Oro incenso e mirra: differenze tra le versioni

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<center>'''II'''</center>
 
Tutte le volte che Lelio Fornari incontrava la principessa Irma riceveva il medesimo saluto.
 
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<center>'''III'''</center>
 
A questo modo Lelio Fornari era diventato l'amante della principessa Irma Montalto, però la loro relazione rimase per abbastanza tempo secreta malgrado le molte dicerie dei primi incontri. Quella violenza istantanea aveva sconfitto tutte le civetterie della donna e della dama, come accade quasi sempre quando il maschio rompendo il fragile inviluppo della educazione sociale riappare nella irresistibile sincerità della natura.
 
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<center>'''IV'''</center>
 
Lelio scrisse parecchie volte alla principessa dalla campagna, seguendola un po' dappertutto nelle sue peregrinazioni da Parigi alle stazioni balneari, poi alle due ville grandiose di Vignola e di Bazzano.
 
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<center>'''INCENSO'''</center>
 
<center>''INCENSO'''</center>
 
 
<center>'''I'''</center>
 
Un signore, che villeggiava presso il suo paesello nell'estate, lo aveva un giorno scherzosamente chiamato «vescovo», e quel nomignolo gli era rimasto.
 
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Il ragazzo provò alla gola uno stringimento improvviso di pianto a quella voce così sorda, ed entrò nella bottega.
 
<center'''II'''</center>
 
Nell'estate dell'anno seguente don Riva morì.
 
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Egli intontito di quanto aveva fatto si avviò rabbrividendo per tornare a casa; nella notte lo colse la febbre.
 
<center'''III'''</center>
 
La gente si attardava.
A quell'ora nella vasta chiesa, tutta parata di nero, l'ombra diventata più misteriosa non era rotta che laggiù ai lati dell'altare maggiore dalle due lampade sospese sotto la piccola cupola. Ma dinanzi alla terza cappella della navata sinistra, ove il feretro coperto d'immense ghirlande giaceva sopra un tappeto di fiori, il chiarore era intenso; centinaia di torce fiammeggiavano intorno a quella specie di recinto, che il parroco aveva avuto l'idea di costruirvi intorno coi panconi della navata principale per frenare la curiosità villana della gente. Un odore acuto d'incenso errava ancora fra gli aromi di tutti quei fiori nelle tenebre.
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Questo nomignolo lo ha perseguitato sino laggiù.
 
 
 
<center>'''MIRRA'''</center>
 
 
 
::''Fior di sambuco.''
 
::''Io filo intorno a te come fa il baco''
 
::''Per chiudermi e morir dentro il tuo buco.''
 
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E l'altro colse a volo l'occasione di spiegargli lungamente il caso della tragedia alfieriana.
 
<center>'''A POPPA'''</center>
Viveva solo a Manna, piccola città di provincia.
 
Da molti anni non usciva più di casa che ai bei giorni rifacendo invariabilmente la stessa passeggiata da Porta Santa Cecilia a Porta Maggiore, mentre i fanciulli lo guardavano con occhi curiosi e molte persone si scappellavano senza che egli le conoscesse. Poi il suo unico pronipote, un bimbo, che si era allevato negli ultimi anni, aveva naufragato mozzo di bastimento nelle Indie. Quando il vecchio soldato ricevette la notizia non diede che un crollo, forse il primo di tutta la sua vita; per molti giorni non comparve nella strada, quindi una mattina qualcuno lo aveva veduto dirigersi alla stazione e salire sul primo treno.
 
Era sempre così vestito, con un cappello a cilindro di felpa lunga, dalle ali molto ricurve, stranissimo al nostro tempo; con un soprabito nero a bavero dritto, chiuso sino al mento, con due file di bottoni metallici, frammezzo ai quali brillava la vecchia croce, e di un paio di pantaloni scuri, con una larga striscia fiorata sulle costole. Era andato alla stazione solo, rasato come al solito: aveva la grande canna di zucchero in mano, non portava seco valigia.
<center>'''A POPPA'''</center>
 
Dopo quella suprema sciagura il suo viso non aveva invecchiato, giacché a novant'anni non s'invecchia più: solamente i suoi occhi, già sguerniti di palpebre, parevano più fissi, e forse senza quel cravattone nero, a collare, la testa gli sarebbe caduta sul petto.
 
Viveva solo a Manna, piccola città di provincia.
Da molti anni non usciva più di casa che ai bei giorni rifacendo invariabilmente la stessa passeggiata da Porta Santa Cecilia a Porta Maggiore, mentre i fanciulli lo guardavano con occhi curiosi e molte persone si scappellavano senza che egli le conoscesse. Poi il suo unico pronipote, un bimbo, che si era allevato negli ultimi anni, aveva naufragato mozzo di bastimento nelle Indie. Quando il vecchio soldato ricevette la notizia non diede che un crollo, forse il primo di tutta la sua vita; per molti giorni non comparve nella strada, quindi una mattina qualcuno lo aveva veduto dirigersi alla stazione e salire sul primo treno.
Era sempre così vestito, con un cappello a cilindro di felpa lunga, dalle ali molto ricurve, stranissimo al nostro tempo; con un soprabito nero a bavero dritto, chiuso sino al mento, con due file di bottoni metallici, frammezzo ai quali brillava la vecchia croce, e di un paio di pantaloni scuri, con una larga striscia fiorata sulle costole. Era andato alla stazione solo, rasato come al solito: aveva la grande canna di zucchero in mano, non portava seco valigia. Dopo quella suprema sciagura il suo viso non aveva invecchiato, giacché a novant'anni non s'invecchia più: solamente i suoi occhi, già sguerniti di palpebre, parevano più fissi, e forse senza quel cravattone nero, a collare, la testa gli sarebbe caduta sul petto.
La stazione era deserta.
 
Allo sportellino chiese un biglietto per Tolone. L'impiegato, un forestiere giunto da poco in paese, non capì, mise fuori il naso curiosamente, e vedendosi dinanzi quella figura mummificata sorrise.
 
- Vuole andare in Francia?
 
- Sì.
 
- Allora - proseguì l'impiegato colla gentilezza metà orgogliosa e metà servile del proprio ufficio - bisogna prendere la linea di Firenze-Spezia-Genova… - e la spiegazione durò più di un minuto, mentre l'altro, che aveva posato sul davanzale dello sportellino una vecchia moneta da cento lire, appoggiato militarmente sulla canna, come sopra un fucile, sembrava ascoltarlo e non lo ascoltava.
 
Quando il treno arrivò, il bigliettinaio uscito sotto la tettoia per veder salire quello strano signore si appressò coll'intenzione di aiutarlo. I facchini, che per essere della città, conoscevano tutti il colonnello, parlavano sommessamente fra loro: il vecchio si era arrampicato da solo sul vagone reggendosi vigorosamente allo sportello. Il vagone era vuoto, il treno si fermava cinque minuti. All'ultimo i facchini, gli altri impiegati, il bigliettinaio, il capo stazione, tutta la poca gente di quell'ora si aggruppò in silenzio sotto quel vagone: il vecchio stava in piedi incorniciato dallo sportello nella luce smorta dell'alba, che dava un pallore di ritratto antico alla sua faccia. Poi la locomotiva gettò il solito fischio, e il treno oscillando fece traballare il colonnello: nell'istante medesimo tutto quel crocchio pallido di una indefinibile emozione si traeva macchinalmente il cappello come per un supremo saluto. Parve che il colonnello si rovesciasse; ma improvvisa la sua mano, tagliando coll'antico gesto automatico l'aria fuori dallo sportello, fece un saluto militare, che il treno già in moto interruppe.
 
La locomotiva fischiava ancora.
 
Il colonnello sedette nel vagone vuoto colla canna fra le mani e il mento sulla canna.
 
Così viaggiò più di venti ore: giunse a Tolone.
 
Nel porto molti bastimenti arrivavano e partivano; gliene fu indicato uno che faceva rotta per il Capo di Buona Speranza. Era un vapore inglese, l'«INFLEXIBLE». Quando il bastimento fu al largo, il colonnello rimasto insensibile al tramestio della partenza andò alla punta di poppa e stette guardando verso la Francia.
 
Naturalmente egli fu subito una meraviglia a bordo.
 
I passeggeri, francesi ed inglesi, ammirati della sua alta figura, cui l'abbigliamento e la croce davano quasi un carattere di apparizione, si domandavano sussurrando dove mai quel soldato di quasi un secolo potesse andare. Egli non parlava con nessuno. Il suo occhio fisso sull'infinito del mare pareva inerte, la sua fisonomia era immobile. Ma sebbene il mare fosse agitato, e il vapore avesse un forte rollìo, e molti soffrissero il mal di mare, il suo passo pareva quello di un viaggiatore rotto a tutte le traversate.
 
All'indomani un'altra curiosità venne a contendergli il primato.
 
Era un bel giovane biondo, di statura atletica, coi capelli lunghi a riccioli, che contrastavano colla severa eleganza del suo soprabito nero. Il volto illuminato da due grandi occhi azzurri, pieni di riverberi freddi come quelli di un blocco di ghiaccio al sole, era quasi macilento; aveva il mento quadro, il naso aquilino, e una striscia bianca e sottile di cicatrice, che dall'orecchio sinistro gli si perdeva nelle frequenti contrazioni della bocca. Ma la sua macilenza finiva al viso, sotto aveva un collo da toro e due spalle da Ercole. Al momento d'imbarcarsi nessuno gli aveva badato, il mattino seguente tutti lo ammiravano.
Era un bel giovane biondo, di statura atletica, coi capelli lunghi a riccioli, che contrastavano colla severa eleganza del suo soprabito nero. Il volto illuminato da due grandi occhi azzurri, pieni di riverberi freddi come quelli di un blocco di ghiaccio al sole, era quasi macilento; aveva il mento quadro, il naso aquilino, e una striscia bianca e sottile di cicatrice, che dall'orecchio sinistro gli si perdeva nelle frequenti contrazioni della bocca.
 
Ma la sua macilenza finiva al viso, sotto aveva un collo da toro e due spalle da Ercole. Al momento d'imbarcarsi nessuno gli aveva badato, il mattino seguente tutti lo ammiravano.
 
Egli passeggiava sul ponte come assorto in una idea senza accorgersi degli altri, a un tratto s'imbatté nel colonnello.
 
- Voi foste un soldato di Napoleone I, signore? - gli chiese con moto repentino in eccellente francese.
 
- Lo sono - ribatté il colonnello con voce lenta e fredda.
 
Quegli stava per replicare, ma si rattenne: il colonnello passò oltre.
 
