Storia d'Italia/Libro X/Capitolo III

Capitolo III

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III

L’esercito franco tedesco contro i veneziani; i veneziani abbandonano diverse terre; fazioni di guerra; i veneziani perdono e ricuperano il Friuli. Difficoltá poste innanzi da Massimiliano riguardo al concilio pisano; continuano le trattative di pace fra il pontefice e il re di Francia.

Erano state per qualche mese piú quiete che il solito le cose tra il re de’ romani e i viniziani; perché i tedeschi non abbondanti di gente e bisognosi di danari non riputavano fare poco se conservavano Verona, e l’esercito de viniziani non essendo potente a espugnare quella cittá stava alloggiato tra Suavi e Lunigo, donde una notte abbruciorno, di qua e di lá dallo Adice, grande parte delle ricolte del veronese: benché assaltati nel ritirarsi perdessino trecento fanti. Ma alla fama dello approssimarsi a Verona la Palissa con mille dugento lancie e ottomila fanti si ridusse lo esercito loro verso Vicenza e Lignago, in luogo forte e quasi come in isola per certe acque e per alcune tagliate che avevano fatte: nel quale alloggiamento non stettono fermi molti dí perché essendo la Palissa arrivato con parte delle genti a Verona, e uscito subito, senza aspettarle tutte, insieme co’ tedeschi in campagna, si ritirò quasi come fuggendo a Lunigo; e dipoi col medesimo terrore, abbandonata Vicenza e tutte l’altre terre e il Pulesine di Rovigo, preda ora de viniziani ora del duca di Ferrara, si distribuirno in Padova e Trevigi: alla difesa delle quali cittá vennono da Vinegia, nel modo medesimo che prima avevano fatto a Padova, molti giovani della nobiltá viniziana. Saccheggiò l’esercito franzese e tedesco Lonigo: e si arrendé loro Vicenza, diventata preda miserabile de’ piú potenti in [p. 113 modifica]campagna. Ma ogni sforzo e ogni acquisto era di piccolissimo momento alla somma delle cose mentre che i viniziani conservavano Padova e Trevigi, perché con l’opportunitá di quelle cittá, subito che gli aiuti franzesi si partivano da’ tedeschi, recuperavano senza difficultá le cose perdute: però l’esercito, dopo questi progressi, stette fermo piú dí al Ponte a Barberano aspettando o la venuta o la determinazione di Cesare. Il quale, venuto da Trento e Roveré, intento in uno tempo medesimo a cacciare, secondo il costume suo, le fiere e a mandare fanti all’esercito, prometteva di venire a Montagnana; proponendo di fare ora la impresa di Padova ora quella di Trevigi ora di andare a occupare Roma, e in tutte per la instabilitá sua variando e per l’estrema povertá trovando difficoltá: né meno che nelle altre, nell’andata di Roma, perché lo andarvi con tante forze de’ franzesi pareva cosa molto aliena dalla sicurtá e dignitá sua; e il pericolo che, assentandosi quello esercito, i viniziani non assaltassino Verona lo costringeva a lasciarla guardata con potente presidio; e il re di Francia faceva difficoltá di allontanare per tanto spazio di paese le genti sue dal ducato di Milano, perché pochissima speranza gli restava della concordia co’ svizzeri: i quali, oltre al dimostrarsi inclinati a’ desideri del pontefice, dicevano apertamente allo oratore del re di Francia essere molestissima a quella nazione la ruina de’ viniziani, per la convenienza che hanno insieme le republiche. Risolveronsi finalmente i concetti e discorsi grandi di Cesare, secondo l’antica consuetudine, in effetti non degni del nome suo: perché accresciuti allo esercito trecento uomini d’arme tedeschi, e uditi da altra parte gli oratori de’ viniziani, co’ quali continuamente trattava, si accostò ai confini del vicentino; e fatto venire la Palissa, prima a Lungara presso a Vicenza e poi a Santa Croce, lo ricercò che andasse a pigliare Castelnuovo, passo di sotto alla Scala verso il Friuli e vicino a venti miglia di Feltro, per dare a lui facilitá di scendere da quella parte. Però la Palissa andò a Montebellona distante dieci miglia da Trevigi; donde mandati cinquecento cavalli e dumila fanti ad aprire il [p. 114 modifica]passo di Castelnuovo, aperto che lo ebbeno se ne andorono alla Scala. Nel quale tempo i cavalli leggieri de’ viniziani, i quali correvano senza ostacolo alcuno per tutto il paese, roppono presso a Morostico circa settecento fanti e molti cavalli franzesi e italiani, i quali per potere passare sicuramente allo esercito andavano da Verona a Suavi per unirsi con trecento lancie franzesi, le quali essendo venute dietro al la Palissa aspettavano in quello luogo il suo comandamento; e benché nel principio, succedendo le cose prospere per i franzesi e tedeschi, fusse preso il conte Guido Rangone condottiere de’ viniziani, nondimeno, calando in favore de’ viniziani molti villani, restorno vittoriosi; morti circa quattrocento fanti franzesi, e presi Mongirone e Riccimar loro capitani. Ma giá continuamente raffreddavano le cose ordinate: perché e il re di Francia, vedendo non corrispondere gli apparati di Cesare alle offerte, si era, discostandosi da Italia, ritornato del Dalfinato, dove era soprastato molti giorni, a Bles; e Cesare, ritiratosi a Trento con deliberazione di non andare piú all’esercito personalmente, in luogo di occupare tutto quello che i viniziani possedevano in terra ferma o veramente Roma con tutto lo stato ecclesiastico, proponeva che i tedeschi entrassino nel Friuli e nel Trevisano, non tanto per vessare i viniziani quanto per costrignere le terre del paese a pagare danari per ricomperarsi dalle prede e da’ sacchi; e che i franzesi, perché i suoi non fussino impediti, si facessino innanzi, mettendo in Verona, ove era la pestilenza grande, dugento lancie; perché de’ suoi, volendo assaltare il Friuli, non vi potevano rimanere altri che i deputati alla custodia delle fortezze. Acconsentí a tutte queste cose la Palissa e, essendosi unito con lui Obigní capitano delle trecento lancie che erano a Suavi, si fermò in sul fiume della Piava. Lasciorno oltre a questo i tedeschi, per maggiore sicurtá di Verona, dugento cavalli a Suave: i quali, standovi con grandissima negligenza e senza scolte o guardie, furono una notte quasi tutti morti o presi da quattrocento cavalli leggieri e quattrocento fanti de’ viniziani.

