Storia d'Italia/Libro VIII/Capitolo VII
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VII
In questo modo precipitavano con impeto grandissimo e quasi stupendo le cose della republica viniziana, calamitá sopra a calamitá continuamente accumulandosi, qualunque speranza si proponevano mancando, né indizio alcuno apparendo per il quale sperare potessino almeno conservare, dopo la perdita di tanto imperio, la propria libertá. Moveva variamente tanta rovina gli animi degli italiani, ricevendone molti sommo piacere per la memoria che, procedendo con grandissima ambizione, posposti i rispetti della giustizia e della osservanza della fede e occupando tutto quello di che se gli offeriva l’occasione, aveano scopertamente cercato di sottoporsi tutta Italia: le quali cose facevano universalmente molto odioso il nome loro, odioso ancora piú per la fama che risonava per tutto della alterezza naturale a quella nazione. Da altra parte, molti considerando piú sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la servitú de’ forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una tanta cittá, sedia sí inveterata di libertá, splendore per tutto il mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non rimaneva piú freno alcuno al furore degli oltramontani, e si spegneva il piú glorioso membro, e quel che piú che alcuno altro conservava la fama e l’estimazione comune.
Ma sopra a tutti gli altri era molesta tanta declinazione al pontefice, sospettoso della potenza del re de’ romani e del re di Francia, e desideroso che l’essere implicati in altre faccende gli rimovesse da’ pensieri di opprimere lui. Per la quale cagione, deliberando, benché occultamente, di sostentare quanto poteva che piú oltre non procedessino i mali di quella republica, accettò le lettere scrittegli in nome del doge di Vinegia, per le quali lo pregava con grandissima sommissione che si degnasse ammettere sei imbasciadori eletti de’ principali del senato, per ricercarlo supplichevolmente del perdono e della assoluzione. Lette le lettere e proposta la dimanda in concistoro, allegando il costume antico della Chiesa di non si mostrare duro a coloro che, avendo penitenza degli errori commessi, dimandano venia, consentí d’ammettergli: repugnando molto gli oratori di Cesare e del re di Francia, e riducendogli in memoria che per la lega di Cambrai era espressamente obligato a perseguitargli, con l’armi temporali e spirituali, insino a tanto che ciascuno de’ confederati avesse recuperato quello che se gli apparteneva: a’ quali rispondeva avere consentito di ammettergli con intenzione di non concedere l’assoluzione se prima Cesare, che solo non avea recuperato il tutto, non conseguitava le cose che se gli appartenevano.
Dette questa cosa qualche cominciamento di speranza e di sicurtá a’ viniziani. Ma gli assicurò molto piú dal terrore estremo dal quale erano oppressi la deliberazione del re di Francia, di osservare con buona fede la capitolazione fatta con Cesare e, poiché aveva acquistato tutto quello che aspettava a sé, non entrare con lo esercito piú oltre che fussino i termini suoi. Però, essendo in potestá sua non solo accettare Verona, gl’imbasciadori della quale cittá venneno a lui per darsegli, presa che ebbe Peschiera, ma similmente occupare senza ostacolo alcuno Padova e l’altre terre abbandonate da’ viniziani, volle che gli imbasciadori de’ veronesi presentassino le chiavi della terra agli imbasciadori di Cesare che erano nello esercito suo. E per questa cagione si fermò con tutte le genti a Peschiera; la quale terra, invitato dalla opportunitá del luogo, ritenne per sé, non ostante che appartenesse al marchese di Mantova, perché insieme con Asola e Lunato era stata occupata da’ viniziani: non avendo ardire di negarlo il marchese, al quale riservò l’entrate della terra e promesse di ricompensarlo con cosa equivalente. E aveva ne’ medesimi dí ricevuta per accordo la fortezza di Cremona, con patto che a tutti i soldati fusse salva la vita e la roba, eccetto quegli che fussino sudditi suoi, e che i gentiluomini viniziani a’ quali dette la fede di salvare la vita fussino suoi prigioni. Seguitorono l’esempio di Verona, Vicenza Padova e l’altre terre, eccetto la cittá di Trevisi; la