Alcune signore avevano avvertito quello scambio di parole senza intenderle, quindi il colonnello non si vide più per quella giornata. Un'altra mattina comparve all'alba sul ponte, poi si accostò al pilota e gli domandò indicandogli un'isola già oltrepassata:
 
- Si chiama?
 
- L'Assunzione.
 
- Questo - mormorò - sarebbe stato il nome per la sua isola! -
 
Tutto quel giorno il tempo fu cattivo, soffiavano molti venti, il mare aveva come dei muggiti d'impazienza, delle onde colleriche, le quali si rompevano schiumando contro la chiglia del vapore. Molti passeggeri divennero inquieti, il cielo era quasi bianco di serenità. Poi venne la sera e il sole sparve improvvisamente all'orizzonte come inghiottito da un vortice.
 
A mezzanotte il ponte era deserto.
 
Il colonnello seduto a poppa volgendovi le spalle guardava innanzi a sé nel buio; il vapore ansava, ma sotto il suo rullìo si sentiva sempre il silenzio del mare.
 
Improvvisamente una figura nera gli si fermò dinanzi, parve attendere un istante, quindi gli sedette vicino.
 
- Io sono di Mosca - disse poi. - Eravate voi, signore, della Grande Armata contro la Russia?
 
- Sì.
 
Il giovane si alzò, gli prese una mano e recandosela repentinamente alle labbra esclamò:
 
- Permettetemi, permettetemi, signore! Noi, l'ultimo popolo nella storia d'Europa, dobbiamo il nostro attuale risveglio a Napoleone. Voi ci avete invasi, ci avete sconfitti, perché la civiltà sconfiggerà sempre la barbarie; poi le nostre nevi vi copersero, il nostro ghiaccio vi gelò. Noi v'inseguimmo come lupi, arrivammo sino a Parigi, e Parigi ci rivelò a noi stessi. Allora sentendo di essere barbari cessammo di esserlo. Voi eravate, signore, della grande campagna!
- Permettetemi, permettetemi, signore! Noi, l'ultimo popolo nella storia d'Europa, dobbiamo il nostro attuale risveglio a Napoleone. Voi ci avete invasi, ci avete sconfitti, perché la civiltà sconfiggerà sempre la barbarie; poi le nostre nevi vi copersero, il nostro ghiaccio vi gelò. Noi v'inseguimmo come lupi, arrivammo sino a Parigi, e Parigi ci rivelò a noi stessi.
Allora sentendo di essere barbari cessammo di esserlo. Voi eravate, signore, della grande campagna!
 
- Sono stato di tutte.
 
- Tutte! - proruppe guardandolo con ammirazione: - a tutte le battaglie, a tutti gli assedi, da Madrid a Mosca, da San Giovanni d'Acri a Waterloo!
 
- A tutte - rispose il vecchio con un accento, che sembrava uscire da un sogno.
 
- Quale epopea e quale grandezza per Napoleone se invece di essere un conquistatore fosse stato un apostolo come la storia gl'imponeva! Ma fu ben punito: Sant'Elena è stata la prigione del tiranno.
 
- Napoleone non fu mai prigioniero - tuonò il vecchio; - nessuno lo batté mai veramente: solo qualche volta noi ci trovammo in troppo pochi o morimmo in troppi per poter vincere, ecco tutto! Gl'Inglesi, che lo tradirono sulla parola, non osarono tenerlo, e lo misero sopra uno scoglio coll'Oceano per sentinella. Eppure - mormorò con una pausa, quasi parlando coi propri ricordi - gl'Inglesi sono buoni soldati! -
 
E la conversazione cadde; ma il giovane, che evidentemente vi si appassionava, tentò di riannodarla.
 
- Il mondo è mutato: alle battaglie sanguinose stanno per succedere le lotte feconde del lavoro. Tutti i tiranni d'Europa, meno il nostro, hanno dovuto transigere col popolo, la libertà arriva da tutte le parti e scalza il vecchio edificio del privilegio: non più guerre dinastiche, non più oziosi e signori, prepotenti e mezzani. Che tutti lavorino e siano liberi, la donna diventi uguale all'uomo, per unica patria il mondo. Benché con linguaggio diverso, tutti diremo la stessa parola, c'intenderemo negli scopi e nei mezzi: Napoleone non ha voluto credere al vapore, e oggi il vapore vale più di tutte le sue vittorie.
 
- Che! - proruppe il vecchio, scagliando sul giovane uno sguardo, di cui il bagliore brillò nelle tenebre. La canna gli tremava nelle mani, parve voler prorompere, poi si rivolse verso il mare con un gran gesto.
 
La notte era fosca, il mare ascoltava.
 
- Vi ho offeso? - mormorò umilmente il giovane.
 
Il vecchio si piegò:
 
- Siete russo, avete detto: comanda ancora lo czar a Pietroburgo?
 
- Per poco! - ribatté a denti stretti con un suono che parve di bramito.
 
- A Parigi che cosa c'è?
 
- La Repubblica.
 
- E prima?
 
- La Comune.
 
- Che cosa è? Che cosa ha fatto?
 
- La Comune - replicò l'altro con accento entusiasta - è l'uguaglianza di tutti nel lavoro e nella retribuzione.
 
- Ne parlavano anche prima di Napoleone: che cosa ha fatto?
 
- Ha abbattuto la sua colonna - rispose il giovane punto dal freddo di quella indifferenza.
 
Il vecchio non ebbe che un fremito.
 
- Nemmeno i vermi avranno rispettato il suo cadavere! L'Europa è dunque come egli l'ha lasciata. Napoleone solo poteva farne un impero; era la sua idea, noi l'abbiamo seguita dappertutto. Io aveva quindici anni quand'egli mi prese nel suo esercito, camminavo quasi nascosto nell'ombra della bandiera. Allora un sergente valeva un re! A Roma abbiamo battuto il papa, alle Piramidi abbiamo sconfitto Maometto, abbiamo trionfato dovunque: egli guardava, noi vincevamo. A Madrid, quando l'imperatore ha fatto scoperchiare la tomba di Carlo V, io ero lì: a Vienna ho visto l'imperatore Francesco seguire Napoleone col cappello in mano, a Berlino pigliammo la spada di Federico, da Mosca ci trasportammo dietro nella ritirata la grande croce d'Ivano il Terribile.
 
- E la perdeste.
 
- La buttammo in un lago, Napoleone buttava via tutto, le croci e le corone, i reggimenti e gl'imperi. Che cosa credete che sia un regno? Ci avevano messo dei secoli a farlo, noi lo conquistavamo in una settimana. Noi eravamo la Grande Armata, il resto era il mondo. Se Napoleone non fosse morto giovane, l'avremmo preso tutto, saremmo andati per le Indie e ritornati per l'America. Tutti i popoli ci aspettavano.
 
- E che cosa avreste recato loro? -
 
Il vecchio sostò, poi guardandolo serenamente rispose:
 
- Napoleone.
 
- Comprendo - proseguì l'altro rattenuto un istante da quella immensa parola. - Il vostro è stato un gran sogno, ma la nostra realtà è anche più grande. Voi eravate la gloria e noi siamo la libertà, voi eravate l'esercito e noi siamo la moltitudine: voi siete stati gli ultimi conquistatori della storia. La guerra millenaria dell'umanità condensandosi in uno sforzo supremo ha prodotto le vostre battaglie; ora la guerra dei popoli è conchiusa e comincia quella delle classi: la prima condensò le nazioni, la seconda le dissolverà in un solo popolo. Una volta il soldato si batteva per il generale, domani vincerà per se stesso.
- Comprendo - proseguì l'altro rattenuto un istante da quella immensa parola. - Il vostro è stato un gran sogno, ma la nostra realtà è anche più grande. Voi eravate la gloria e noi siamo la libertà, voi eravate l'esercito e noi siamo la moltitudine: voi siete stati gli ultimi conquistatori della storia. La guerra millenaria dell'umanità condensandosi in uno sforzo supremo ha prodotto le vostre battaglie; ora la guerra dei popoli è conchiusa e comincia quella delle classi: la prima condensò le nazioni, la seconda le dissolverà in un solo popolo.
Una volta il soldato si batteva per il generale, domani vincerà per se stesso.
 
Il vecchio evidentemente affaticato fece uno sforzo.
 
- Vedete là quella costellazione? Un giorno la chiameranno forse di Napoleone: io ci sono, voi con chi siete?
 
- Sono nichilista! - Poi abbassando la voce soggiunse: - Noi lavoriamo nel secreto a rovinare il vecchio impero per costruire la giovane Russia, cospiratori nell'ombra, martiri al sole.
 
- Le vostre armi?
 
- Tutte quelle che un uomo può usare.
 
- Avete vinto nessuna battaglia?
 
- Abbiamo ucciso un imperatore.
 
- Ma l'impero è rimasto.
 
E il vecchio non parlò più.
 
Il mare era buio, le stelle brillavano ancora. Passarono forse due ore senza che i due strani interlocutori, caduti in una meditazione, forse profonda come quel mare, e scintillante di pensieri come il cielo di stelle, parlassero. Il vapore avanzava sempre agitando nell'ombra un pennacchio di fumo.
 
Poi il vecchio mormorò:
 
- Sono tutti morti… - e la testa gli ricadde pesantemente sopra le mani congiunte sulla canna, come sotto il peso di quell'enorme poema, del quale era l'ultimo verso, di quei due milioni e mezzo di soldati, ai quali solo era sopravvissuto.
 
In quel momento l'alba cominciava a spuntare; lontano, in fondo all'orizzonte, una macchia bruna ed immobile poteva essere un'isola.
 
- Eccola! - esclamò il giovane levandosi.
 
La faccia del vecchio raggiò.
 
Il mare mormorava, l'alba cresceva, il vapore rantolava sordamente. Allora il vecchio alzò ambo le mani come invocando e una lagrima, l'ultima, gli scese dagli occhi appannati. L'altro lo guardò trasalendo. Il vecchio soldato si trasfigurava: i primi rossori dell'alba sembravano vampate di cannoni lontani, l'onde avevano dei fremiti di battaglia, la costellazione era scomparsa, quando uno scoppio immenso squarciò l'Oceano e il sole sfolgorò.
 
- Viva Napoleone! - gridò il vecchio salutando militarmente come se lo pigliasse per il fantasma del morto imperatore.
 
Il sole saliva sopra Sant'Elena.
 
- Andate a visitare la sua tomba? - domandò il giovane.
 
- A morirvi. Egli è stato il primo, io sono l'ultimo.
 
E fu l'ultima parola.
 