Erasi tutto questo anno, nel Friuli in Istria e nelle parti [p. 115 modifica]di Triesti e di Fiume, travagliato secondo il solito diversamente, per terra ed eziandio per mare con piccoli legni; essendo quegli infelici paesi ora dall’una parte ora dall’altra depredati. Entrò poi nel Friuli l’esercito tedesco; ed essendosi presentato a Udine, luogo principale della provincia, e dove riseggono gli ufficiali de’ viniziani, essendosene quegli fuggiti vilmente, la terra si arrendé subito: e dipoi col medesimo corso della vittoria fece il medesimo tutto il Friuli, pagando ciascuna terra danari secondo la loro possibilitá. Restava Gradisca situata in sul fiume Lisonzio, dove era Luigi Mocenigo proveditore del Friuli con trecento cavalli e molti fanti; la quale, battuta dalle artiglierie e difesasi dal primo assalto, si arrendé per l’instanza de’ soldati, restando prigione il proveditore. Del Friuli ritornorono i tedeschi a unirsi con la Palissa, alloggiato vicino a cinque miglia di Trevigi; alla quale cittá s’accostorno unitamente, perché Cesare faceva instanza grande che si tentasse di espugnarla: ma avendola trovata da tutte le parti molto fortificata, e avendo mancamento di guastatori, di munizioni e d’altri provedimenti necessari, perduta interamente la speranza di ottenerne la vittoria, si discostorono. Partí, pochi dí poi, la Palissa per ritornarsene nel ducato di Milano, per comandamento del re; perché continuamente cresceva il timore di nuove confederazioni e di movimenti de’ svizzeri. Furnogli sempre alle spalle nel ritirarsi gli stradiotti de’ viniziani, sperando di danneggiarlo almeno al transito de’ fiumi della Brenta e dell’Adice; nondimeno passò per tutto sicuramente; avendo, innanzi passasse la Brenta, svaligiati dugento cavalli de’ viniziani, alloggiati fuora di Padova, e preso Pietro da Longhena loro condottiere. Lasciò la sua partita molto confusi i tedeschi, perché non avendo potuto ottenere che alla guardia di Verona rimanessino trecento altre lancie franzesi, furno necessitati ritirarvisi, lasciate in preda agli inimici tutte le cose acquistate quella state. Però le genti de’ viniziani, delle quali per la morte di Lucio Malvezzo era governatore Giampaolo Baglione, ricuperorno subito Vicenza; e dipoi entrate nel Friuli, spianata Cremonsa, ricuperorno, da [p. 116 modifica]Gradisca in fuora (la quale combatterono vanamente), tutto il paese; benché, pochi dí poi, certi fanti comandati del contado di Tiruolo espugnorono Cadoro e saccheggiorno Bellona. In questo modo, con effetti leggieri e poco durabili, si terminorno la state presente i movimenti dell’armi; senza utilitá ma non senza ignominia del nome di Cesare, e con accrescimento della riputazione de’ viniziani, che assaltati giá due anni dagli eserciti di Cesare e del re di Francia ritenessino alla fine le medesime forze e il medesimo dominio.