quale, abbandonata giá da’ magistrati e dalle genti de’ viniziani, arebbe fatto il medesimo, se di Cesare fusse apparito o forze benché minime o almeno persona di autoritá. Ma essendovi andato per riceverla in suo nome, senza forze senza armi senza maestá alcuna di imperio, Lionardo da Dressina fuoruscito vicentino, che per lui aveva nel modo medesimo ricevuto Padova, ed essendo giá stato ammesso dentro, gli sbanditi di quella cittá stati nuovamente restituiti da’ viniziani, e per questo beneficio amatori del nome loro, cominciorno a tumultuare; dietro a’ quali sollevandosi la plebe affezionata allo imperio viniziano, e facendosene capo uno Marco calzolaio, il quale con concorso e grida immoderate della moltitudine portò in su la piazza principale la bandiera de’ viniziani, cominciorono a chiamare unitamente il nome di san Marco, affermando non volere riconoscere né altro imperio né altro signore: la quale inclinazione aiutò non poco uno oratore del re d’Ungheria, che andando a Vinegia e passando per Trevisi, scontratosi a caso in questo tumulto, confortò il popolo a non si ribellare. Però cacciato il Dressina, e messo nella cittá settecento fanti de’ viniziani e poco dipoi tutto l’esercito che, augumentato di fanti venuti di Schiavonia e di quegli che erano ritornati di Romagna, disegnava fare uno alloggiamento forte tra Marghera e Mestri, entrò in Trevisi; dove atteseno con somma diligenza a fortificarlo, e facendo correre i cavalli per tutto il paese vicino e mettere dentro piú vettovaglie potevano, cosí per bisogno di quella cittá come per uso della cittá di Vinegia; nella quale da ogni parte accumulavano grandissima copia di vettovaglie.
Cagione principale di questo accidente e di rendere speranza a’ viniziani di potere ritenere qualche parte del loro imperio, e di molti gravissimi casi che seguitorono poi, fu la negligenza e il disordinato governo di Cesare; del quale non si era insino a quel dí udito, in tanto corso di vittoria, altro che il nome: con tutto che per il timore dell’armi de’ franzesi se gli fussino arrendute tante terre, le quali gli sarebbe stato facilissimo a conservare. Ma era, dopo la confederazione fatta a Cambrai, soprastato qualche dí in Fiandra, per avere spontaneamente danari da’ popoli per sussidio della guerra, i quali non prima avuti che, secondo la sua consuetudine, gli spese inutilmente; e ancora che, partito da Molins armato e con tutta la pompa e ceremonie imperiali, e accostatosi a Italia, publicasse di volere rompere la guerra innanzi al termine statuitogli nella capitolazione, nondimeno oppressato dalle sue solite difficoltá e confusioni non si faceva piú innanzi: non bastando gli stimoli del pontefice che, per il terrore che aveva delle armi franzesi, lo sollecitava continuamente a venire in Italia, e perché meglio potesse farlo gli aveva mandato Costantino di Macedonia con cinquantamila ducati, avendogli prima consentito i centomila ducati che per spendere contro agli infedeli erano stati depositati piú anni innanzi in Germania. Aveva oltre a questo ricevuto dal re di Francia centomila ducati, per causa della investitura del ducato di Milano. Sopragiunselo, essendo vicino a Spruch, la nuova del fatto d’arme di Vaila; e benché mandasse subito il duca di Brunsvich a recuperare il Friuli nondimeno non si moveva, come in tanta occasione sarebbe stato conveniente, impedito dal mancamento di danari, non essendo bastati alla sua prodigalitá quegli che aveva raccolti di tanti luoghi. Condussesi finalmente a Trento, donde ringraziò per lettere il re di Francia d’avere mediante l’opera sua ricuperate le sue terre; e si affermava che, per dimostrare a quel re maggiore benivolenza, e acciò che in tutto si spegnesse la memoria delle offese antiche, avea fatto ardere uno libro che si conservava a Spira, nel quale erano scritte tutte l’ingiurie fatte per il passato da’ re di Francia allo imperio e alla nazione degli alamanni. A Trento venne a lui, il terzodecimo dí di giugno, per trattare delle cose comuni il cardinale di Roano, il quale raccolto con grandissimo onore gli promesse in nome del re aiuto di cinquecento lancie; e avendo espedito concordemente l’altre cose, statuirono che Cesare e il re convenissino