<center>'''IL CANARINO'''</center>
 
 
 
IL CANARINO
 
 
Il magnifico gatto d’Angora tornò a sdraiarsi sullo sgabello.
 
Ella riprese il libro dal tavolo, e abbandonando il capo sulla spalliera con un morbido atto di civetteria, che contrastava colla dura marmorea bellezza del suo volto, riprese:
 
- Bonghi ha ragione: naturalmente, voi, suo avversario politico e filosofico, non potrete convenirne, troverete forse questa sua prefazione al Fedone fiacca e pesante, ma chi potrebbe oggi scriverne una degna? Forse noi non lo possiamo più.
 
- Perchè?
 
- Non me lo domandate, giacchè lo sapete fin troppo. Io, una signora, che ha letto poco e capito meno, non posso spiegarvelo, ma noi sentiamo oggi diversamente dai greci, giudichiamo con altri criteri, amiamo un'altra bellezza. Nessun oratore parlando alla Camera si fa accompagnare da un flauto, nessun avvocato come Iperide sveste oggi la propria accusata davanti alle Assise: il nostro abbigliamento troppo complicato darebbe tempo ai carabinieri d’intervenire, mentre la stessa accusata non sentirebbe forse più la forza di tale argomento.
 
- Siete ben sicura che l’aneddoto d'Iperide non sia una favola? - egli ribattè cercando evidentemente d'irritarla.
 
- In questo caso non sarebbe che più vera: credete che se ne potrebbe inventare una simile sui nostri giurati? Bonghi ha tradotto Platone…
 
- Perchè?
 
- Se mi aveste domandato per chi, vi avrei risposto: per noi, per tutti coloro, che ignorano il greco; vedete bene che dedica la prefazione alla principessa di Teano, la più bella signora d'Italia. Certo una traduzione dovrebbe essere come un ritratto, ma Bonghi non è un artista, non sarà forse nemmeno un filosofo, come voi sostenete, però è un ingegno. Come quegli scienziati, che vanno a studiare le flore dei paesi lontani e ritornano con una cassetta di fiori secchi, egli ci reca un Platone vizzo, senza colore e senza profumo. Non importa, io ringrazio Bonghi.
 
- Ma egli - proseguì l’illustre critico, rattenendo un moto di dispetto ed ammirando involontariamente la superba bellezza della duchessa - pretende di tradurre davvero. Non è il gentiluomo, che tenta l’impossibile per una signora affrontando magari il ridicolo e trionfandone con un sorriso. Voi siete troppo buona con lui, e vi dimenticate che il nostro secolo possiede ancora un uomo capace di tradurre Platone: perchè non lo ha voluto? Indovinate il suo nome?
 
- E chi non indovinerebbe? Vi sono forse due scrittori come lui? Come mi dispiacque di vederlo a Firenze per il congresso degli orientalisti! Io, che me lo ero immaginato con una bella testa di filosofo antico ammorbidita da una eleganza femminile, non vidi che un fattore volgare ed atticciato, cui l'essere stato quasi prete dava ancora un impaccio indefinibile, e due occhi troppo belli facevano una fisonomia inaccettabile. Evidentemente quegli occhi li aveva rubati.
 
- A chi?
 
- Ad una donna, che avrebbe dovuto essere un poeta se Dio avesse consentito alle donne di esprimere la poesia invece d'ispirarla. Avete ragione Renan solo poteva tradurre Platone. Vi ricordate la sua preghiera sull'Acropoli di Atene? Avete ancora letto l’ultimo capitolo del suo Ecclesiaste? È uscito ieri. La lingua francese può rendere la greca? A giudicare da Cousin m’hanno detto di no: a leggere Renan io, che non so il greco, affermo intrepidamente di sì.
 
- Forse Renan non ha mai ricevuto complimento più bello. Invano Zola disperato d’imitarlo tenta d'impicciolirlo paragonandolo a Gauthier: Renan scrive e Gauthier bulina, a Gauthier il pensiero deriva quasi sempre dalla frase, Renan ha la frase del proprio pensiero. La loro lingua è diversa: quella di Gauthier a girandole di fiori e di fuochi, piena di ricercatezze recondite e profumate, di parole rare come le gemme, scoppiettanti d’iridi e di baleni. I suoi periodi oscillano come incensieri, in tutti i suoi disegni predomina il rabesco, la confusione prodiga ed inesauribile dell’ornato, la ricchezza che impazza nella ricchezza, la melodia che si perde nel labirinto delle variazioni.
 
- Vi è del Talberg in lui.
 
- Forse… Renan è semplice, non si può essere bello altrimenti. Guardate Zola, che combatte Gauthier e Victor Hugo: ebbene, il suo stile è una fusione dei loro due, talvolta nelle qualità più spesso nei difetti, mentre la sua arte discende da Balzac, che confessa, e dai romanzieri inglesi, che nega. La sua originalità di artista e di pensatore sta nei soggetti prescelti; Zola oggi è il più grande perchè è il più moderno. Un passo ancora e le finezze linguistiche e sensistiche di Gauthier si cambieranno pei Goncourt in vanità di astruserie, che annebbieranno loro sovente la verità dei quadri. Il fino diventerà impalpabile, l’indicibile sarà detto, ma l’incompreso sarà aumentato.
 
La duchessa ebbe un sorriso.
 
- E Renan? Parlatemi di Renan, di questo uomo, che discutendo è sempre della opinione del proprio avversario.
 
- Vi piace questa ultima formula del suo scetticismo?
 
- Se tutti gli uomini fossero scettici con noi alla sua maniera, e se Renan fosse bello!
 
- Lo è. A chi paragonarlo per farvelo meglio sentire? Egli non è un pensatore nel senso altissimo della parola, non ha il genio, che apre o chiude una epoca. Tutte le creazioni sono informi, tutte le sintesi incompiute: nelle prime la forma recalcitra, nelle seconde la materia sfugge. Egli non ha inventato nulla, ma sa quasi tutto, ha percorso la storia e la geografia del mondo: l'Oriente gli ha ceduto coi propri colori le sorgenti della poesia e della pittura, la Grecia gli ha dato la bellezza, Roma antica il senno dell'equità, la Germania moderna la critica per tutte le dottrine. Scettico vero, egli concilia in sè stesso le contraddizioni di tutti i sistemi, come la vita risolve nel proprio fatto l’antagonismo di tutte le forze. Michelet ha detto che la storia è una resurrezione, ma scrivendola non ha sempre potuto trionfare della morte; Renan ha giudicato la vita un romanzo, e ha scritto quello di un uomo oggi ancora creduto da quasi tutti un Dio. Il romanzo è per lo più una tragedia indebolita, nella quale la disperazione diventa malinconia e il singhiozzo sorriso. Renan sorride. Egli credente solo nella vita, non ne accetta che la formula più alta, impossibile a tutti i sistemi, la bellezza. La vita è un fatto che la scienza cerca di decomporre, la storia di raccontare, l'arte di ripetere: l'arte è ancora la più fortunata. Forse Schelling aveva ragione affermando in essa l'ultimo momento del pensiero, se la creazione fu il primo momento della vita.
- Lo è. A chi paragonarlo per farvelo meglio sentire? Egli non è un pensatore nel senso altissimo della parola, non ha il genio, che apre o chiude una epoca. Tutte le creazioni sono informi, tutte le sintesi incompiute: nelle prime la forma recalcitra, nelle seconde la materia sfugge. Egli non ha inventato nulla, ma sa quasi tutto, ha percorso la storia e la geografia del mondo: l'Oriente gli ha ceduto coi propri colori le sorgenti della poesia e della pittura, la Grecia gli ha dato la bellezza, Roma antica il senno dell'equità, la Germania moderna la critica per tutte le dottrine. Scettico vero, egli concilia in sè stesso le contraddizioni di tutti i sistemi, come la vita risolve nel proprio fatto l’antagonismo di tutte le forze. Michelet ha detto che la storia è una resurrezione, ma scrivendola non ha sempre potuto trionfare della morte; Renan ha giudicato la vita un romanzo, e ha scritto quello di un uomo oggi ancora creduto da quasi tutti un Dio. Il romanzo è per lo più una tragedia indebolita, nella quale la disperazione diventa malinconia e il singhiozzo sorriso. Renan sorride. Egli credente solo nella vita, non ne accetta che la formula più alta, impossibile a tutti i sistemi, la bellezza. La vita è un fatto che la scienza cerca di decomporre, la storia di raccontare, l'arte di ripetere: l'arte è ancora la più fortunata.
Forse Schelling aveva ragione affermando in essa l'ultimo momento del pensiero, se la creazione fu il primo momento della vita.
 
- Oh!
 
- Non mi credete? Ritorniamo dunque a Renan. Che direbbe oggi di lui Balzac morto nell'ammirazione di Gauthier? Uno scrittore per diventare veramente bello non deve essere novatore né del pensiero, né della forma; forse questa affermazione scritta susciterebbe polemiche e spropositi, ma io mi vi ostino perchè ogni individuo non può essere perfetto che adulto. La Grecia rappresenta la perfezione del pensiero moderno, quella del nostro secolo non so dove o quando avverrà. Uno scrittore per sperare di essere perfetto deve trovare tutto fatto attorno a sé, nel meriggio di un sistema, il quale abbia felicemente maturato tutto lo spirito di un popolo. Vedete, Renan giunge dopo che i romantici hanno rinnovellato la vecchia lingua classica e prima che i nuovi naturalisti la rimettano nel crogiuolo: ecco forse perché egli scrive meglio di tutti. Però Renan è ancora più scrittore che artista, non rappresenta ma dice; solamente per questo non basta la sapienza della lingua, giacchè Littré sapendo la storia intima di ogni parola gli rimane incalcolabilmente inferiore. Filologia e chimica formano le parole e i colori, la natura e i pittori inventano i toni.
 
E si fermò.
 
- Renan, Renan! – tornò a provocarlo la duchessa senza lasciargli nemmeno il tempo di respirare – fatemi il suo ritratto. Avete cominciato e vi siete ancora distratto: volete Bonghi in compenso? Ve lo cedo, sebbene incominci a diventarmi simpatico, oggi, che tutti si vantano d’insultarlo.
 
