Iliade (Monti)/Libro I: differenze tra le versioni

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Un ritardato marocchino con una giacca a quadri
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|TitoloOpera=Iliade (traduzione di Vincenzo Monti)
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|TitoloSezione=Libro Primo
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Cantami, o Diva, del Pelìde Achille<br />
l'ira funesta che infiniti addusse<br />
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco<br />
generose travolse alme d'eroi,<br />
e di cani e d'augelli orrido pasto<br />
lor salme abbandonò (così di Giove<br />
l'alto consiglio s'adempìa), da quando<br />
primamente disgiunse aspra contesa<br />
il re de' prodi Atride e il divo Achille.<br />
E qual de' numi inimicolli? Il figlio<br />
di Latona e di Giove. Irato al Sire<br />
destò quel Dio nel campo un feral morbo,<br />
e la gente perìa: colpa d'Atride<br />
che fece a Crise sacerdote oltraggio.<br />
Degli Achivi era Crise alle veloci<br />
prore venuto a riscattar la figlia<br />
con molto prezzo. In man le bende avea,<br />
e l'aureo scettro dell'arciero Apollo:<br />
e agli Achei tutti supplicando, e in prima<br />
ai due supremi condottieri Atridi:<br />
O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,<br />
gl'immortali del cielo abitatori<br />
concedanvi espugnar la Prïameia<br />
cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.<br />
Deh mi sciogliete la diletta figlia,<br />
ricevetene il prezzo, e il saettante<br />
figlio di Giove rispettate. - Al prego<br />
tutti acclamâr: doversi il sacerdote<br />
riverire, e accettar le ricche offerte.<br />
Ma la proposta al cor d'Agamennóne<br />
non talentando, in guise aspre il superbo<br />
accommiatollo, e minaccioso aggiunse:<br />
Vecchio, non far che presso a queste navi<br />
ned or né poscia più ti colga io mai;<br />
ché forse nulla ti varrà lo scettro<br />
né l'infula del Dio. Franca non fia<br />
costei, se lungi dalla patria, in Argo,<br />
nella nostra magion pria non la sfiori<br />
vecchiezza, all'opra delle spole intenta,<br />
e a parte assunta del regal mio letto.<br />
Or va, né m'irritar, se salvo ir brami.<br />
Impaurissi il vecchio, ed al comando<br />
obbedì. Taciturno incamminossi<br />
del risonante mar lungo la riva;<br />
e in disparte venuto, al santo Apollo<br />
di Latona figliuol, fe' questo prego:<br />
Dio dall'arco d'argento, o tu che Crisa<br />
proteggi e l'alma Cilla, e sei di Tènedo<br />
possente imperador, Smintèo, deh m'odi.<br />
Se di serti devoti unqua il leggiadro<br />
tuo delubro adornai, se di giovenchi<br />
e di caprette io t'arsi i fianchi opimi,<br />
questo voto m'adempi; il pianto mio<br />
paghino i Greci per le tue saette.<br />
Sì disse orando. L'udì Febo, e scese<br />
dalle cime d'Olimpo in gran disdegno<br />
coll'arco su le spalle, e la faretra<br />
tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo<br />
su gli omeri all'irato un tintinnìo<br />
al mutar de' gran passi; ed ei simìle<br />
a fosca notte giù venìa. Piantossi<br />
delle navi al cospetto: indi uno strale<br />
liberò dalla corda, ed un ronzìo<br />
terribile mandò l'arco d'argento.<br />
Prima i giumenti e i presti veltri assalse,<br />
poi le schiere a ferir prese, vibrando<br />
le mortifere punte; onde per tutto<br />
degli esanimi corpi ardean le pire.<br />
Nove giorni volâr pel campo acheo<br />
le divine quadrella. A parlamento<br />
nel decimo chiamò le turbe Achille;<br />
ché gli pose nel cor questo consiglio<br />
Giuno la diva dalle bianche braccia,<br />
de' moribondi Achei fatta pietosa.<br />
Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo<br />
levossi Achille piè-veloce, e disse:<br />
Atride, or sì cred'io volta daremo<br />
nuovamente errabondi al patrio lido,<br />
se pur morte fuggir ne fia concesso;<br />
ché guerra e peste ad un medesmo tempo<br />
ne struggono. Ma via; qualche indovino<br />
interroghiamo, o sacerdote, o pure<br />
interprete di sogni (ché da Giove<br />
anche il sogno procede), onde ne dica<br />
perché tanta con noi d'Apollo è l'ira:<br />
se di preci o di vittime neglette<br />
il Dio n'incolpa, e se d'agnelli e scelte<br />
capre accettando l'odoroso fumo,<br />
il crudel morbo allontanar gli piaccia.<br />
Così detto, s'assise. In piedi allora<br />
di Testore il figliuol Calcante alzossi,<br />
de' veggenti il più saggio, a cui le cose<br />
eran conte che fur, sono e saranno;<br />
e per quella, che dono era d'Apollo,<br />
profetica virtù, de' Greci a Troia<br />
avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo<br />
pien di senno parlò queste parole:<br />
Amor di Giove, generoso Achille,<br />
vuoi tu che dell'arcier sovrano Apollo<br />
ti riveli lo sdegno? Io t'obbedisco.<br />
Ma del braccio l'aita e della voce<br />
a me tu pria, signor, prometti e giura:<br />
perché tal che qui grande ha su gli Argivi<br />
tutti possanza, e a cui l'Acheo s'inchina,<br />
n'andrà, per mio pensar, molto sdegnoso.<br />
Quando il potente col minor s'adira,<br />
reprime ei sì del suo rancor la vampa<br />
per alcun tempo, ma nel cor la cova,<br />
finché prorompa alla vendetta. Or dinne<br />
se salvo mi farai. - Parla securo,<br />
rispose Achille, e del tuo cor l'arcano,<br />
qual ch'ei si sia, di' franco. Per Apollo<br />
che pregato da te ti squarcia il velo<br />
de' fati, e aperto tu li mostri a noi,<br />
per questo Apollo a Giove caro io giuro:<br />
nessun, finch'io m'avrò spirto e pupilla,<br />
con empia mano innanzi a queste navi<br />
oserà vïolar la tua persona,<br />
nessuno degli Achei; no, s'anco parli<br />
d'Agamennón che sé medesmo or vanta<br />
dell'esercito tutto il più possente.<br />
Allor fe' core il buon profeta, e disse:<br />
né d'obblïati sacrifici il Dio<br />
né di voti si duol, ma dell'oltraggio<br />
che al sacerdote fe' poc'anzi Atride,<br />
che francargli la figlia ed accettarne<br />
il riscatto negò. La colpa è questa<br />
