche nel fiume che è congiunto alla cittá. Ma temendo i franzesi non impedissino il passare il ponte di pietra che è in sul fiume del Tesino, per il quale solo potevano salvarsi, si mossono verso il ponte per uscirsi di Pavia; ma innanzi fusse uscito il retroguardo, nel quale per guardia de’ cavalli erano stati messi gli ultimi alcuni fanti tedeschi che non si erano partiti insieme cogli altri, i svizzeri uscendo di verso Portanuova e dal castello giá abbandonato andorono combattendo con loro per tutta la lunghezza di Pavia e al ponte, resistendo egregiamente sopra tutti gli altri i fanti tedeschi; ma passando al ponte del Gravalone che era di legname, rotte l’assi per il peso de’ cavalli, restorono presi o morti tutti quegli de’ franzesi e de’ tedeschi che non erano ancora passati. Obligossi Pavia a pagare quantitá grande di danari; il medesimo aveva giá fatto Milano, componendosi in somma molto maggiore, e facevano, da Brescia e Crema in fuora, tutte l’altre cittá: gridavasi per tutto il paese il nome dello imperio, lo stato si riceveva e governava in nome della santa lega (cosí concordemente la chiamavano), disponendosi la somma delle cose con l’autoritá del cardinale sedunense deputato legato dal pontefice; ma i danari e tutte le taglie si pagavano a’ svizzeri, loro erano tutte l’utilitá tutti i guadagni. Alla fama delle quali cose commossa tutta la nazione, subito che fu finita la dieta chiamata a Zurich per questo effetto, venne a unirsi cogli altri grandissima quantitá.
In tanta mutazione delle cose, le cittá di Piacenza e di Parma si dettono volontariamente al pontefice, il quale pretendeva appartenersegli come membri dell’esarcato di Ravenna. Occuporno i svizzeri Lucarna e i grigioni la Valvoltolina e Chiavenna, luoghi molto opportuni alle cose loro; e Ianus Fregoso condottiere de’ viniziani, andato a Genova con cavalli e fanti ottenuti da loro, fu causa che fuggendosene il governatore franzese quella cittá si ribellasse, ed egli fu creato doge, la quale degnitá aveva giá avuta... suo padre. Ritornorno, col medesimo impeto della fortuna, al pontefice tutte le terre e le fortezze della Romagna; e accostandosi a Bologna il duca d’Urbino con le genti ecclesiastiche, i Bentivogli privi d’ogni speranza l’abbandonorno: i quali il pontefice asprissimamente perseguitando, interdisse tutti i luoghi che in futuro gli ricettassino. Né dimostrava minore odio contro alla cittá, sdegnato che dimenticata di tanti benefici si fusse cosí ingratamente ribellata, che alla sua statua fusse stato insultato con molti obbrobri e schernito con infinite contumelie il suo nome; onde non creò loro di nuovo i magistrati né gli ammesse piú in parte alcuna al governo, estorquendo, per mezzo di ministri aspri, danari assai da molti cittadini come aderenti de’ Bentivogli: per le quali cose (o vero o falso che fusse) si divulgò, che se i pensieri suoi non fussino stati interrotti dalla morte, avere avuto nell’animo, demolita quella cittá, trasferire a Cento gli abitatori.