- Non crediate così di chiedermi poco e di offrirmi troppo – rispose con certa amarezza.– voi, duchessa, che sapete tanto bene il latino, vi ricordate senza dubbio la definizione della bellezza data da Cicerone: la bellezza si può esprimere talvolta, più raramente raffigurarla, analizzarla mai. Non vi è spesso sembrato che una pagina di Renan rassomigli a una pagina di Mozart, ne abbia la stessa malinconia latente, lo stile puro quantunque capriccioso, l’inimitabilità dell’espressione precisa nella parola e illimitata nel sentimento? Balzac ha detto che la prima qualità di un libro è di far pensare; per un libro di filosofia, forse, ma per un libro d’arte ne dubito. Renan ottiene di meglio: la sua prosa è una musica che vi fa sognare; ecco il prestigio, il fine ultimo dell’arte, dare all’anima una seconda vita, sostituire alla creazione della natura quella dello spirito. L’arte non può avere sistemi. Vedete come Zola, che sarebbe benissimo dotato, sia costretto ad esagerare le scene per sostenere l’esagerazione delle proprie polemiche. In tutte le opere di Renan non vi è forse una sola vera negazione; egli sa che un’idea ne vale un’altra, e che per un’idea come per un individuo il fatto di esistere ne implica il diritto e ne contiene la ragione. La negazione, che pretende distruggere, è al tempo stesso un’impotenza ed una assurdità; essa deve semplicemente essere il limite di ogni individuo attorno a sé medesimo, l’orbita della sua attività. Quindi, se Cousin disse impropriamente che l’errore è la forma della verità nella storia, Renan più fortunato comprese che la verità non può risultare se non da tutte le contraddizioni, ed affermò che solo nel contraddirsi sempre e sinceramente stava la speranza di avere qualche volta ragione. Volete un libro, che contenga la verità?
 
- C’è?
 
- Sì.
 
- Datemelo.
 
- Ma non avrete né il tempo né la pazienza di leggerlo. Pigliate il catalogo di una biblioteca, e se la biblioteca ha qualche milione di libri quel catalogo contiene la verità.
 
- Non si potrebbe farne un estratto?
 
- Si è tentato, si tenterà ancora inutilmente. Nessun ingegno sarà mai così vasto da abbracciare tutto, nessuna vita così lunga da concederne il tempo; l’arte sola, essendo come la vita una creazione, può talvolta essere vera mantenendosi inconscia. Intervenga la coscienza, e subito una sensazione o un’idea facendosi dell’arte un baluardo per difendersi o un monumento per glorificarsi, l’opera d’arte sarà un’opera morta. Vi siete mai domandata se Renan creda in Dio con una fede più forte che in qualunque altro principio? Domandate a voi stessa, dopo averlo letto, se ci credete: non ne saprete nulla. Vi parrà di essere in alto, nell’azzurro, che le stelle vi guardino con sorrisi di bontà, che la terra vi richiami col sospiro dei fiori, che le nubi si aprano per accogliervi, che il vento si rattenga per sostenervi; vi sentirete l’anima più pura, il pensiero più vivido, il cuore più caldo. E Dio? Forse quella non è che la sua presenza: domandatelo a Renan, domandatelo a voi stessa, e non otterrete risposta. L’arte vi avrà barattate l’estasi della natura, una strofa avrà avuto lo sfondo di una prospettiva, una pagina vi sarà parsa un panorama; le due creazioni si saranno valse, ma se vorrete analizzarle, la scienza non vi darà che dei misteri e dei cadaveri, la critica che delle contraddizioni e delle parole. Si può forse, esprimere in altro modo ciò che la musica dice? Sarebbe essa ancora l’ultimo sforzo del linguaggio, il verbo dei pensieri muti altrimenti? Ebbene, anche la bellezza è una musica ineffabile come la vita stessa.
 
- Triste musica, allora!
 
- Siete pessimista?
 
- Sì.
 
Egli sorrise.
 
La duchessa si alzò per offrirgli da un tavolino prezioso d’intarsi l’astuccio delle sigarette, e rimase qualche istante in piedi guardandolo. La sua bella testa pallida aveva sempre la stessa espressione di freddezza quasi crudele.
 
- La prefazione di Bonghi conclude per la vita – egli soggiunse con accento leggero di provocazione. Io potrei ripetervi la sua frase: poiché siete tanto bella, tutto non è dunque dolore quaggiù.
 
- Allora perché la bellezza non basta alla felicità dell’amore e l’amore spesso non si cura nemmeno della bellezza? Bonghi ha ragione quando afferma contro la falsa serenità dei nuovi pagani che il mondo antico è stato infelice quanto il moderno, e che la malinconia non è un male cristiano. Noi siamo tutti infelici!
 
- Voi! - egli esclamò con accento duro, forse irritato seco medesimo dalle troppe idee sciupate in quel dialogo, e che avrebbero potuto bastare a parecchi dei suoi articoli.
 
Ma ella non si degnò nemmeno di notare l’interruzione.
 
- Lo so - proseguì vivamente – ormai si è detto tutto sul dolore e sul piacere, si è preteso che siano l’uno la cessazione dell’altro, poi due gradi di una stessa sensazione. Vundtz e Lotze, vedete che sono bene informata, me lo diceva ieri il professore Tommasi-Crudeli, presso a poco sostengono questa tesi: ma vi è una obbiezione. Se il dolore deriva dalla vibrazione troppo violenta di un nervo, perché una parola fa spesso più male di una pugnalata, e la frattura di una gamba è meno spasmodica talvolta di una rottura galante? Il dolore morale è dunque diverso dal dolore fisico? La fame crea l’accattonaggio, mentre la vergogna di aver fame produce sovente il suicidio. Perché nella maggior parte dei casi noi affrontiamo il dolore per arrivare al piacere? Perdonate se io, donna, oso gettare con le mie mani lo scandaglio in certi abissi, ma la questione ci interessa tutti, grandi e piccoli, uomini e donne.
 
- Non vi farò che una obbiezione la più volgare ed insieme la più forte: se la vita è infelice, perché tutti l’accettano?
 
- Perché dimenticate voi i suicidi? Coloro che accettano, sperano, ecco tutto.
 
- La speranza deriva essa pure dalla vita: ma volete davvero una ragione irresistibile? – seguitò con evidente intenzione di sarcasmo guardandola negli occhi. – poiché ogni fenomeno è doppio, pigliate i due estremi della gamma, la generazione e la morte: la voluttà dell’una è più intensa del dolore dell’altra. Anzi, Leopardi, un pessimista che non potete rinnegare, sosteneva con ragione che la morte sola è senza dolore.
 
- Siete ben sicuri che in ogni fenomeno della vita il piacere sia maggiore del dolore?
 
- Il fatto della vita è per me, esaminatelo imparzialmente.
 
- Lo volete? – ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona.
 
Egli tornò a sorridere.
 
Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona.
 
- Alì - ella si volse chiamando il magnifico gatto d’Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello.
 
La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino.
 
La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l’altra alla bocca gli presentò l’uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido.
 
Alì lo teneva già addentato sino al dosso.
 
- Che cosa fate? – esclamò balzando in piedi l’illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla.
 
- Vi confuto - rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo.
 
Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripeté con indefinibile sorriso:
 
- Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.
 
<center>'''IDILLIO'''</center>
 
IDILLIO
 
 
Secondo un motto di Pindaro «all’ingresso di ogni opera d’arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano». Quale l’aveva dunque egli collocata nell’atrio del proprio tempio, di cui oggi non ci rimangono che poche ruine? Lo si ignora, ma se dagli scarsi rottami si potè conchiudere all’edificio, la statua, che ne ornava il vestibolo, dev’essere stata ben bella.
 
E questa legge di estetica, da lui liricamente formulata, si verificò poi in tutte le grandi opere d’arte. Forse la Grecia non ebbe sculture più belle del fregio del Partenone: all’ingresso della Iliade, serena ed a un tempo sanguinante epopea di battaglia, Omero aveva già collocato la patetica figura di Andromaca: all’ingresso dell’Eneide Virgilio pose il tragico fantasma di Didone, nelle prime bolgie dell’inferno Dante s’imbatte in Francesca, dalla soglia stellata del Paradiso gli viene incontro Beatrice: Angelica passa fuggendo nelle prime strofe dell’Orlando, il primo guerriero che arriva sulla piazza di Gerusalemme è Clorinda, la prima vittima che si presenta nel palazzo maledetto di Adelchi è Ermengarda: Margherita sta nel vestibolo del massimo poema moderno, Ofelia sulla porta del gran teatro del mondo! Zola stesso, l’implacabile pessimista, ha dovuto mettere davanti al proprio freddo ed enorme edificio borghese l'agreste e pietosa sembianza di Miette, figurina idilliaca, che nella storia dell’Idillio viene così a trovarsi fra la Simetha di Teocrito e la Regina di Tennyson, ingenua come la prima, devota a morte come la seconda. Ma fra queste due donne, fra Teocrito e Tennryson, non sono passati invano circa duemila anni.
 
Certo non tutte le epoche, e nemmeno forse tutti i popoli, possono produrre l’Idillio, quale apparve in Grecia, e da quella apparizione è rimasto nel nostro spirito. I romani, che derivarono dai greci tutte le arti e delle arti si applicarono tenacemente a tutti i generi, nel presentimento di una difficoltà insuperabile parvero affidare quest’ultima prova al loro poeta più dotto nella mano e squisito nel temperamento. La dura fibra romana non si piegò, Virgilio fece miracoli di artificio, ma la vittoria dell'arte rimase a Teocrito.
 
Nato in Sicilia, dentro il mare più bello, sotto il cielo più puro, in una isola nella quale la casa può essere un lusso e il vestito una decorazione: dove l’incanto della natura impone l'ozio, e il canto come linguaggio naturale dell'ozio può facilmente diventarne la sola preoccupazione, Teocrito si trovò sulla scena più adatta alla propria poesia. Intorno a lui la pastorizia durava da secoli e dura ancora ai nostri giorni, l'agricoltura non aveva maggior fatica del raccogliere, e la facilità del clima vi produceva colla condiscendenza nella vita il suo oblio.
 
Una moltitudine di barche dalle vele multicolori le facevano cintura: era libera come uno scoglio e potente come un regno, ferace quanto una pianura e poetica come tutte le montagne. Cornice, quadro, personaggi, tutto era pronto; l'epoca non poteva essere migliore. La Grecia, che avendo aperto con Omero il proprio lungo periodo di gloria doveva chiuderlo con Teocrito in una parentesi di grandezza e di grazia, aveva già troppa storia, troppo lottato, vinto e perduto, su tutti i campi di battaglia.
 