onde cotante ne diè strette, ed altre<br />
l'arcier divino ne darà; né pria<br />
ritrarrà dal castigo la man grave,<br />
che si rimandi la fatal donzella<br />
non redenta né compra al padre amato,<br />
e si spedisca un'ecatombe a Crisa.<br />
Così forse avverrà che il Dio si plachi.<br />
Tacque, e s'assise. Allor l'Atride eroe<br />
il re supremo Agamennón levossi<br />
corruccioso. Offuscavagli la grande<br />
ira il cor gonfio, e come bragia rossi<br />
fiammeggiavano gli occhi. E tale ei prima<br />
squadrò torvo Calcante, indi proruppe:<br />
Profeta di sciagure, unqua un accento<br />
non uscì di tua bocca a me gradito.<br />
Al maligno tuo cor sempre fu dolce<br />
predir disastri, e d'onor vote e nude<br />
son l'opre tue del par che le parole.<br />
E fra gli Argivi profetando or cianci<br />
che delle frecce sue Febo gl'impiaga,<br />
sol perch'io ricusai della fanciulla<br />
Crisëide il riscatto. Ed io bramava<br />
certo tenerla in signoria, tal sendo<br />
che a Clitennestra pur, da me condutta<br />
vergine sposa, io la prepongo, a cui<br />
di persona costei punto non cede,<br />
né di care sembianze, né d'ingegno<br />
ne' bei lavori di Minerva istrutto.<br />
Ma libera sia pur, se questo è il meglio;<br />
ché la salvezza io cerco, e non la morte<br />
del popol mio. Ma voi mi preparate<br />
tosto il compenso, ché de' Greci io solo<br />
restarmi senza guiderdon non deggio;<br />
ed ingiusto ciò fôra, or che una tanta<br />
preda, il vedete, dalle man mi fugge.<br />
O d'avarizia al par che di grandezza<br />
famoso Atride, gli rispose Achille,<br />
qual premio ti daranno, e per che modo<br />
i magnanimi Achei? Che molta in serbo<br />
vi sia ricchezza non partita, ignoro:<br />
delle vinte città tutte divise<br />
ne fur le spoglie, né diritto or torna<br />
a nuove parti congregarle in una.<br />
Ma tu la prigioniera al Dio rimanda,<br />
ché più larga n'avrai tre volte e quattro<br />
ricompensa da noi, se Giove un giorno<br />
l'eccelsa Troia saccheggiar ne dia.<br />
E a lui l'Atride: Non tentar, quantunque<br />
ne' detti accorto, d'ingannarmi: in questo<br />
né gabbo tu mi fai, divino Achille,<br />
né persuaso al tuo voler mi rechi.<br />
Dunque terrai tu la tua preda, ed io<br />
della mia privo rimarrommi? E imponi<br />
che costei sia renduta? Il sia. Ma giusti<br />
concedanmi gli Achivi altra captiva<br />
che questa adegui e al mio desir risponda.<br />
Se non daranla, rapirolla io stesso,<br />
sia d'Aiace la schiava, o sia d'Ulisse,<br />
o ben anco la tua: e quegli indarno<br />
fremerà d'ira alle cui tende io vegna.<br />
Ma di ciò poscia parlerem. D'esperti<br />
rematori fornita or si sospinga<br />
nel pelago una nave, e vi s'imbarchi<br />
coll'ecatombe la rosata guancia<br />
della figlia di Crise, e ne sia duce<br />
alcun de' primi, o Aiace, o Idomenèo,<br />
o il divo Ulisse, o tu medesmo pure,<br />
tremendissimo Achille, onde di tanto<br />
sacrificante il grato ministero<br />
il Dio ne plachi che da lunge impiaga.<br />
Lo guatò bieco Achille, e gli rispose:<br />
Anima invereconda, anima avara,<br />
chi fia tra i figli degli Achei sì vile<br />
che obbedisca al tuo cenno, o trar la spada<br />
in agguati convegna o in ria battaglia?<br />
Per odio de' Troiani io qua non venni<br />
a portar l'armi, io no; ché meco ei sono<br />
d'ogni colpa innocenti. Essi né mandre<br />
né destrier mi rapiro; essi le biade<br />
della feconda popolosa Ftia<br />
non saccheggiâr; ché molti gioghi ombrosi<br />
ne son frapposti e il pelago sonoro.<br />
Ma sol per tuo profitto, o svergognato,<br />
e per l'onor di Menelao, pel tuo,<br />
pel tuo medesmo, o brutal ceffo, a Troia<br />
ti seguitammo alla vendetta. Ed oggi<br />
tu ne disprezzi ingrato, e ne calpesti,<br />
e a me medesmo di rapir minacci<br />
de' miei sudori bellicosi il frutto,<br />
l'unico premio che l'Acheo mi diede.<br />
Né pari al tuo d'averlo io già mi spero<br />
quel dì che i Greci l'opulenta Troia<br />
conquisteran; ché mio dell'aspra guerra<br />
certo è il carco maggior; ma quando in mezzo<br />
si dividon le spoglie, è tua la prima,<br />
ed ultima la mia, di cui m'è forza<br />
tornar contento alla mia nave, e stanco<br />
di battaglia e di sangue. Or dunque a Ftia,<br />
a Ftia si rieda; ché d'assai fia meglio<br />
al paterno terren volger la prora,<br />
che vilipeso adunator qui starmi<br />
di ricchezze e d'onori a chi m'offende.<br />
Fuggi dunque, riprese Agamennóne,<br />
fuggi pur, se t'aggrada. Io non ti prego<br />
di rimanerti. Al fianco mio si stanno<br />
ben altri eroi, che a mia regal persona<br />
onor daranno, e il giusto Giove in prima.<br />
Di quanti ei nudre regnatori abborro<br />
te più ch'altri; sì, te che le contese<br />
sempre agogni e le zuffe e le battaglie.<br />
Se fortissimo sei, d'un Dio fu dono<br />
la tua fortezza. Or va, sciogli le navi,<br />
fa co' tuoi prodi al patrio suol ritorno,<br />
ai Mirmìdoni impera; io non ti curo,<br />
e l'ire tue derido; anzi m'ascolta.<br />
Poiché Apollo Crisëide mi toglie,<br />
parta. D'un mio naviglio, e da' miei fidi<br />
io la rimando accompagnata, e cedo.<br />
Ma nel tuo padiglione ad involarti<br />
verrò la figlia di Brisèo, la bella<br />
tua prigioniera, io stesso; onde t'avvegga<br />
quant'io t'avanzo di possanza, e quindi<br />
altri meco uguagliarsi e cozzar tema.<br />
Di furore infiammâr l'alma d'Achille<br />
queste parole. Due pensier gli fêro<br />
terribile tenzon nell'irto petto,<br />
se dal fianco tirando il ferro acuto<br />
la via s'aprisse tra la calca, e in seno<br />
l'immergesse all'Atride; o se domasse<br />
l'ira, e chetasse il tempestoso core.<br />
Fra lo sdegno ondeggiando e la ragione<br />
l'agitato pensier, corse la mano<br />
sovra la spada, e dalla gran vagina<br />
traendo la venìa; quando veloce<br />
dal ciel Minerva accorse, a lui spedita<br />
dalla diva Giunon, che d'ambo i duci<br />
egual cura ed amor nudrìa nel petto.<br />
