Storia d'Italia/Libro III/Capitolo VI
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VI
Nella quale incertitudine mentre che si sta, il re di Francia, da altra parte, trattava delle provisioni di soccorrere i suoi. Perché, come ebbe intesa la perdita delle castella di Napoli, e che per non essere state restituite le fortezze a’ fiorentini mancavano alle sue genti i danari e i soccorsi loro, svegliato dalla negligenza con la quale pareva fusse ritornato in Francia, cominciò di nuovo a voltare l’animo alle cose d’Italia; e per essere piú espedito da tutto quello che lo potesse ritenere, e per potere, dimostrandosi grato de’ benefici ricevuti ne’ suoi pericoli, ricorrere di nuovo piú confidentemente all’aiuto celeste, andò in poste a Torsi e poi a Parigi per sodisfare a’ voti fatti da sé, il dí della giornata di Fornuovo, a san Martino e a san Dionigi; donde ritornato con la medesima diligenza a Lione, si riscaldava ogni dí piú in questo pensiero; al quale era per se stesso inclinatissimo, attribuendosi a grandissima gloria l’avere acquistato un reame tale, e primo di tutti i re di Francia dopo molti secoli avere personalmente rinnovata in Italia la memoria dell’armi e delle vittorie franzesi; e persuadendosi che le difficoltá le quali aveva avute nel ritornare da Napoli fussino procedute piú da’ disordini suoi che dalla potenza o dalla virtú degl’italiani, il nome de’ quali non era piú, nelle cose della guerra, appresso a franzesi in alcuna estimazione. E l’accendevano ancora gli stimoli degli oratori de’ fiorentini, del cardinale di San Piero in Vincola e di Gian Iacopo da Triulzi, ritornato per questa cagione alla corte; in compagnia de’ quali facevano la medesima instanza Vitellozzo e Carlo Orsino e dipoi il conte di Montorio, mandato per il medesimo effetto da’ baroni che seguitavano le parti franzesi nel regno di Napoli; e ultimatamente vi andò da Gaeta per mare il siniscalco di Belcari, il quale dimostrava speranza grande di vittoria in caso che senza piú dilazione si mandasse il soccorso e, per contrario, che le cose di quel reame essendo abbandonate non potevano sostenersi lungamente; e oltre a questi una parte de’ signori grandi, stati prima alieni dalle imprese d’Italia, confortavano il medesimo, per la ignominia che del lasciare perdere l’acquisto fatto risultava alla corona di Francia, e molto piú per il danno che tanta nobiltá franzese si perdesse nel reame di Napoli. Né si raffrenavano questi concetti per i movimenti i quali si dimostravano per i re di Spagna dalla parte di Perpignano, perché essendo apparati maggiori in nome che in fatti, e le forze di quegli re piú potenti alla difesa de’ regni propri che all’offesa de’ regni d’altri, si giudicava sufficiente rimedio l’avere mandate a Nerbona e nell’altre terre che sono alle frontiere di Spagna molte genti d’arme, non senza compagnia sufficiente di svizzeri.
Però convocati dal re nel consiglio tutti i signori e tutte le persone notabili che si trovavano nella corte, fu deliberato che con piú celeritá che si potesse tornasse in Asti il Triulzio con titolo di luogotenente regio e con lui ottocento lancie dumila svizzeri e dumila guasconi, e che poco dopo lui passasse i monti con altre genti il duca di Orliens, e finalmente con tutte l’altre provisioni la persona del re; il quale passando potente, non si dubitava che aderirebbono alla volontá sua gli stati del duca di Savoia e de’ marchesi di Monferrato e di Saluzzo, opportuni molto a fare la guerra contro al ducato di Milano; e che, dal cantone di Berna infuora, il quale aveva promesso al duca di Milano di non lo offendere, tutti i cantoni de’ svizzeri andrebbono agli stipendi suoi con grandissima prontezza. Le quali deliberazioni procederono con maggiore consentimento per l’ardore del re; il quale, innanzi che entrasse nel consiglio, avea pregato strettamente il duca di Borbone che con efficaci parole dimostrasse essere necessario il fare potentissimamente la guerra, e poi nel consiglio, ribattuto con la medesima caldezza l’ammiraglio, il quale seguitato da pochi aveva, non tanto contradicendo direttamente quanto proponendo molte difficoltá, cercato di intepidire per indiretto gli animi degli altri: e affermava il re palesemente che in potestá sua non era di fare altra deliberazione, perché la volontá di Dio lo costrigneva a ritornare in Italia personalmente. Fu deliberato nel medesimo consiglio che trenta navi, tra le quali una caracca grossissima detta la Normanda e un’altra caracca grossa della religione di Rodi, passassino dalla costa del mare Oceano ne’ porti di Provenza, dove si armassino trenta tra galee sottili e galeoni, per mettere con sí grossa armata nel reame di Napoli soccorso grandissimo di gente di vettovaglie di munizioni e di danari; e nondimeno che, non aspettando che questa fusse in ordine, si mandasse subito qualche navile carico di gente e di vettovaglie. Oltre a tutte le quali cose fu ordinato che a Milano andasse Rigault maestro di casa del re: perché il duca, benché non avesse dato le due caracche né permesso l’armarsi per