a parlare insieme in campagna aperta appresso alla terra di Garda, ne’ confini dell’uno dominio e dell’altro. Però il re di Francia si mosse per esservi il dí determinato, e Cesare per la medesima cagione venne a Riva di Trento; ma poi che vi fu stato solamente due ore ritornò subitamente a Trento, significando nel tempo medesimo al re di Francia che per accidenti nuovi nati nel Friuli era stato necessitato a partirsi, e pregandolo si fermasse a Cremona, perché presto ritornerebbe per dare perfezione al parlamento deliberato. La quale varietá, se però è possibile in uno principe tanto instabile ritrovarne la veritá, molti attribuivano a sospetto stillatogli (come per natura era molto credulo) negli orecchi da altri; alcuni mente a venire in Italia, e perché meglio potesse farlo gli aveva mandato Costantino di Macedonia con cinquantamila ducati, avendogli prima consentito i centomila ducati che per spendere contro agli infedeli erano stati depositati piú anni innanzi in Germania. Aveva oltre a questo ricevuto dal re di Francia centomila ducati, per causa della investitura del ducato di Milano. Sopragiunselo, essendo vicino a Spruch, la nuova del fatto d’arme di Vaila; e benché mandasse subito il duca di Brunsvich a recuperare il Friuli nondimeno non si moveva, come in tanta occasione sarebbe stato conveniente, impedito dal mancamento di danari, non essendo bastati alla sua prodigalitá quegli che aveva raccolti di tanti luoghi. Condussesi finalmente a Trento, donde ringraziò per lettere il re di Francia d’avere mediante l’opera sua ricuperate le sue terre; e si affermava che, per dimostrare a quel re maggiore benivolenza, e acciò che in tutto si spegnesse la memoria delle offese antiche, avea fatto ardere uno libro che si conservava a Spira, nel quale erano scritte tutte l’ingiurie fatte per il passato da’ re di Francia allo imperio e alla nazione degli alamanni. A Trento venne a lui, il terzodecimo dí di giugno, per trattare delle cose comuni il cardinale di Roano, il quale raccolto con grandissimo onore gli promesse in nome del re aiuto di cinquecento lancie; e avendo espedito concordemente l’altre cose, statuirono che Cesare e il re convenissino a parlare insieme in campagna aperta appresso alla terra di Garda, ne’ confini dell’uno dominio e dell’altro. Però il re di Francia si mosse per esservi il dí determinato, e Cesare per la medesima cagione venne a Riva di Trento; ma poi che vi fu stato solamente due ore ritornò subitamente a Trento, significando nel tempo medesimo al re di Francia che per accidenti nuovi nati nel Friuli era stato necessitato a partirsi, e pregandolo si fermasse a Cremona, perché presto ritornerebbe per dare perfezione al parlamento deliberato. La quale varietá, se però è possibile in uno principe tanto instabile ritrovarne la veritá, molti attribuivano a sospetto stillatogli (come per natura era molto credulo) negli orecchi da altri; alcuni che, per avere seco poca corte e poca gente, non gli paresse potersi presentare con quella dignitá e riputazione che si paragonasse alla pompa e alla grandezza del re di Francia. Ma il re, desideroso per alleggerirsi da tanta spesa, di dissolvere presto lo esercito, né meno di ritornarsene presto in Francia, non attesa questa proposta, si voltò verso Milano, ancora che da Matteo Lango, doventato episcopo Gurgense, che mandatogli da Massimiliano per questo effetto lo seguitò insino a Cremona, fusse molto pregato ad aspettare, promettendogli che senza fallo alcuno ritornerebbe. Il discostarsi la persona e l’esercito del re cristianissimo da’ confini di Cesare tolse assai di riputazione alle cose sue; e nondimeno, con tutto che avesse seco tante genti che potesse facilmente provedere Padova e l’altre terre, non vi mandò presidio, o per instabilitá della natura sua o per disegno di attendere prima ad altre imprese o perché gli paresse piú onorevole avere congiunto seco, quando scendeva in Italia, maggiore esercito: anzi, come se le prime cose avessino avuto la debita perfezione, proponeva che colle forze unite di tutti i confederati, si assaltasse la cittá di Vinegia; cosa udita volentieri dal re di Francia, ma molesta al pontefice e contradetta apertamente dal re di Aragona.