Le quali cose benché tendessino direttamente contro a Cesare nocevano molto piú al re di Francia: perché, mentre che, o temendo forse troppo le prosperitá e l’augumento di Cesare o che consigliandosi con fondamenti falsi e non conoscendo i pericoli giá propinqui o che soffocata la prudenza dalla avarizia, non dá a Cesare aiuti tali che potesse sperare di ottenere la vittoria desiderata, gli dette occasione e quasi necessitá di inclinare l’orecchie a coloro che mai cessavano di persuaderlo che s’alienasse da lui, conservando in uno tempo medesimo in tale stato i viniziani che e’ potessino con maggiori forze unirsi a quegli i quali desideravano di abbassare la sua potenza. Onde giá cominciava ad apparire qualche indizio che nella mente di Cesare, specialmente nella causa del concilio, germinassino nuovi pensieri: nella quale pareva raffreddato, massimamente dopo l’intimazione del concilio lateranense; conciossiaché non vi mandasse, secondo le promesse piú volte fatte, alcuni prelati tedeschi in nome della Germania, né procuratori che vi assistessino in suo nome; non lo movendo l’esempio del re di Francia, il quale aveva ordinato che in nome comune della chiesa gallicana vi andassino ventiquattro vescovi, e che tutti gli altri prelati del suo regno o vi andassino personalmente o vi mandassino procuratori. E nondimeno, o per scusare questa dilazione o perché tale fusse veramente il suo desiderio, cominciò in questo tempo a fare instanza che, per maggiore comoditá de’ prelati della Germania e perché affermava volervi intervenire personalmente, il concilio inditto a Pisa si trasferisse a Mantova o a Verona o a Trento: la [p. 117 modifica]quale dimanda, molesta per varie cagioni a tutti gli altri, era solamente grata al cardinale di Santa Croce; il quale, ardente di cupiditá di ascendere al pontificato (al qual fine aveva seminato queste discordie), sperava col favore di Cesare, nella benivolenza del quale inverso sé molto confidava, potervi facilmente pervenire. Nondimeno, rimanendo debilitata molto e quasi manca senza l’autoritá di Cesare la causa del concilio, mandorno di comune consentimento a lui il cardinale di San Severino, a supplicarlo che facesse muovere i prelati e i procuratori tante volte promessi, e a obligargli la fede che principiato che fusse il concilio a Pisa lo trasferirebbono in quel luogo medesimo che egli stesso determinasse; dimostrandogli che il trasferirlo prima sarebbe molto pregiudiciale alla causa comune, e specialmente perché era di somma importanza il prevenire a quello che era stato intimato dal pontefice. Col cardinale andò a fare la instanza medesima, in nome del re di Francia, Galeazzo suo fratello; il quale, con felicitá dissimile alla infelicitá di Lodovico Sforza, primo padrone, era stato onorato da lui dello ufficio del grande scudiere. Ma principalmente lo mandò il re per confermare con varie offerte e partiti nuovi l’animo di Cesare, per la instabilitá del quale stava in grandissima sospensione e sospetto; con tutto che nel tempo medesimo non fusse senza speranza di conchiudere la pace col pontefice. La quale, trattata a Roma dal cardinale di Nantes e dal cardinale di Strigonia e in Francia dal vescovo scozzese e dal vescovo di Tivoli, era ridotta a termini tali che, concordate quasi tutte le condizioni, il pontefice aveva mandato al vescovo di Tivoli l’autoritá di dargli perfezione: benché inserite nel mandato certe limitazioni che davano ombra non mediocre che la volontá sua non fusse tale quale sonavano le parole, sapendosi massime che nel tempo medesimo trattava con molti potentati cose interamente contrarie.