Gli venne a tergo, e per la bionda chioma<br />
prese il fiero Pelìde, a tutti occulta,<br />
a lui sol manifesta. Stupefatto<br />
si scosse Achille, si rivolse, e tosto<br />
riconobbe la Diva a cui dagli occhi<br />
uscìan due fiamme di terribil luce,<br />
e la chiamò per nome, e in ratti accenti,<br />
Figlia, disse, di Giove, a che ne vieni?<br />
Forse d'Atride a veder l'onte? Aperto<br />
io tel protesto, e avran miei detti effetto:<br />
ei col suo superbir cerca la morte,<br />
e la morte si avrà. - Frena lo sdegno,<br />
la Dea rispose dalle luci azzurre:<br />
io qui dal ciel discesi ad acchetarti,<br />
se obbedirmi vorrai. Giuno spedimmi,<br />
Giuno ch'entrambi vi difende ed ama.<br />
Or via, ti calma, né trar brando, e solo<br />
di parole contendi. Io tel predìco,<br />
e andrà pieno il mio detto: verrà tempo<br />
che tre volte maggior, per doni eletti,<br />
avrai riparo dell'ingiusta offesa.<br />
Tu reprimi la furia, ed obbedisci.<br />
E Achille a lei: Seguir m'è forza, o Diva,<br />
benché d'ira il cor arda, il tuo consiglio.<br />
Questo fia lo miglior. Ai numi è caro<br />
chi de' numi al voler piega la fronte.<br />
Disse; e rattenne su l'argenteo pomo<br />
la poderosa mano, e il grande acciaro<br />
nel fodero respinse, alle parole<br />
docile di Minerva. Ed ella intanto<br />
all'auree sedi dell'Egìoco padre<br />
sul cielo risalì fra gli altri Eterni.<br />
Achille allora con acerbi detti<br />
rinfrescando la lite, assalse Atride:<br />
Ebbro! cane agli sguardi e cervo al core!<br />
Tu non osi giammai nelle battaglie<br />
dar dentro colla turba; o negli agguati<br />
perigliarti co' primi infra gli Achei,<br />
ché ogni rischio t'è morte. Assai per certo<br />
meglio ti torna di ciascun che franco<br />
nella grand'oste achea contro ti dica,<br />
gli avuti doni in securtà rapire.<br />
Ma se questa non fosse, a cui comandi,<br />
spregiata gente e vil, tu non saresti<br />
del popol tuo divorator tiranno,<br />
e l'ultimo de' torti avresti or fatto.<br />
Ma ben t'annunzio, ed altamente il giuro<br />
per questo scettro (che diviso un giorno<br />
dal montano suo tronco unqua né ramo<br />
né fronda metterà, né mai virgulto<br />
germoglierà, poiché gli tolse il ferro<br />
con la scorza le chiome, ed ora in pugno<br />
sel portano gli Achei che posti sono<br />
del giusto a guardia e delle sante leggi<br />
ricevute dal ciel), per questo io giuro,<br />
e invïolato sacramento il tieni:<br />
stagion verrà che negli Achei si svegli<br />
desiderio d'Achille, e tu salvarli<br />
misero! non potrai, quando la spada<br />
dell'omicida Ettòr farà vermigli<br />
di larga strage i campi: e allor di rabbia<br />
il cor ti roderai, ché sì villana<br />
al più forte de' Greci onta facesti.<br />
Disse; e gittò lo scettro a terra, adorno<br />
d'aurei chiovi, e s'assise. Ardea l'Atride<br />
di novello furor, quando nel mezzo<br />
surse de' Pilii l'orator, Nestorre<br />
facondo sì, che di sua bocca uscièno<br />
più che mel dolci d'eloquenza i rivi.<br />
Di parlanti con lui nati e cresciuti<br />
nell'alma Pilo ei già trascorse avea<br />
due vite, e nella terza allor regnava.<br />
Con prudenti parole il santo veglio<br />
così loro a dir prese: Eterni Dei!<br />
Quanto lutto alla Grecia, e quanta a Prìamo<br />
gioia s'appresta ed a' suoi figli e a tutta<br />
la dardania città, quando fra loro<br />
di voi s'intenda la fatal contesa,<br />
di voi che tutti di valor vincete<br />
e di senno gli Achei! Deh m'ascoltate,<br />
ché minor d'anni di me siete entrambi;<br />
ed io pur con eroi son visso un tempo<br />
di voi più prodi, e non fui loro a vile:<br />
ned altri tali io vidi unqua, né spero<br />
di riveder più mai, quale un Drïante<br />
moderator di genti, e Piritòo,<br />
Cèneo ed Essadio e Polifemo uom divo,<br />
e l'Egìde Teseo pari ad un nume.<br />
Alme più forti non nudrìa la terra,<br />
e forti essendo combattean co' forti,<br />
co' montani Centauri, e strage orrenda<br />
ne fean. Con questi, a lor preghiera, io spesso<br />
partendomi da Pilo e dal lontano<br />
Apio confine, a conversar venìa,<br />
e secondo mie forze anch'io pugnava.<br />
Ma di quanti mortali or crea la terra<br />
niun potrìa pareggiarli. E nondimeno<br />
da quei prestanti orecchio il mio consiglio<br />
ed il mio detto obbedïenza ottenne.<br />
E voi pur anco m'obbedite adunque,<br />
ché l'obbedirmi or giova. Inclito Atride,<br />
deh non voler, sebben sì grande, a questi<br />
tor la fanciulla; ma ch'ei s'abbia in pace<br />
da' Greci il dato guiderdon consenti:<br />
né tu cozzar con inimico petto<br />
contra il rege, o Pelìde. Un re supremo,<br />
cui d'alta maestà Giove circonda,<br />
uguaglianza d'onore unqua non soffre.<br />
Se generato d'una diva madre<br />
tu lui vinci di forza, ei vince, o figlio,<br />
te di poter, perché a più genti impera.<br />
Deh pon giù l'ira, Atride, e placherassi<br />
pure Achille al mio prego, ei che de' Greci<br />
in sì ria guerra è principal sostegno.<br />
Tu rettissimo parli, o saggio antico,<br />
pronto riprese il regnatore Atride;<br />
ma costui tutti soverchiar presume,<br />
tutti a schiavi tener, dar legge a tutti,<br />
tutti gravar del suo comando. Ed io<br />
potrei patirlo? Io no. Se il fêro i numi<br />
un invitto guerrier, forse pur anco<br />
di tanto insolentir gli diero il dritto?<br />
Tagliò quel dire Achille, e gli rispose:<br />
Un pauroso, un vil certo sarei<br />
se d'ogni cenno tuo ligio foss'io.<br />
Altrui comanda, a me non già; ch'io teco<br />
sciolto di tutta obbedienza or sono.<br />
Questo solo vo' dirti, e tu nel mezzo<br />
lo rinserra del cor. Per la fanciulla<br />
un dì donata, ingiustamente or tolta,<br />
né con te né con altri il brando mio<br />
combatterà. Ma di quant'altre spoglie<br />
nella nave mi serbo, né pur una,<br />
s'io la niego, t'avrai. Vien, se nol credi,<br />
vieni alla prova; e il sangue tuo scorrente<br />
dalla mia lancia farà saggio altrui.<br />
Con questa di parole aspra tenzone<br />