il re a Genova, e restituito solamente i legni presi a Rapalle ma non le dodici galee state tenute nel porto di Genova, si era sforzato di scusarsi con la inubbidienza de’ genovesi, e tenuto continuamente con varie pratiche uomini suoi appresso al re; al quale aveva di nuovo mandato Antonio Maria Palavicino, affermando che era disposto a osservare l’accordo fatto, dimandando gli fusse prorogato il tempo di pagare al duca d’Orliens i cinquantamila ducati promessi in quella concordia. Dalle quali arti benché riportasse piccolo frutto, essendo notissima al re la mente sua, sí per l’altre azioni sí perché, per lettere e istruzioni sue che erano state intercette, era venuto a luce essere da lui stimolati continuamente il re de’ romani e i re di Spagna a muovere la guerra in Francia, nondimeno, sperandosi che forse il timore lo indurrebbe a quello da che era aliena la volontá, fu commesso a Rigault che, non disputando della inosservanza passata, gli significasse in potestá sua essere di cancellare la memoria dell’offese cominciando a osservare, rendendo le galee concedendo le caracche e permettendo l’armare a Genova; e gli soggiugnesse la deliberazione della passata del re, la quale sarebbe con gravissimo suo danno se, mentre gli era offerta la facoltá, non ritornasse a quella amicizia la quale il re si persuadeva che egli piú tosto per sospetti vani che per altra cagione avesse imprudentemente disprezzata.
Giá la fama degli apparati che si facevano, trapassata in Italia, aveva dato molta alterazione a’ collegati; e sopra tutti Lodovico Sforza, essendo il primo esposto all’impeto degl’inimici, si ritrovava in grandissima ansietá, inteso massime che, dopo la partita di Rigault dalla corte, il re con parole e dimostrazioni molto brusche aveva licenziato tutti gli agenti suoi. Per il che, rivoltandosi nella mente la grandezza del pericolo, e che tutti i travagli della guerra si riducevano nel suo stato, si sarebbe facilmente accomodato alle richieste del re se non l’avesse ritenuto il sospetto, per la coscienza dell’offese fattegli, per le quali era generata da ogni parte tale diffidenza, che e’ fusse piú difficile trovare mezzo di sicurtá per ciascuno che convenire negli articoli delle differenze; perché togliendosi alla sicurezza dell’uno quel che si consentisse per assicurare l’altro, niuno voleva rimettere nella fede di altri quel che l’altro recusava di rimettere nella sua. Cosí stringendolo la necessitá a prendere quel consiglio che gli era piú molesto, per cercare almeno d’allungare i pericoli, continuò con Rigault l’arti medesime che aveva usate insino allora; affermando molto efficacemente che farebbe ubbidire i genovesi ogni volta che il re desse nella cittá di Avignone sicurtá sufficiente per la restituzione delle navi, e che ciascuna delle parti promettesse, dando ostaggi per l’osservanza, che cose nuove in pregiudicio dell’altra non si tentassino: la quale pratica, continuata molti dí, ebbe finalmente, per varie cavillazioni e difficoltá che si interponevano, l’effetto medesimo che avevano avuto l’altre. Ma Lodovico non consumando questo tempo inutilmente mandò, mentre pendevano questi ragionamenti, uomini al re de’ romani per indurlo a passare in Italia con l’aiuto suo e de’ viniziani; e a Vinegia mandò imbasciadori a ricercargli che per provedere al pericolo comune concorressino a questa spesa, e che mandassino verso Alessandria i sussidi che fussino necessari per opporsi a’ franzesi: il che da loro fu offerto di fare prontissimamente. Ma non mostrorno giá la medesima facilitá nella passata del re de’ romani, poco amico alla loro republica, rispetto a quello possedevano in terra ferma appartenente allo imperio e alla casa di Austria; né si contentavano che a spese comuni si conducesse in Italia un esercito che in tutto dependesse da Lodovico: nondimeno, continuando Lodovico di farne instanza perché, oltre all’altre ragioni che lo movevano, le forze sole de’ viniziani nello stato di Milano gli erano sospette, dubitando quel senato che egli, il quale sapevano essere grandemente impaurito, non si precipitasse a riconciliarsi col re di Francia, prestò finalmente il suo consentimento, e mandò per la cagione medesima a Cesare imbasciadori. Temevano ancora i viniziani e il duca che i fiorentini, come il re avesse passato i monti, non facessino nella riviera di Genova qualche movimento; però ricercorono Giovanni Bentivogli che con trecento uomini d’arme, co’ quali era condotto da’ confederati, assaltasse da’ confini di Bologna i fiorentini, promettendogli che nel tempo medesimo sarebbono molestati da’ sanesi e dalle genti che erano in Pisa, e offerendogli di obligarsi, in caso che occupasse la cittá di Pistoia, a conservarvelo: di che benché il Bentivoglio desse loro speranza, nondimeno, avendone l’animo molto lontano, e temendo non poco della venuta de’ franzesi, mandò occultamente al re a scusarsi delle cose passate per la necessitá del sito nel quale è posta Bologna, e a offerire di volere dependere da lui, e di astenersi per rispetto suo da molestare i fiorentini.