Il suo pensiero era esaurito, la sua anima non aveva più la freschezza di sensazioni, quella stupefazione beata del risveglio della vita, che le aveva fatto inventare Pane prima di Apollo, il flauto innanzi alla lira. Ma nella Sicilia, sulla quale le tempeste politiche erano passate come i venti d’Africa scrollando solamente le cime degli alberi, la siringa era ancora l’istrumento più dolce, ancora durava l'accordo inalterato fra spirito e natura, mondo e pensiero. Forse le prime parole cadute nell'orecchio del poeta bambino furono un motivo di egloga modulato dalla balia: più tardi, giovinetto, era stato probabilmente giudice in più di una cantata, che riprodusse poi immortale nel verso. Partito da Siracusa per studiare nell’isola di Cos sotto Sileta, celebre poeta, vi aveva conosciuto il figlio di Tolomeo Lago; quindi, visitata Alessandria, allora centro intellettuale del mondo era stato di ritorno in patria, accolto alla corte di Gerone. Ma l’erudizione accumulata negli studi e nei viaggi non aveva indurito la fibra del suo temperamento: schietto siciliano aveva voluto apprendere dai greci i canti, non le canzoni. Così la loro decrepitezza non potè intristire la sua gioventù, mentre l’abbondanza del getto riempendogli costantemente le forme perfettissime da esse ricevute, gli tolse di cedere a quella vanità di ricercatezze, che già viziavano i suoi maestri e dovevano poi guastare tutti i suoi successori.
 
Laonde, ingenuo d’occhi e collo sguardo istrutto si trovò rapporto alle cose in quella condizione di mezza verità, la più favorevole alla immaginazione, come ha scritto un grande critico; la quale può egualmente insistere e sfuggire, stringere da presso la realtà e allontanarsene, cogliere il particolare e la prospettiva.
 
Dopo lui e il suo tempo, l’idillio scomparve, i romani n’ebbero uno degnissimo sebbene diverso nelle Georgiche, essi che avevano sentito l’agricoltura con la stessa tenace serietà della guerra e della politica.
 
Finalmente venne il cristianesimo e l’idillio inadatto all’anima di Roma diventò impossibile nel pensiero umano. Il concetto pessimista del mondo, che costituiva il fondo della nuova religione, dava necessariamente un altro aspetto alla natura e un altro significato alla vita; poi l’impero rovinante, il profondo avvilimento di una civiltà, che si sentiva esaurita e si presentiva distrutta mentre i barbari ruggivano a tutte le frontiere: l’esistenza ridotta un’orgia pei pagani fisi all’Olimpo e un’espiazione pei cristiani intenti nel Golgota; la terra abbandonata dalle antiche divinità e non ripopolata dalle nuove; il dubbio rimasto ultima affermazione di quanti pensavano ancora, l’indifferenza suprema virtù di coloro che resistevano tuttavia, il martirio estremo eroismo di quelli che ricominciavano a credere. Poi i barbari irruppero, l’impero sprofondò, la civiltà si spense, e sul suo cadavere morto di vecchiaia la natura non intese per molto tempo che canti di salmi e singulti di pianto.
 
Un grande spostamento aveva avuto luogo; nel mondo antico il tempio era all’aperto, di marmo bianco, giocondo come una terma, mentre l’Eliso stava nel centro della terra, freddo e scuro come un sepolcro. Nel mondo nuovo il primo tempio era stato sotto terra, e l’Eliso in cielo.
 
Quando i poeti ritorneranno a cantare, l’elegia avrà dunque la nostalgia del sepolcro e l’ode quella del paradiso: quindi l’una canterà con voce più bassa, l’altra volerà con ali più forti.
Poi l’idillio, sopravvissuto e destinato a sopravvivere sempre nelle improvvisazioni popolari come prima ed ultima forma dell’egloga, tentò di risorgere artisticamente fra le fole, le ballate, le sirventi, ma la nuova fanciullezza del mondo, non era come l’antica, e la purificazione esercitata dal cristianesimo sulla natura aveva messo la diffidenza nell’uomo.

La bellezza era stata dichiarata un pericolo, l’amore un peccato. La coscienza atterrita dal problema religioso non poteva più bearsi nell’eterna giovinezza dei campi: l’arte avendo tutto obliato ricominciava bambinescamente sotto la ferula della religione, la vita ancora sofferente delle proprie crisi non aveva più abbandoni, onde fra la vergine e il cavaliere, i due tipi nuovi, l'idillio non fu possibile. Ma quando nella civiltà progredita rifiorirono le lettere, e la bellezza ridivenuta plastica restaurò il regno delle forme, l’idillio comparve nuovamente coll’imitazione di Virgilio in Italia, più tardi coll’imitazione dell’Italia in Francia per finire da noi in un'Arcadia di accademia, là in una Arcadia di corte colle pastorelle vestite di seta e il verso trapunto come i loro abbigliamenti. La letteratura aveva rinvenuto il modo, non il tempo dell’idillio. Poscia vennero il romanticismo e la musica; il primo invece di abbigliare le pastorelle di seta le ornò di sentimenti anche più fini, ed ebbe per la natura entusiasmi di sacerdote, tenerezze di amante; la seconda, più intima e quindi anche più vera della poesia, accennava già di riuscire quando il contatto del romanticismo e le false abitudini del teatro la viziarono così che nello stesso capolavoro immortale di Bellini, malgrado la freschezza dell’ispirazione e la grazia delle movenze, manca troppo spesso la semplicità.
 
Finalmente l’idillio passò in Inghilterra, e là, dentro una letteratura, nella quale si era sempre notato il predominio di quanto oggi chiamasi con brutta parola realismo, si disse che Tennyson era risorto. Infatti a prima vista tutte le condizioni vi sembravano riunite. Un popolo coltissimo e non ancora in decadimento, abbastanza ricco per avere il gusto e l'abitudine della campagna, con un sentimento schietto della vita e una predisposizione alla malinconia corretta dalla fortezza della tempra. La sua campagna era feracissima, la sua religione quasi ragionevole, la sua filosofia poco teoretica, la sua poesia semplice per indole per tradizione.
 
Tennyson stesso non poteva essere meglio dotato dalla natura ed esercitato nello studio.
 
Ma il ferreo carattere inglese diventato di acciaio al fuoco della grande rivoluzione puritana, si era ancora più indurito nel lungo e fortunato esercizio commerciale: la religione agghiacciatasi dopo il trionfo aveva come coagulato il sentimento del popolo, il classicismo rimasto nelle lettere e nei costumi malgrado l’influenza di Byron e di Shelley irrigidiva ancora il gusto dell'aristocrazia. In Inghilterra più che altrove il concetto della vita e dell’amore erano in antitesi coll’idillio, L’agricoltura vi ha ridotto il podere come una fabbrica cogli stessi operai, le stesse macchine, la stessa speculazione crudele e trionfante: la bigotteria protestante, molto peggiore della cattolica, aiutata dall’indole del popolo e dalla sua storia vi ha costretto l'arte ad un ufficio puramente morale; quindi negate tutte le passioni, contati i generi e i tipi. Da molto tempo il teatro inglese è chiuso, per molti anni non si aprirà se la vita non vi ritorni coll'arte, quella vita, che oggi non si vuole nel romanzo perchè si condanna il romanzo nella vita. Così la ragazza inglese, ammirabile per la sua superbia d’individuo capace di bastare a sé medesimo, è forse meno di ogni altra incline all’idillio, mentre nella dignità del proprio carattere deve giudicare sconveniente ogni più ingenua confessione dell'amore.
 
Nella Grecia non era così.
 
La Simetha di Teocrito non è cortigiana, ma una piccola borghese come la Margherita di Goethe, camuffata così miseramente dal Gounod in angelo. Innamorata e tradita dall'amante ricorre agli scongiuri. La scena è la stessa che ai nostri giorni, solamente il rito n’è cambiato. Invece dei lauri oggi si usa il mazzo delle carte. È notte, il luogo deserto, un cortile o un giardino. La luna sogguarda dalle nubi. Simetha accompagna lo scongiuro cantando, e il suo canto esalato a voce bassa è di un effetto terribile. Si direbbe quasi un canto calmo se il ritornello indirizzato al fuso, che girando sopra sè stesso deve attirare l'assente, non avesse uno stridore di arma omicida. I cani salutano dai boschi la luna, poi il mare si queta, il vento tace, ma non le tace nel petto la passione per colui, che doveva sposarla e invece ha fatto di lei una miserabile disonorata. Questo lamento di una bellezza funebre nei versi greci è tutto di amore. Simetha non piange la verginità perduta, ma l'amante involatosi dietro un altro amore, mentre ella mostrata a dito dalle compagne più fortunate dovrà subire le baie dei giovanotti più depravati del paese.
 
Allora il ricordo delle passate voluttà torna a fermentarle nel sangue e, levando verso la luna, che le confonde il proprio pallore sul volto, ella invoca la pianta famosa dell’Isyomane, che fa delirare cavalli e puledre lungo le valli di Arcadia.
 
- Ah! ah! odioso amore, perchè attaccandoti al mio petto come una mignatta di palude hai bevuto tutto il sangue nero del mio corpo? - esclama cacciando un grido quasi per un morso improvviso.
 
Questo urlo la esaurisce, ha bisogno di restare sola.
 
La stessa presenza della vecchia Testili le diviene insopportabile, quindi la manda ad ungere la porta di Delfi con una atroce mistura di veleni. Qui la scena muta, e comincia la seconda parte dell’idillio. Simetha si sdraia per terra come una bestia, in tormento e singhiozzando, cantando, racconta a sè medesima colla passione di tutti gli infelici il proprio male. Il racconto è un capolavoro di verità e di poesia. Il ritornello della invocazione a Diana, che lo riannoda interrompendolo, invariabile nelle parole muta significato ad ogni strofa coll'accento della voce languida o minacciosa, famelica o supplichevole. Un giorno, non è molto, la sua amica, Anasso, venne ad invitarla per la festa di Diana; vi si recarono coi canestri e videro molte fiere, fra le altre una leonessa, della quale le è rimasto il ricordo. Simetha aveva fatto la più accurata toeletta, perchè la giornata era splendida ed avrebbero incontrati molti giovanotti.
 
Infatti a mezza strada s'imbatterono in due dei più belli, Delfi e Eudamippo, che uscivano dalla palestra rossi, sudanti.
 
Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l’amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l’atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha innamorata di Delfi oblia la festa e scappa a casa; se fosse rimasta, e Delfi le avesse rivolta la parola, sarebbe scoppiato uno scandalo. Così Shakespeare molti secoli dopo ha fatto innamorare Giulietta e Romeo: la prima qualità dell’amore semplice è la prontezza. Appena in casa Simetha si caccia in letto e si ammala. Per dieci giorni, dieci secoli, non mangiò né bevve: un pensiero le tendeva il cervello, uno spasimo le bruciava il cuore, Delfi. La fisonomia le si emaciò, la pelle le divenne gialla come il topazio; allora pensò agli scongiuri, risorsa di tutte le immaginazioni deboli, ma gli scongiuri furono insufficienti. Ad ogni invocazione le crebbe la smania, quantunque volte pronuncia il nome di Delfi le labbra le scottano ancora. Non rimane più che un rimedio, mandare Testili da Delfi; la passione l’aveva trovato subito, ma la ragione esitava. Testili va e torna con Delfi. Qui è il punto culminante del poemetto. Parla Simetha: con un solo tratto Teocrito si rivela poeta ed osservatore di primo ordine, giacchè rivedendo con gli occhi della fantasia Delfi entrare dall’uscio ella interrompe il racconto per gettare il grido del ritornello come se la stessa emozione le si ripetesse nell’anima, e il medesimo strido della prima volta le rompesse dalle labbra.
Vederlo, amarlo, fu un punto solo, un colpo di vento, uno scoppio di fulmine. Forse l’amore covava da lungo tempo nel suo cuore: l’atmosfera era favorevole, la stagione di primavera, il cielo quasi bianco a forza di essere puro, Simetha innamorata di Delfi oblia la festa e scappa a casa; se fosse rimasta, e Delfi le avesse rivolta la parola, sarebbe scoppiato uno scandalo.
Poi un freddo le tocca tutte le carni, un sudore abbondante come una rugiada la bagna, e non può parlare nemmeno come i bambini balbettano nel sonno vagendo verso la madre. Quest’ultima nota è di un patetico profondamente femminino, giacchè l’amore sveglia sempre la maternità nella donna. Delfi entra bello e fatuo conquistatore, anche adesso le pare di rivederlo; le siede con famigliarità quasi protettrice sul letto e per farle un complimento comincia a parlarle di sé stesso, dicendo che il suo invito lo ha prevenuto come l’altro giorno egli sorpassò il bel Filino alla corsa. Naturalmente cita il più bello fra i propri amici per provarle che non teme confronti. E Simetha gli dà ragione. Per le Delfi non è l’elegante antipatico di tutte le decadenze, ma il Delfi bello, dal petto largo, dalle membra agili, il vincitore della palestra. Simetha non ha torto. Oggi ancora le donne, che si avvicinano al suo modo di sentire, sono forse anche meno esigenti, non pretendono neppure che Delfi sia bello. Ma come tutte le persone troppo amate, Delfi non ama; in pochi giorni si stanca di Simetha e la trascura; ella trema, piange, finché apprende da un’amica che Delfi è innamorato altrove, s’ignora se di un uomo o di una donna. Simetha stessa non lo ricerca: che le importa il nome? Ella non è gelosa, giacchè la gelosia discende quasi sempre dalla testa mentre ella ama coi sensi: esige Delfi, ma trova forse naturale che altri lo desideri, solamente non vorrebbe perderlo. In questo ultimo caso giura piuttosto di ucciderlo, ma anche allora non si preoccupa della rivale. Simetha ama troppo Delfi per odiare un altro.
 
Così Shakespeare molti secoli dopo ha fatto innamorare Giulietta e Romeo: la prima qualità dell’amore semplice è la prontezza. Appena in casa Simetha si caccia in letto e si ammala. Per dieci giorni, dieci secoli, non mangiò né bevve: un pensiero le tendeva il cervello, uno spasimo le bruciava il cuore, Delfi. La fisonomia le si emaciò, la pelle le divenne gialla come il topazio; allora pensò agli scongiuri, risorsa di tutte le immaginazioni deboli, ma gli scongiuri furono insufficienti. Ad ogni invocazione le crebbe la smania, quantunque volte pronuncia il nome di Delfi le labbra le scottano ancora. Non rimane più che un rimedio, mandare Testili da Delfi; la passione l’aveva trovato subito, ma la ragione esitava. Testili va e torna con Delfi. Qui è il punto culminante del poemetto. Parla Simetha: con un solo tratto Teocrito si rivela poeta ed osservatore di primo ordine, giacchè rivedendo con gli occhi della fantasia Delfi entrare dall’uscio ella interrompe il racconto per gettare il grido del ritornello come se la stessa emozione le si ripetesse nell’anima, e il medesimo strido della prima volta le rompesse dalle labbra.
 
Poi un freddo le tocca tutte le carni, un sudore abbondante come una rugiada la bagna, e non può parlare nemmeno come i bambini balbettano nel sonno vagendo verso la madre. Quest’ultima nota è di un patetico profondamente femminino, giacchè l’amore sveglia sempre la maternità nella donna. Delfi entra bello e fatuo conquistatore, anche adesso le pare di rivederlo; le siede con famigliarità quasi protettrice sul letto e per farle un complimento comincia a parlarle di sé stesso, dicendo che il suo invito lo ha prevenuto come l’altro giorno egli sorpassò il bel Filino alla corsa. Naturalmente cita il più bello fra i propri amici per provarle che non teme confronti. E Simetha gli dà ragione. Per le Delfi non è l’elegante antipatico di tutte le decadenze, ma il Delfi bello, dal petto largo, dalle membra agili, il vincitore della palestra. Simetha non ha torto. Oggi ancora le donne, che si avvicinano al suo modo di sentire, sono forse anche meno esigenti, non pretendono neppure che Delfi sia bello.
 
Ma come tutte le persone troppo amate, Delfi non ama; in pochi giorni si stanca di Simetha e la trascura; ella trema, piange, finché apprende da un’amica che Delfi è innamorato altrove, s’ignora se di un uomo o di una donna. Simetha stessa non lo ricerca: che le importa il nome? Ella non è gelosa, giacchè la gelosia discende quasi sempre dalla testa mentre ella ama coi sensi: esige Delfi, ma trova forse naturale che altri lo desideri, solamente non vorrebbe perderlo. In questo ultimo caso giura piuttosto di ucciderlo, ma anche allora non si preoccupa della rivale. Simetha ama troppo Delfi per odiare un altro.
 
Giammai vi fu idillio più povero e più bello; oggi dopo tanto mutamento di età noi lo sentiamo ancora, noi che non possiamo più scriverlo e, quello che è peggio, rifarlo. Teocrito ha messo l’elegia, fors’anche la tragedia, in fondo all’idillio giacchè Simetha può bene ammazzare Delfi in un incontro, a certe ore, in date circostanze. Tennyson ha fatto altrettanto, ma invece di Delfi è la regina che morirà: idillio, elegia e tragedia si seguono formando un solo componimento. Là un fatto che rivive in un racconto, qua un soliloquio nel quale si perde un fatto; Teocrito ha scolpito un gruppo, Tennyson fuso una statua; il gruppo è molto nudo, la statua molto panneggiata, il primo prorompe dalla vita, la seconda rientra nel sogno.
 
Siamo alla vigilia della festa di Maggio. La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l’indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L’apertura della scena è vera, il ritornello, che come un’eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili. Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature!
Siamo alla vigilia della festa di Maggio. La futura regina è nella propria casetta, sola con la madre, alla quale raccomanda di svegliarla presto l’indomani per avere il tempo di abbigliarsi: domani è la gran festa, si dà il premio della bellezza, la più bella sarà nominata regina. Essa ha già contato i voti, sono tutti suoi. Nella ingenua vanteria dei primi trionfi la regina non sa frenarsi e come Delfi particolareggia alla madre piangente di gioia le proprie bellezze. L’apertura della scena è vera, il ritornello, che come un’eco delle ovazioni imminenti interrompe quel soliloquio, ha una grazia e una leggerezza inimitabili.
 
Come le frasi leggermente retoriche tornano e vibrano nelle sue spezzature!
 
Ma ecco che dalla ragazza prorompe la vergine. Ella non ha mai amato e non ama: la hanno detto che ha un cuore selvaggio, ma non ha risposto perché non avevano colpito nel segno. Molti giovani, dei quali non ricorda più il nome l’amarono.
 
Uno solo, Rubino l’ha colpita. Ella lo vide sempre solo, raccolto in sé stesso, schivo della gente: Rubino l’ama senza averglielo mai detto. Questo riserbo è la sua superiorità sugli altri giovani, l’unica ragione per la quale ella talvolta pensa a lui; anche Rubino deve essere vergine, ma ha una fisonomia pura e malinconica, il riflesso dei lunghi sogni sulla fronte. Ma la ragazza ripiglia il sopravvento, e perdendosi già con la fantasia nel tumulto glorioso dell’indomani, con versi esultanti e sapienti, forse troppo sapienti, dipinge alla madre il quadro della festa entro il paesaggio calmo della valle che somiglia alle valli di tutte le descrizioni. Vi è persino il rivolo, che mormora tra i sassi, il sole, che al tramonto indora le cime delle colline.
 
All’ultimo scoppio del ritornello si sente lo scoppio del bacio, che la futura regina dà alla mamma intenta a rimboccarle le coperte.
 
Passò un anno.
 
La regina è ammalata di tisi, la malattia delle vergini e delle sante: quando l’anima sola vive il corpo non ha che morire. Si è levata sentoni sul letto e prega la madre di svegliarla all’alba per vedere l’aurora del nuovo anno. Il soliloquio prosegue lento e stentato: un lumicino rischiara la camera, nell’aria pesa la nausea di un alito viziato, ma l'inferma perdendosi nei ricordi della propria incoronazione vorrebbe vivere fino alla prossima primavera. Perché? È un rimorso, che le sale dal corpo disfatto come un bisogno supremo di sentire la natura prima di abbandonarla? O il desiderio di avere molti fiori al proprio funerale? Chi lo sa? Quindi coll’intenerimento contagioso dei malati parla della chiesetta parrocchiale, rammenta il piccolo camposanto, finché ripresa improvvisamente dalla vanità della ragazza, con un irresistibile impeto d’affetto espresso in versi mirabili, scongiura la mamma a seppellirla sotto la spinalba, che nel mattino trionfale di maggio le fece da baldacchino al trono. La vanità è dunque la sua unica passione, come la tisi doveva essere la sua unica malattia, s’ella non vuole che corone e non sogna che di mostrarsi dall’alto, sui gradini di un altare o di un trono? Forse, ma i sermoni del buon pastore le sovvengono a tempo e, soffocando tutte le voci dell’orgoglio, le sgorgano dalle labbra scolorite in tante consolazioni per la mamma.
 
Povera mamma! Come dev’essere dolorosa la morale evangelica in bocca di una figlia morente, come consolerebbe di più il sentirla piangere nel dolore dell’abbandono che il vederla rassegnata alla necessità della partenza!
 