levârsi, e sciolto fu l'acheo consesso.<br />
Con Patroclo il Pelìde e co' suoi prodi<br />
riede a sue navi nelle tende; e Atride<br />
varar fa tosto a venti remi eletti<br />
una celere prora colla sacra<br />
ecatombe. Di Crise egli medesmo<br />
vi guida e posa l'avvenente figlia;<br />
duce v'ascende il saggio Ulisse, e tutti<br />
già montati correan l'umide vie.<br />
Ciò fatto, indisse al campo Agamennóne<br />
una sacra lavanda: e ognun devoto<br />
purificarsi, e via gittar nell'onde<br />
le sozzure, e del mar lungo la riva<br />
offrir di capri e di torelli intere<br />
ecatombi ad Apollo. Al ciel salìa<br />
volubile col fumo il pingue odore.<br />
Seguìan nel campo questi riti. E fermo<br />
nel suo dispetto e nella dianzi fatta<br />
ria minaccia ad Achille, intanto Atride<br />
Euribate e Taltibio a sé chiamando,<br />
fidi araldi e sergenti, Ite, lor disse,<br />
del Pelìde alla tenda, e m'adducete<br />
la bella figlia di Brisèo. Se il niega,<br />
io ne verrò con molta mano, io stesso,<br />
a gliela tôrre: e ciò gli fia più duro.<br />
Disse; e il cenno aggravando in via li pose.<br />
Del mar lunghesso l'infecondo lido<br />
givan quelli a mal cuore, e pervenuti<br />
de' Mirmidóni alla campal marina<br />
trovâr l'eroe seduto appo le navi<br />
davanti al padiglion: né del vederli<br />
certo Achille fu lieto. Ambo al cospetto<br />
regal fermârsi trepidanti e chini,<br />
né far motto fur osi né dimando.<br />
Ma tutto ei vide in suo pensiero, e disse:<br />
Messaggeri di Giove e delle genti,<br />
salvete, araldi, e v'appressate. In voi<br />
niuna è colpa con meco. Il solo Atride,<br />
ei solo è reo, che voi per la fanciulla<br />
Brisëide qui manda. Or va, fuor mena,<br />
generoso Patròclo, la donzella,<br />
e in man di questi guidator l'affida.<br />
Ma voi medesmi innanzi ai santi numi<br />
ed innanzi ai mortali e al re crudele<br />
siatemi testimon, quando il dì splenda<br />
che a scampar gli altri di rovina il mio<br />
braccio abbisogni. Perocché delira<br />
in suo danno costui, ned il presente<br />
vede, né il poi, né il come a sua difesa<br />
salvi alle navi pugneran gli Achei.<br />
Disse; e Patròclo del diletto amico<br />
al comando obbedì. Fuor della tenda<br />
Brisëide menò, guancia gentile,<br />
ed agli araldi condottier la cesse.<br />
Mentre ei fanno alle navi achee ritorno,<br />
e ritrosa con lor partìa la donna,<br />
proruppe Achille in un subito pianto,<br />
e da' suoi scompagnato in su la riva<br />
del grigio mar s'assise, e il mar guardando<br />
le man stese, e dolente alla diletta<br />
madre pregando, Oh madre! è questo, disse,<br />
questo è l'onor che darmi il gran Tonante<br />
a conforto dovea del viver breve<br />
a cui mi partoristi? Ecco, ei mi lascia<br />
spregiato in tutto: il re superbo Atride<br />
Agamennón mi disonora; il meglio<br />
de' miei premi rapisce, e sel possiede.<br />
Sì piangendo dicea. La veneranda<br />
genitrice l'udì, che ne' profondi<br />
gorghi del mare si sedea dappresso<br />
al vecchio padre; udillo, e tosto emerse,<br />
come nebbia, dall'onda: accanto al figlio,<br />
che lagrime spargea, dolce s'assise,<br />
e colla mano accarezzollo, e disse:<br />
Figlio, a che piangi? e qual t'opprime affanno?<br />
Di', non celarlo in cor, meco il dividi.<br />
Madre, tu il sai, rispose alto gemendo<br />
il piè-veloce eroe. Ridir che giova<br />
tutto il già conto? Nella sacra sede<br />
d'Eezïon ne gimmo; la cittade<br />
ponemmo a sacco, e tutta a questo campo<br />
fu condotta la preda. In giuste parti<br />
la diviser gli Achivi, e la leggiadra<br />
Crisëide fu scelta al primo Atride.<br />
Crise d'Apollo sacerdote allora<br />
con l'infula del nume e l'aureo scettro<br />
venne alle navi a riscattar la figlia.<br />
Molti doni offerì, molte agli Achivi<br />
porse preghiere, ed agli Atridi in prima.<br />
Invan; ché preghi e doni e sacerdote<br />
e degli Achei l'assenso ebbe in dispregio<br />
Agamennón, che minaccioso e duro<br />
quel misero cacciò dal suo cospetto.<br />
Partì sdegnato il veglio; e Apollo, a cui<br />
diletto capo egli era, il suo lamento<br />
esaudì dall'Olimpo, e contra i Greci<br />
pestiferi vibrò dardi mortali.<br />
Perìa la gente a torme, e d'ogni parte<br />
sibilanti del Dio pel campo tutto<br />
volavano gli strali. Alfine un saggio<br />
indovin ne fe' chiaro in assemblea<br />
l'oracolo d'Apollo. Io tosto il primo<br />
esortai di placar l'ire divine.<br />
Sdegnossene l'Atride, e in piè levato<br />
una minaccia mi fe' tal che pieno<br />
compimento sortì. Gli Achivi a Crisa<br />
sovr'agil nave già la schiava adducono<br />
non senza doni a Febo; e dalla tenda<br />
a me pur dianzi tolsero gli araldi,<br />
e menâr seco di Brisèo la figlia,<br />
la fanciulla da' Greci a me donata.<br />
Ma tu che il puoi, tu al figlio tuo soccorri,<br />
vanne all'Olimpo, e porgi preghi a Giove,<br />
s'unqua Giove per te fu nel bisogno<br />
o d'opera aitato o di parole.<br />
Nel patrio tetto, io ben lo mi ricordo,<br />
spesso t'intesi glorïarti, e dire<br />
che sola fra gli Dei da ria sciagura<br />
Giove campasti adunator di nembi,<br />
il giorno che tentâr Giuno e Nettunno<br />
e Pallade Minerva in un con gli altri<br />
congiurati del ciel porlo in catene;<br />
ma tu nell'uopo sopraggiunta, o Dea,<br />
l'involasti al periglio, all'alto Olimpo<br />
prestamente chiamando il gran Centìmano,<br />
che dagli Dei nomato è Brïarèo,<br />
da' mortali Egeóne, e di fortezza<br />
lo stesso genitor vincea d'assai.<br />
Fiero di tanto onore alto ei s'assise<br />
di Giove al fianco, e n'ebber tema i numi,<br />
che poser di legarlo ogni pensiero.<br />
Or tu questo rammentagli, e al suo lato<br />
siedi, e gli abbraccia le ginocchia, e il prega<br />
di dar soccorso ai Teucri, e far che tutte<br />
fino alle navi le falangi achee<br />
sien spinte e rotte e trucidate. Ognuno<br />
lo si goda così questo tiranno;<br />
senta egli stesso il gran regnante Atride<br />