Ma non bastava la volontá del re, benché ardentissima, a mettere a esecuzione le cose deliberate, con tutto che l’onore proprio e i pericoli del regno di Napoli ricercassino prestissima espedizione; perché il cardinale di San Malò, in cui mano era oltre al maneggio delle pecunie la somma di tutto il governo, benché apertamente non contradicesse, differiva tanto, con allungare i pagamenti necessari, tutte l’espedizioni che provisione alcuna a effetto non si conduceva; mosso, o per parergli migliore mezzo a perpetuare la sua grandezza, non facendo spesa alcuna che non appartenesse o all’utilitá presente o a’ piaceri del re, non avere cagione di proporre ogni dí difficoltá di cose e necessitá di danari, o perché, come molti dubitavano, corrotto da premi e da speranze, avesse secreta intelligenza o col pontefice o col duca di Milano: né a questo rimediavano i conforti e i comandamenti del re, pieni qualche volta di sdegno e di parole ingiuriose, perché conoscendo quale fusse la sua natura gli sodisfaceva con promesse contrarie agli effetti. E cosí, cominciata a ritardarsi per opera sua la esecuzione delle cose disegnate, si turborono quasi in tutto per uno accidente inaspettato che sopravenne. Imperocché alla fine del mese di maggio il re, quando ciascuno aspettava che non molto poi si movesse per passare in Italia, deliberò di andare a Parigi: allegando che, secondo il costume degli antichi re, voleva innanzi si partisse di Francia pigliare licenza con le cerimonie consuete da san Dionigi e, nel passare da Torsi, da san Martino; e che avendo disposto di passare in Italia abbondantissimo di danari, per non si ridurre nelle necessitá nelle quali era stato l’anno dinanzi, bisognava che inducesse l’altre cittá di Francia ad accomodarlo di danari con l’esempio della cittá di Parigi, dalla quale non otterrebbe essere accomodato se non vi andasse personalmente; e che approssimandosi in lá, farebbe piú sollecite a cavalcare le genti d’arme che si movevano di Normandia e di Piccardia: affermando che innanzi alla partita sua spedirebbe il duca d’Orliens, e che in termine di un mese sarebbe ritornato a Lione. Ma si credette che la piú vera e principale cagione fusse l’essere egli innamorato in camera della reina, la quale poco avanti era andata a Torsi con la sua corte. Né potettono i consigli de’ suoi né gli stretti prieghi, e quasi lagrime, degl’italiani rimuoverlo da questa deliberazione; i quali gli dimostravano quanto fusse dannoso il perdere il tempo opportuno alla guerra, massime in tanta necessitá de’ suoi nel regno napoletano, e quanto fusse perniciosa la fama che volerebbe per Italia che e’ si fusse allontanato quando doveva approssimarsi: variarsi per ogni piccolo accidente, per ogni leggiero romore, la riputazione delle imprese; ed essere molto difficile il ricuperarla quando è cominciata a declinare, quando bene si facessino poi effetti molto maggiori di quegli che gli uomini prima si erano promessi. I quali ricordi disprezzando, ed essendo soprastato un mese di piú a Lione, si mosse a quel cammino, non avendo espedito altrimenti il duca d’Orliens ma solo mandato in Asti con non molta gente il Triulzio, non tanto per le preparazioni della guerra quanto per stabilire nella sua divozione Filippo monsignore, succeduto nuovamente, per la morte del piccolo duca suo nipote, nella ducea di Savoia. Né si fece, innanzi alla partita sua, per le cose del regno altra provisione che di mandare con vettovaglie sei navi a Gaeta, dando speranza che presto le seguiterebbe l’armata grossa; e di provedere per mezzo di mercatanti a Firenze, benché tardi, quarantamila ducati per fargli pagare a Mompensieri: perché i svizzeri e i tedeschi avevano protestato che, non essendo pagati innanzi alla fine di giugno, passerebbono nel campo degli inimici. Rimasono a Lione il duca d’Orliens, il cardinale di San Malò e tutto il consiglio, con commissione di accelerare le provisioni: alle quali se il cardinale era proceduto lentamente in presenza del re, procedeva molto piú lentamente essendo assente.