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libro decimo - cap. iii 117

quale dimanda, molesta per varie cagioni a tutti gli altri, era solamente grata al cardinale di Santa Croce; il quale, ardente di cupiditá di ascendere al pontificato (al qual fine aveva seminato queste discordie), sperava col favore di Cesare, nella benivolenza del quale inverso sé molto confidava, potervi facilmente pervenire. Nondimeno, rimanendo debilitata molto e quasi manca senza l’autoritá di Cesare la causa del concilio, mandorno di comune consentimento a lui il cardinale di San Severino, a supplicarlo che facesse muovere i prelati e i procuratori tante volte promessi, e a obligargli la fede che principiato che fusse il concilio a Pisa lo trasferirebbono in quel luogo medesimo che egli stesso determinasse; dimostrandogli che il trasferirlo prima sarebbe molto pregiudiciale alla causa comune, e specialmente perché era di somma importanza il prevenire a quello che era stato intimato dal pontefice. Col cardinale andò a fare la instanza medesima, in nome del re di Francia, Galeazzo suo fratello; il quale, con felicitá dissimile alla infelicitá di Lodovico Sforza, primo padrone, era stato onorato da lui dello ufficio del grande scudiere. Ma principalmente lo mandò il re per confermare con varie offerte e partiti nuovi l’animo di Cesare, per la instabilitá del quale stava in grandissima sospensione e sospetto; con tutto che nel tempo medesimo non fusse senza speranza di conchiudere la pace col pontefice. La quale, trattata a Roma dal cardinale di Nantes e dal cardinale di Strigonia e in Francia dal vescovo scozzese e dal vescovo di Tivoli, era ridotta a termini tali che, concordate quasi tutte le condizioni, il pontefice aveva mandato al vescovo di Tivoli l’autoritá di dargli perfezione: benché inserite nel mandato certe limitazioni che davano ombra non mediocre che la volontá sua non fusse tale quale sonavano le parole, sapendosi massime che nel tempo medesimo trattava con molti potentati cose interamente contrarie.