Il desiderio dell’ammalata fu esaudito: la primavera è tornata battendo con le foglie delle pianticelle rampicanti ai vetri della sua finestra. Perché mai questa vergine, che non ha amato il mondo, questa tisica che sta per abbandonarlo con gioia, si perde ad analizzarne con arte sì fina e talvolta con particolari così dotti tutte le loro bellezze alla madre? O fu un capriccio d’inferma, o è stato un difetto nel poeta. L’agonia si avvicina: il prete è uscito dopo aver benedetto la morente, mamma e figlia sono sole. Il canto del finale incomincia con un canto sacro; gli angeli sono passati a volo pel cielo suonando le arpe; Regina le ha sentite due volte, alla terza morirà. Un angelo librato nel vano della finestra, lontano, nell’azzurro, la chiama.
 
- Addio sorella, addio mamma!
 
La ragazza spirando rivela il proprio segreto di vergine, quindi il sogno di paradiso le ricomincia nell’anima, e in quel sogno s’addormenta.
 
Ecco la figura messa da Tennyson dinanzi ai propri idilli come quella che più altamente esprime la sua poesia idilliaca. Il paesaggio è inglese, colori freddi, aria umida, vegetazione rigogliosa. Una agricoltura sapiente ha migliorato ogni pianta: case, mulini, castelli, tutto a posto, il quadro pare il paese, ma il paese pare un quadro. La regina muore: che cosa farebbe nella vita? Diventerebbe prima sposa, poi madre, poi massaia: addio quindi poesia, perché tutta la poesia consiste nella verginità, primo grado dell’angelo. Invano parla sempre di fiori e li conosce, ne sa persino i nomi difficili: forse li imparò adornando l’altare della chiesetta, ma i fiori non le dissero una parola della loro vita così simile alla nostra, vita di amore e di generazione.
 
L’idillio di Tennyson è dunque un’elegia ancora più romantica che cristiana, alla quale Lamartine non è estraneo, giacchè nel canto o nell’accompagnamento, nella voce o nell’accento, qualche cosa di suo vi si intende. Che cosa pensa Tennyson della Simetha di Teocrito? Non lo so, ma si potrebbe forse saperlo, e forse ne pensa diversamente da noi, ma che cosa penserebbe Teocrito della Regina di Tennyson?
 
Adesso l’Inghilterra è per Tennyson, poeta laureato della regina, i lords lo accettano tra di loro, i borghesi lo venerano, i pastori lo citano, il pubblico lo paga come non ha mai pagato nessun poeta, i critici lo dichiarano superiore a Byron e si sono lagnati solo una volta, quando volle imitarlo dopo aver imitato tutti; ma il mondo è per Teocrito, il poeta della natura, che nessun periodo di civiltà ha ancora invecchiato, che forse nessun altro poeta sorpasserà. Teocrito vive in fondo a tutti i cuori: è laggiù nei nostri primi ricordi, nei nostri primi sogni d’amore, nel nostro primo risveglio alla vita e alla verità.
 
Tutti noi avemmo qualche Simetha e qualche Regina, vivemmo nell’elegia e aspirammo alla sana giocondità dell’idillio antico. Così la letteratura inglese, che ha avuto Shakespeare e avrà Tennyson ancora per poco, pare accenni anch’essa di ritornare all’antico per interrogare la natura con nuove intenzioni.
La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l’Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell’atrio del proprio monumento un’altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro «all’ingresso di ogni opera d’arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano».
 
 
LA NOTTE DI NATALE
 
 
La Francia ha ritrovato Zola e Zola ha ritrovato la Miette; l’Inghilterra non può quindi tardare molto a rinvenire un altro poeta, che alzi nell’atrio del proprio monumento un’altra maggiore statua, perché secondo il motto di Pindaro «all’ingresso di ogni opera d’arte bisogna mettere una figura che brilli da lontano».
 
<center>'''LA NOTTE DI NATALE'''</center>
Tutte le ragazze si alzarono.
 
La Prudenza diede ancora una occhiata in giro, accomodò un ciocco caduto da un alare, stette un momento incerta se riportasse la pentola nella cucina, poi risolvendosi d'un tratto disse:
 
- Andiamo.
 
Le ragazze già impazienti si agitarono fra le sedie con un garrito di passere, vi furono ancora delle risa, qualche scherzo di mano sugli abiti e sugli sciallini; Ghita, la più vanitosa, andò un'altra volta a guardarsi nella specchiera. Prudenza la richiamò sgridando con bonomia e tutte insieme sparvero collo stesso saluto dalla porta.
 
Prudenza, rimasta ultima, si rivolse col battente in mano ad osservare Gaspare.
 
Era un vecchietto con una calotta nera sulla testa che gli teneva luogo di berretta, una veste di percalle in dosso a fiorami diluiti dagli anni e dall'uso. Egli si alzò, tornò a scrutare dentro la pentola nella quale avevano bollito le castagne, rimosse il candeliere, lo smoccolò sebbene non ne avesse bisogno e si risedette sulla poltrona. La pezzola turchina gli spenzolava dietro ad una colonnina dello schienale.
 
Nella camera troppo grande un muro, facendo arco a metà, formava una alcova senza tende: l'alcova era riempita da un largo letto di noce colla cimasa coronata da una conchiglia, e da due canterani di modello antico, coi piedi alti, a due soli cassetti. Fuori dell'alcova a mano dritta biancheggiava un armadio di alberone; un altro comò sormontato da una specchiera a quattro colonnette nere, che si acuminavano in due testiere di ottone, era il mobile più bello della camera; nel mezzo un tavolo rotondo vi faceva da altare, con una Madonna cilestrina tutta stellata d'argento, e un presepio sotto una campana di vetro, dentro la quale una grande macchia rosea era senza dubbio la culla del santo Bambino.
 
Due gatti di gesso bianco, sul quale col fumo di candela si era tentato di imitare le zebrature della pelle, si miravano dai lati del camino con una posa quasi altera nella lunga immobilità.
 
Gaspare disteso sulla vecchia poltrona guardava distrattamente il cerchio lasciato dalla pentola nella cenere. L'ambiente era tiepido. Le grosse palle in ottone degli alari riverberavano alle fiammelle delle brage, mentre nella camera mollemente assopita il crepitìo delle faville sfuggenti su pel camino sembrava un'eco delle ultime risa.
 
Fuori nella notte la luna aumentava colla propria limpidezza il freddo del vento.
 
Gaspare pensò a Prudenza, che non si era forse affagottata bene; ma la chiesa era vicina e senza dubbio calda in quella notte per la molta folla. Perché Gaspare non era stato anch'egli della comitiva accompagnando la vecchia moglie e tutte quelle ragazze dei vicini alla prima messa del Natale? Forse egli stesso non avrebbe saputo ben precisarlo, ma da oltre quarant'anni non aveva messo piede in una chiesa.
 
Ed ecco come le cose erano andate.
 
Una volta sotto Gregorio XVI lo avevano arrestato innocente e tenuto sei mesi in prigione: l'accusa era di politica e quindi gravissima, una relazione con alcuni giovanotti, dei quali due furono poi fucilati e tre perirono dopo lunghi anni nel bagno di Civitavecchia. L'impressione di questa tragedia, che si cacciava violentemente fra le scene modeste e volgari della sua vita, e i patimenti del carcere, l'orrore degli assassini, coi quali aveva dovuto ridere e scherzare sei mesi, le torture degli interrogatorii, le minacce lungo il processo, poi la sorveglianza oltraggiosa, che lo perseguitò anche dopo, e soprattutto il raccapriccio indicibile, indimenticabile che provò la mattina della fucilazione, quando tratto da una forza fatale volle assistervi malgrado tutte le rimostranze di Prudenza, fu tale che ne ammalò nervosamente per qualche anno. E d'allora ebbe una ripugnanza mista di odio e di spavento per tutti i preti. Infatti smise ogni pratica religiosa, sebbene Prudenza vi scorgesse con ragione il pericolo di un nuovo incarceramento.
Una volta sotto Gregorio XVI lo avevano arrestato innocente e tenuto sei mesi in prigione: l'accusa era di politica e quindi gravissima, una relazione con alcuni giovanotti, dei quali due furono poi fucilati e tre perirono dopo lunghi anni nel bagno di Civitavecchia.
 
L'impressione di questa tragedia, che si cacciava violentemente fra le scene modeste e volgari della sua vita, e i patimenti del carcere, l'orrore degli assassini, coi quali aveva dovuto ridere e scherzare sei mesi, le torture degli interrogatorii, le minacce lungo il processo, poi la sorveglianza oltraggiosa, che lo perseguitò anche dopo, e soprattutto il raccapriccio indicibile, indimenticabile che provò la mattina della fucilazione, quando tratto da una forza fatale volle assistervi malgrado tutte le rimostranze di Prudenza, fu tale che ne ammalò nervosamente per qualche anno. E d'allora ebbe una ripugnanza mista di odio e di spavento per tutti i preti. Infatti smise ogni pratica religiosa, sebbene Prudenza vi scorgesse con ragione il pericolo di un nuovo incarceramento.
 
Ma Gaspare, che non era mai stato patriota, non fu più oltre disturbato; anzi il suo parroco, a quell'epoca uno dei sanfedisti più arrabbiati, ogni qualvolta lo incontrasse, indovinando quel suo stato infermiccio di spirito lo salutava con un sorriso di compassione. Gaspare si sentiva rimescolare, e, quando il curato morì, quantunque di animo mite andò a veder passare il corteo funebre, perché altrimenti non gli sarebbe parso di esserne sicuro. Intanto la sua vita aveva ripreso la solita andatura: era impiegato nella amministrazione di un gran signore, che facendogli pochi complimenti lo teneva carissimo per l'ordine scrupoloso di ogni suo atto e la specchiata onestà del carattere. Così, senza quel ricordo insanguinato, si sarebbe creduto un uomo perfettamente felice. Poi i tempi erano migliorati. L'avvenimento di Pio IX malgrado la bufera del quarantotto e i successivi rigori al ritorno del papa da Gaeta e dei Tedeschi nelle Romagne, segnavano un'epoca più blanda di governo; i patrioti cospiravano meno tenebrosamente e, scoperti, andavano in esilio, e i clericali si divertivano in tutte le guise, più fermi che mai nella fede del proprio regno; persino gli ufficiali tedeschi, una razza bellissima ed elegantissima, sarebbero sembrati amabili se la loro qualità di nemici non l'avesse vietato.
 
In quel torno due grandi gioie erano venute a ritemprarlo.
 