qual commise follìa quando superbo<br />
fe' de' Greci al più forte un tanto oltraggio.<br />
E lagrimando a lui Teti rispose:<br />
Ahi figlio mio! se con sì reo destino<br />
ti partorii, perché allevarti, ahi lassa!<br />
Oh potessi ozioso a questa riva<br />
senza pianto restarti e senza offese,<br />
ingannando la Parca che t'incalza,<br />
ed omai t'ha raggiunto! Ora i tuoi giorni<br />
brevi sono ad un tempo ed infelici,<br />
ché iniqua stella il dì ch'io ti produssi<br />
i talami paterni illuminava.<br />
E nondimen d'Olimpo alle nevose<br />
vette n'andrò, ragionerò con Giove<br />
del fulmine signore, e al tuo desire<br />
piegarlo tenterò. Tu statti intanto<br />
alle navi; e nell'ozio del tuo brando<br />
senta l'Achivo de' tuoi sdegni il peso.<br />
Perocché ieri in grembo all'Oceàno<br />
fra gl'innocenti Etïopi discese<br />
Giove a convito, e il seguîr tutti i numi.<br />
Dopo la luce dodicesma al cielo<br />
tornerà. Recherommi allor di Giove<br />
agli eterni palagi; al suo ginocchio<br />
mi gitterò, supplicherò, né vana<br />
d'espugnarne il voler speranza io porto.<br />
Partì, ciò detto; e lui quivi di bile<br />
macerato lasciò per la fanciulla<br />
suo mal grado rapita. Intanto a Crisa<br />
colla sacra ecatombe Ulisse approda.<br />
Nel seno entrati del profondo porto,<br />
le vele ammaïnâr, le collocaro<br />
dentro il bruno naviglio, e prestamente<br />
dechinâr colle gomone l'antenna,<br />
e l'adagiâr nella corsìa. Co' remi<br />
il naviglio accostâr quindi alla riva;<br />
e l'ancore gittate, e della poppa<br />
annodati i ritegni, ecco sul lido<br />
tutta smontar la gente, ecco schierarsi<br />
l'ecatombe d'Apollo, e dalla nave<br />
dell'onde vïatrice ultima uscire<br />
Crisëide. All'altar l'accompagnava<br />
l'accorto Ulisse, ed alla man del caro<br />
genitor la ponea con questi accenti:<br />
Crise, il re sommo Agamennón mi manda<br />
a ti render la figlia, e offrir solenne<br />
un'ecatombe a Febo, onde gli sdegni<br />
placar del nume che gli Achei percosse<br />
d'acerbissima piaga. - In questo dire<br />
l'amata figlia in man gli cesse; e il vecchio<br />
la si raccolse giubilando al petto.<br />
Tosto dintorno al ben costrutto altare<br />
in ordinanza statuîr la bella<br />
ecatombe del Dio; lavâr le palme,<br />
presero il sacro farro, e Crise alzando<br />
colla voce la man, fe' questo prego:<br />
Dio che godi trattar l'arco d'argento,<br />
tu che Crisa proteggi e la divina<br />
Cilla, signor di Tènedo possente,<br />
m'odi: se dianzi a mia preghiera il campo<br />
acheo gravasti di gran danno, e onore<br />
mi desti, or fammi di quest'altro voto<br />
contento appieno. La terribil lue,<br />
che i Dànai strugge, allontanar ti piaccia.<br />
Sì disse orando, ed esaudillo il nume.<br />
Quindi fin posto alle preghiere, e sparso<br />
il salso farro, alzar fêr suso in prima<br />
alle vittime il collo, e le sgozzaro.<br />
tratto il cuoio, fasciâr le incise cosce<br />
di doppio omento, e le coprîr di crudi<br />
brani. Il buon vecchio su l'accese schegge<br />
le abbrustolava, e di purpureo vino<br />
spruzzando le venìa. Scelti garzoni<br />
al suo fianco tenean gli spiedi in pugno<br />
di cinque punte armati: e come fûro<br />
rosolate le coste, e fatto il saggio<br />
delle viscere sacre, il resto in pezzi<br />
negli schidoni infissero, con molto<br />
avvedimento l'arrostiro, e poscia<br />
tolser tutto alle fiamme. Al fin dell'opra,<br />
poste le mense, a banchettar si diero,<br />
e del cibo egualmente ripartito<br />
sbramârsi tutti. Del cibarsi estinto<br />
e del bere il desìo, d'almo lïeo<br />
coronando il cratere, a tutti in giro<br />
ne porsero i donzelli, e fe' ciascuno,<br />
libagion colle tazze. E così tutto<br />
cantando il dì la gioventude argiva,<br />
e un allegro peàna alto intonando,<br />
laudi a Febo dicean, che nell'udirle<br />
sentìasi tocco di dolcezza il core.<br />
Fugato il sole dalla notte, ei diersi<br />
presso i poppesi della nave al sonno.<br />
Poi come il cielo colle rosee dita<br />
la bella figlia del mattino aperse,<br />
conversero la prora al campo argivo,<br />
e mandò loro in poppa il vento Apollo.<br />
Rizzâr l'antenna, e delle bianche vele<br />
il seno dispiegâr. L'aura seconda<br />
le gonfiava per mezzo, e strepitoso,<br />
nel passar della nave, il flutto azzurro<br />
mormorava dintorno alla carena.<br />
Giunti agli argivi accampamenti, in secco<br />
trasser la nave su la colma arena,<br />
e lunghe vi spiegâr travi di sotto<br />
acconciamente. Per le tende poi<br />
si dispersero tutti e pe' navili.<br />
Appo i suoi legni intanto il generoso<br />
Pelìde Achille nel segreto petto<br />
di sdegno si pascea, né al parlamento,<br />
scuola illustre d'eroi, né alle battaglie<br />
più comparìa; ma il cor struggea di doglia<br />
lungi dall'armi, e sol dell'armi il suono<br />
e delle pugne il grido egli sospira.<br />
Rifulse alfin la dodicesma aurora,<br />
e tutti di conserva al ciel gli Eterni<br />
fean ritorno, ed avanti iva il re Giove.<br />
Memore allor del figlio e del suo prego,<br />
Teti emerse dal mare, e mattutina<br />
in cielo al sommo dell'Olimpo alzossi.<br />
Sul più sublime de' suoi molti gioghi<br />
in disparte trovò seduto e solo<br />
l'onniveggente Giove. Innanzi a lui<br />
la Dea s'assise, colla manca strinse<br />
le divine ginocchia, e colla destra<br />
molcendo il mento, e supplicando disse:<br />
Giove padre, se d'opre e di parole<br />
giovevole fra' numi unqua ti fui,<br />
un mio voto adempisci. Il figlio mio,<br />
cui volge il fato la più corta vita,<br />
deh, m'onora il mio figlio a torto offeso<br />
dal re supremo Agamennón, che a forza<br />
gli rapì la sua donna, e la si tiene.<br />
Onoralo, ti prego, olimpio Giove,<br />
sapientissimo Iddio; fa che vittrici<br />
sien le spade troiane, infin che tutto<br />
e doppio ancora dagli Achei pentiti<br />
al mio figlio si renda il tolto onore.<br />
Disse; e nessuna le facea risposta<br />
il procelloso Iddio; ma lunga pezza<br />
muto stette, e sedea. Teti il ginocchio<br />
teneagli stretto tuttavolta, e i preghi<br />
iterando venìa: Deh, parla alfine;<br />
dimmi aperto se nieghi, o se concedi;<br />
nulla hai tu che temer; fa ch'io mi sappia<br />
se fra le Dee son io la più spregiata.<br />
Profondamente allora sospirando<br />
l'adunator de' nembi le rispose:<br />
Opra chiedi odiosa che nemico<br />
farammi a Giuno, e degli ontosi suoi<br />
motti bersaglio. Ardita ella mai sempre<br />
pur dinanzi agli Dei vien meco a lite,<br />
e de' Troiani aiutator m'accusa.<br />
Ma tu sgombra di qua, ché non ti vegga<br />
la sospettosa. Mio pensier fia poscia<br />
che il desir tuo si cómpia, e a tuo conforto<br />
abbine il cenno del mio capo in pegno.<br />
Questo fra' numi è il massimo mio giuro,<br />
né revocarsi, né fallir, né vana<br />
esser può cosa che il mio capo accenna.<br />
Disse; e il gran figlio di Saturno i neri<br />
sopraccigli inchinò. Su l'immortale<br />
capo del sire le divine chiome<br />
ondeggiaro, e tremonne il vasto Olimpo.<br />
Così fermo l'affar si dipartiro.<br />
Teti dal ciel spiccò nel mare un salto;<br />
Giove alla reggia s'avviò. Rizzârsi<br />
tutti ad un tempo da' lor troni i numi<br />
verso il gran padre, né veruno ardissi<br />
aspettarne il venir fermo al suo seggio,<br />
ma mosser tutti ad incontrarlo. Ei grave<br />
si compose sul trono. E già sapea<br />
Giuno il fatto del Dio; ch'ella veduto<br />
in segreti consigli avea con esso<br />
la figlia di Nerèo, Teti la diva<br />
dal bianco piede. Con parole acerbe<br />
così dunque l'assalse: E qual de' numi<br />
tenne or teco consulta, o ingannatore?<br />
Sempre t'è caro da me scevro ordire<br />
tenebrosi disegni, né ti piacque<br />
mai farmi manifesto un tuo pensiero.<br />
E degli uomini il padre e degli Dei<br />
le rispose: Giunon, tutto che penso<br />
non sperar di saperlo. Ardua ten fôra<br />
l'intelligenza, benché moglie a Giove.<br />
Ben qualunque dir cosa si convegna,<br />
nullo, prima di te, mortale o Dio<br />
la si saprà. Ma quel che lungi io voglio<br />
dai Celesti ordinar nel mio segreto,<br />
non dimandarlo né scrutarlo, e cessa.<br />
Acerbissimo Giove, e che dicesti?<br />
Riprese allor la maestosa il guardo<br />
veneranda Giunon: gran tempo è pure<br />
che da te nulla cerco e nulla chieggo,<br />
e tu tranquillo adempi ogni tuo senno.<br />
Or grave un dubbio mi molesta il core,<br />
che Teti, del marin vecchio la figlia,<br />
non ti seduca; ch'io la vidi, io stessa,<br />
sul mattino arrivar, sederti accanto,<br />
abbracciarti i ginocchi; e certo a lei<br />
di molti Achivi tu giurasti il danno<br />
appo le navi, per onor d'Achille.<br />
E a rincontro il signor delle tempeste:<br />
Sempre sospetti, né celarmi io posso,<br />
spirto maligno, agli occhi tuoi. Ma indarno<br />
la tua cura uscirà, ch'anzi più sempre<br />
tu mi costringi a disamarti, e questo<br />
a peggio ti verrà. S'al ver t'apponi,<br />
che al ver t'apponga ho caro. Or siedi, e taci,<br />
e m'obbedisci; ché giovarti invano<br />
potrìan quanti in Olimpo a tua difesa<br />
accorresser Celesti, allor che poste<br />
le invitte mani nelle chiome io t'abbia.<br />
Disse; e chinò la veneranda Giuno<br />
i suoi grand'occhi paurosa e muta,<br />
e in cor premendo il suo livor s'assise.<br />
Di Giove in tutta la magion le fronti<br />
si contristâr de' numi, e in mezzo a loro<br />
gratificando alla diletta madre<br />
Vulcan l'inclito fabbro a dir sì prese:<br />
Una malvagia intolleranda cosa<br />
questa al certo sarà, se voi cotanto,<br />
de' mortali a cagion, piato movete,<br />
e suscitate fra gli Dei tumulto.<br />
De' banchetti la gioia ecco sbandita,<br />
se la vince il peggior. Madre, t'esorto,<br />
benché saggia per te; vinci di Giove,<br />
vinci del padre coll'ossequio l'ira,<br />
onde a lite non torni, e del convito<br />
ne conturbi il piacer; ch'egli ne puote,<br />
del fulmine signore e dell'Olimpo,<br />
dai nostri seggi rovesciar, se il voglia;<br />
perocché sua possanza a tutte è sopra.<br />
Or tu con care parolette il molci,<br />
e tosto il placherai. - Surse, ciò detto,<br />
ed all'amata genitrice un tondo<br />
gemino nappo fra le mani ei pose,<br />
bisbigliando all'orecchio: O madre mia,<br />
benché mesta a ragion, sopporta in pace,<br />
onde te con quest'occhi io qui non vegga,<br />
te, che cara mi sei, forte battuta;<br />
ché allor nessuna con dolor mio sommo<br />
darti aìta io potrei. Duro egli è troppo<br />
cozzar con Giove. Altra fiata, il sai,<br />
volli in tuo scampo venturarmi. Il crudo<br />
afferrommi d'un piede, e mi scagliò<br />
dalle soglie celesti. Un giorno intero<br />
rovinai per l'immenso, e rifinito<br />
in Lenno caddi col cader del sole,<br />
dalli Sinzii raccolto a me pietosi.<br />
Disse; e la Diva dalle bianche braccia<br />
rise, e in quel riso dalla man del figlio<br />
prese il nappo. Ed ei poscia agli altri Eterni,<br />
incominciando a destra, e dal cratere<br />
il nèttare attignendo, a tutti in giro<br />
lo mescea. Suscitossi infra' Beati<br />
immenso riso nel veder Vulcano<br />
per la sala aggirarsi affaccendato<br />
in quell'opra. Così, fino al tramonto,<br />
tutto il dì convitossi, ed egualmente<br />
del banchetto ogni Dio partecipava.<br />
Né l'aurata mancò lira d'Apollo,<br />
né il dolce delle Muse alterno canto.<br />
Ratto, poi che del Sol la luminosa<br />
lampa si spense, a' suoi riposi ognuno<br />
ne' palagi n'andò, che fabbricati<br />
a ciascheduno avea con ammirando<br />
artifizio Vulcan l'inclito zoppo.<br />
E a' suoi talami anch'esso, ove qual volta<br />
soave l'assalìa forza di sonno,<br />
corcar solea le membra, il fulminante<br />
Olimpio s'avvïò. Quivi salito<br />
addormentossi il nume, ed al suo fianco<br />
giacque l'alma Giunon che d'oro ha il trono.
{{capitolo
|CapitoloPrecedente=
|NomePaginaCapitoloPrecedente=
|CapitoloSuccessivo=Libro Secondo
|NomePaginaCapitoloSuccessivo=Iliade/Libro II
}}
 
Un racconto di
 
Jan Vander Laenen (jan.vanderlaenen@skynet.be)
[[el:ΙΛΙΑΣ-Α]]{{interwiki-info|el|(vo)}}
 
[[fr:Iliade : Chant I]]
 
"L'abito fa il monaco."
 
(Proverbio fiammingo)
 
Eh si', spesso passo le mie notti solitarie in un bar malfamato dalle parti della stazione centrale; e per non stonare con l'arredamento e con i clienti, accetto con rassegnazione lo stile d'abbigliamento obbligatorio, vale a dire jeans e giubbotto di pelle. Di giorno, per fare la spesa al supermercato o per bighellonare nella Rue Neuve o in Place de la Monnaie o, ancora, per andare a caccia di letteratura nelle librerie, preferisco tutt'altro look, a mio avviso molto piu' fantasioso, un look che oserei definire da immigrante povero originario di un paese dell'est o del Marocco. Un tale guardaroba ci si puo' procurare ­ che non si sappia in giro! ­ senza problemi e senza dover spendere una fortuna, nei grandi magazzini invasi, giustappunto, dai suddetti immigrati, come C&A per esempio, "Chez Tati", o Blokker. Ed e' cosi' che mi sono recentemente regalato ­ con la prospettiva dell'estate imminente e per una cifra irrisoria ­ un paio di scarpe beige dalla punta quadrata che il Maigret di Simenon definirebbe color cacca d'oca, una canottiera lilla da indossare sotto una camicia bianca, ed una splendida giacca a quadri gialli e verdi. Taglia xxxl, ovviamente, dato che sono alto quasi due metri.
 
La ragione per la quale preferisco indossare questi panni a buon mercato malgrado la mia situazione finanziaria piuttosto felice? Forse per una forma di snobismo al contrario, visto che i miei genitori erano dei veri arricchiti abituati a maltrattare i loro tre figli fisicamente e psicologicamente in tutta sicurezza e senza il minimo senso di colpa dietro le facciate delle loro case borghesi e delle residenze estive, ma che li esibivano volentieri in pubblico ben vestiti, con giacche di montone e completi da sci il cui prezzo era equivalente al salario mensile di un muratore. O forse per via di alcune considerazioni pratiche, visto che nelle boutique alla moda non trovo quasi mai la mia taglia. O forse ancora per una certa dose di vigliaccheria, per non essere additato come omosessuale dai numerosi immigranti del centro di Bruxelles, benche' io trovi attraenti un buon numero di essi - soprattutto quelli dall'aria un po' ingenua - e che mi sia spesso capitato di incappare nelle loro avances sornione. Insomma, tutto questo per raccontarvi un giochetto erotico al quale ho partecipato circa un mese fa con uno di questi personaggi. Un marocchino, credo.
 
Alcuni lettori di Bruxelles probabilmente lo riconosceranno, il mio amante marocchino segreto, poiche' si tratta indubbiamente di un personaggio pittoresco: piuttosto piccolo di corporatura, sulla quarantina, un po' strabico, con un passamontagna di lana blu sulla testa, vestiti presi ai magazzini C&A ed una barba nera da fondamentalista. Non so chi si occupi di lui ne' dove abiti, ma resta il fatto che passa le sue giornate errando, che piova o faccia bel tempo, lavato e pulito, passeggiando allegro per le vie del centro, con un sorriso simpatico sulle labbra, anche se un po' da ritardato.
 
L'uomo in questione ­ arrossisco ancora di vergogna ­ mi ha sempre eccitato ed e' stato spesso l'oggetto delle mie fantasie masturbatorie, forse perche', proprio a causa della sua imbecillita', trasuda un'innocenza ed una beatitudine tristemente assenti nel narratore di quest'aneddoto piuttosto perverso. E mi e' spesso capitato di sorridergli per strada, o di salutarlo con un cenno del capo, sempre in attesa di un'occasione propizia per conoscerlo piu' approfonditamente.
 
Ebbene si', la pazienza e' ricompensata dal Signore, e l'occasione propizia si e' presentata circa un mese fa. Era il diciotto di maggio, il primo giorno caldo dell'anno, ed avevo allora indossato la giacca a quadri in tutta fretta per uscire a fare spese. E chi fu il primo individuo su cui m'imbattei uscendo dal portone di casa? Esattamente, il mio marocchino, strabico come al solito, con le scarpe lucidate a puntino ed una giacca identica alla mia ­ solo piu' piccola di tre taglie. E mi aveva appena intravisto quando scoppio' a ridere in modo un po' spasmodico, indicando con il dito il mio nuovo indumento.
 
"La stessa giacca," farfuglio'.
 
"Una stoffa proprio carina, non e' vero?" risposi.
 
Mi guardo' incantato, come un fratello.
 
"Ma un po' calda, purtroppo," dissi rapidamente, "avrai certamente sete.
 
Dimmi un po', posso offrirti qualcosa da bere?" "Ice-tea," esclamo' allegramente ­ una bevanda che tengo sempre in frigo per riconoscenza alla casa editrice che mi ha pubblicato il primo racconto in francese.
 
Ed e' cosi' che l'ho portato nel mio appartamento, dove tutti e due abbiamo appeso la nostra bella giacchetta a quadri all'attaccapanni del corridoio. Dopodiche', gli offrii una lattina di Ice-tea e lo feci accomodare sul divano.
 
In seguito non andai tanto per il sottile per approfittare del mio ritardato, forse perche' tutta la situazione mi aveva provocato fin troppo e mi resi conto che avrei dovuto sfruttare quell'occasione unica. "Io giocare con uccellino," fu tutto cio' che gli dissi mentre accarezzavo dolcemente la patta dei suoi pantaloni. Un deglutire beato ed una pronta erezione furono le sue reazioni infantili, ed in un istante finalmente ho potuto, senza incappare nella minima resistenza da parte sua, liberare l'uccellino imprigionato nei suoi pantaloni grigi di C&A. Sebbene tanto "ino", poi, non fosse! Non so se esista un rapporto fra le capacita' intellettuali e le dimensioni del pene, ma in ogni caso il mio marocchino aveva uno degli uccelli piu' grandi che abbia mai preso in mano ed in bocca nel corso della mia carriera di libertino, un esemplare circonciso veramente meraviglioso, dalle arterie voluttuosamente gonfie, con un equilibrio perfetto fra la lunghezza e la larghezza della verga e del glande, profumato di un odore igienico di sapone di Marsiglia e di lavanda provenzale.
 
Sfortunatamente, e verosimilmente a causa della sporadicita' con cui ha a che fare con i piaceri sessuali di questo genere, il mio marocchino venne dopo una decina di secondi appena di lavoro di bocca. Fatto che, in verita', mi spavento' un po'. Comincio' con un raglio prolungato che mi ricordava l'appello alla preghiera lanciato dai minareti, seguito da un grido lamentoso che i miei vicini non hanno potuto non sentire. E mentre svuotava dosi abbondanti di sperma nella mia bocca aperta e sui peli della mia barba, i suoi occhi neri sembravano ribaltarsi, e nel suo sguardo mi parve intravedere una sorta d'angoscia ancestrale, l'angoscia ancestrale di colui che prende coscienza del suo potere di creare un'altra creatura e di piazzarla su questa terra, essendo di conseguenza responsabile di questa creatura.
 
Poi scappo' in bagno, dove ­ l'ho spiato ­ avvolse il suo enorme uccello in mezzo rotolo di carta igienica e l'infilo' nuovamente nei pantaloni. E, senza degnarmi d'uno sguardo, prese la sua giacca in fretta e furia e fuggi' dal mio appartamento di peccatore.
 
Benche', la sua giacca? Quando, dopo essermi lussuriosamente leccato le dita ed i peli della barba, decisi finalmente di uscire a fare spese, mi accorsi infilandomi la giacca che la stoffa si strappava sotto le mie ascelle. Nella fuga, il mio marocchino aveva preso la mia e mi aveva lasciato il suo capo d'abbigliamento, piu' piccolo di tre taglie.
 
Beh, questa e' una storia vissuta, e se per caso incontraste un piccolo marocchino in Rue Neuve, vestito di una giacca a quadri troppo abbondante, con le maniche che gli nascondono le mani, e le tasche che cadono quasi all'altezza delle ginocchia, non dovete che attribuire la colpa sul sottoscritto narratore dalle fantasie sessuali devianti.