Quel signore lo aveva messo a capo di tutta la propria amministrazione, raddoppiandogli d'un colpo l'importanza del grado e la somma dello stipendio; Prudenza, la bella donnina dal volto ovale di madonna, dagli occhi neri, dalla bocca soave che illuminava di sorrisi tutte le sue ore casalinghe, era finalmente incinta dopo dieci anni. Quest'ultimo trionfo maritale lo fece quasi impazzire, molto più che ella stessa ne delirava. Quindi in casa non vi fu più requie; ella preparava il corredo per il bambino; egli avrebbe voluto fare altrettanto, s'informava, dirigeva, scompigliava, riordinava ogni cosa. Le vicine venivano su ad ogni ora da Prudenza per discorrerle del bambino e ridere vantandosene quasi, come se quella tarda gravidanza di una così bella donnina fosse una fortuna e un orgoglio per tutti.
 
Adesso, passando tutte le giornate lunga distesa sulla poltrona, ella aveva preso una vecchia per le faccenduole di casa e mandava alla trattoria per il pranzo; egli nel terrore di una sconciatura le proibiva continuamente ogni più piccolo moto, si ringalluzziva alle allusioni delle comari, e appena rimanevano soli, covandola collo sguardo sino a farla arrossire, finiva quasi sempre col domandare il permesso di appressarle le orecchie al ventre e di ascoltare.
Poi tutte quelle aspettazioni di silenzi e di discorsi si erano risolte entro una bella notte di primavera in un vagito; il bambino era nato grande e bello, aveva già un ciuffettino di capelli biondi, sembrava un fiore, un frutto, tutto ciò che la natura ha di più squisito e la fantasia di più ideale. Il bambino piangeva misteriosamente come piangono tutti i bambini, gli altri piangevano di gioia: la madre nel pallore e per le sofferenze del parto sembrava una martire. Quindi all'indomani un'altra festa per il battesimo.
 
Gaspare si era messo un soprabito nero, magnifico come quello del suo padrone, tutta la casa era in moto: lungo la strada la gente veniva sugli usci a guardare la fanciulletta inghirlandata che portava il neonato; Gaspare si sentiva scoppiare, vedeva dei baleni in cielo, ascoltava delle suonate dentro le case. In chiesa un altro caso aveva concluso la sacra funzione facendo straripare l'entusiasmo. Nella immensa cattedrale, deserta a quell'ora pomeridiana, un ufficiale austriaco di cavalleria, tutto vestito di bianco, arrivato forse da poco nella città ed entrato per ammirare il tempio, si era accostato curiosamente al corteo per assistere al battesimo. Tutti lo guardavano; aveva un aspetto nobile, un'aria di bontà che lo rendeva anche più bello. Sulla fine la comare, che scoppiava dalla vanità nell'esercizio delle proprie funzioni, rispondendo al latino del prete con un latino anche più disastroso del solito, appena detta l'ultima giaculatoria, nel rimettere il bambino entro la coltricella merlettata non poté rattenersi dal mostrarglielo con un gesto fra servile e civettuolo. Le altre donne avevano fatto ala, e l’ufficiale, avanzatosi forse involontariamente di un passo, si era trovato al fianco di Gaspare e del prete, che gli sorrideva sotto il volto con quel sorriso dei preti di allora verso i tedeschi.
 
Quindi sotto l'attrazione del bambino tutti si erano inteneriti: l'ufficiale aveva esclamato in bonissimo italiano:
 
- Come è bello! -
 
E volgendosi al padre, che si riconosceva necessariamente fra tutti all'aspetto impacciato ed insieme orgoglioso, gli aveva detto con una irresistibile gentilezza di maniere:
 
- Questo angelo ignora ancora i nostri odii politici: mi permettete di dargli un bacio? Egli è bello come l'Italia, speriamo che sia più fortunato.
 
Gaspare strozzato dall'emozione non aveva saputo che dire, ma il bambino al soffio leggero di quel bacio aveva risposto con un vagito. Tutti avevano le lagrime agli occhi, poi l'ufficiale fece un saluto militare cortesissimo e, per non compromettere più oltre quella buona gente colla propria presenza, uscì.
 
Gaspare era raggiante: in casa lo raccontò subito a Prudenza, che ne pianse.
 
Così erano passati due anni, quindi il bambino si era ammalato improvvisamente ed era morto. Lo spavento prima, il dolore poscia di quella perdita non si descrivono; per qualche tempo ne rimasero come inebetiti, Gaspare invecchiò, Prudenza divenne quasi brutta. Invano la rivoluzione cacciando i Tedeschi e rintuzzando i preti venne ad offrir loro delle distrazioni; e le entrate trionfali dei nostri eserciti, i bersaglieri bruni e piumati, i garibaldini colle camicie rosse, le bande, le luminarie, i discorsi, gli entusiasmi, che scoppiavano in grida di pianto e in lacrime di follìa, il mutamento profondo in ogni ordine, l'affaccendarsi vertiginoso del nuovo assetto strepitarono, vampeggiarono intorno a loro. Gaspare costretto a far parte della guardia nazionale vi raggiunse il grado di sergente, partecipò a molte dimostrazioni, fu membro in più di un comitato, ma di ritorno a casa, rivedendo Prudenza che non ne usciva quasi più, lo sguardo gli correva fatalmente a quella cuna vuota.
 
Ah! se Fernando fosse stato vivo, come lo avrebbe vestito da bersaglierino.
 
E anche questo dolore passò. Prudenza stessa, che era stata sul punto di morirne e, forse per un istinto della vita, si rifugiava in una più intensa predilezione di Gaspare, parve obliarlo: la loro esistenza solitaria avvallò lentamente nella vecchiaia come nell'ombra di una sera umida e pacifica. Egli era stato pensionato, ella non aveva avuto altri avvenimenti: adesso si sorreggevano affettuosamente l'un l'altro dimenticando nella inalterabile intimità della loro concordia che la morte potesse mai separarli.
 
Seduto sulla poltrona, coi piedi sugli alari e la testa sull'orlo dello schienale, chiuse gli occhi. La pace tiepida dell'ambiente penetrava nella quiete della sua coscienza onesta di vecchio, il quale non si sentiva ancora decaduto: egli poteva guardarsi intorno e dietro senza un rimprovero. Prudenza era arzilla, si amavano come al primo giorno; mai nella loro lunga vita di sposi una cattiva parola era caduta nel mezzo di un discorso e li aveva momentaneamente divisi. E allora fra quelle ultime fiamme delle bragie che gli lambivano tiepidamente le piante dei piedi, la testa affondata nell'imbottitura dello schienale, si ricordò Prudenza fanciulla, poi sua sposina di vent'anni, non sapeva neppure egli come o perché, tanto era bella, persino troppo bella! La sua figura bianca, colle trecce nere e il sorriso roseo, gli ondulò un istante dinanzi a tutte le memorie del cuore.
 
Aperse gli occhi.
 
La stanza era ancora la stessa della prima notte di matrimonio, solamente quel magnifico comò di noce colla specchiera invece di essere dentro l'alcova dal canto di lei era presso il camino. Gaspare aveva allora voluto rompere appositamente la simmetria coll'altro canterano dell'alcova per esprimere così i diritti della bellezza. Prudenza doveva avere un comò più bello per le proprie camicie più fine e una specchiera per abbigliarsi. Ella aveva sorriso della spiegazione. Poi il comò era uscito un giorno dall'alcova e il canterano vi era rientrato.
 
- Perché? - chiese Gaspare tornato a casa.
 
- Non sono più bella.
 
Non era vero, ma egli lasciò che Prudenza facesse il voler suo.
 
Gaspare si alzò; fossero quelle memorie o il riverbero del camino, aveva il volto acceso: cominciò a passeggiare fermandosi tratto tratto in un pensiero col volto sempre più animato da una gaiezza giovanile.
 
- Che cosa dirà mai! - esclamò improvvisamente.
 
Aveva una grande idea. Intanto che Prudenza assisteva alle tre messe del Natale egli rimetterebbe il comò al posto del canterano e stenderebbe sul letto la coperta di seta gialla che c'era stata solamente la prima notte di matrimonio e il giorno del battesimo. La coperta doveva essere nell'ultimo cassetto del comò. Chissà che cosa Prudenza direbbe di questa sorpresa: era l'ultimo scherzo, egli ne rideva e ne sorrideva. Colla mano già leggermente tremula tirò il cassetto e cercò la coperta: era ravvoltolata in quattro fazzoletti rossi di cotone ancora tutti di un pezzo.
 
Ma s'interruppe, perché quella doveva essere l'ultima cosa: prima bisognava portare il canterano in mezzo alla camera e sostituirlo col comò. Vi si accinse. Siccome tutte le biancherie grevi da tavola e da letto erano nell'armadione, il canterano non pesava troppo. Lo scostò d'ambo i lati, e lo piegava già verso la colonna ai piedi del letto, quando intese cadere qualche cosa lungo il muro con un suono secco di carta. Nel timore di aver commesso qualche malanno corse a prendere la candela e, curvandosi sino ad inginocchiarsi, cercò: era un piccolo pacco. Per istinto, prima ancora di formare un pensiero, ricollocò con due spintoni il canterano a posto e tornò al camino: quindi cercò gli occhiali.
 
La prima era una lettera indirizzata a Prudenza; disciolse il plico, lo aperse a ventaglio: tutte le lettere andavano a Prudenza. Che cosa erano? Egli non ne sapeva niente; sulle prime si vergognò, erano forse lettere di famiglia, pettegolezzi che essa gli aveva nascosti con bontà di sposa, forse di gente già morta. Istantaneamente gli venne quasi fatto di gettarle sul fuoco per ritornare al canterano, ma la curiosità aguzzata dalla solitudine lo punse più profondamente, e ne aperse una. Alla prima parola impallidì, la lettera incominciava:
 
«Angelo mio!
 
Il nostro bambino sta dunque bene…».
 
Ma egli non comprendeva ancora. Tremante, ansante, portandosi istintivamente la mano agli occhiali, quasi dubitasse di leggere bene, proseguì; non v'era dubbio, quelle lettere venivano a Prudenza. A un certo punto era scritto: «perché il nostro bambino non potrà mai chiamarsi Fernando di Steinmetz?».
 
Gaspare ricadde sulla poltrona. La camera aveva sempre lo stesso aspetto calmo, le bragie del camino sorridevano ancora: si sentiva strozzare. Il significato di quelle lettere era così assurdo, il racconto di quel fallo sino allora ignorato così incomprensibile, che in sulle prime non arrivava ad orizzontarsi. Sussulti nervosi gli scrollavano il cuore, convulsioni indefinibili gli capovolgevano il cervello: poi gli si fece come una pace morta nell'anima; e si rammentò l'aneddoto dell'ufficiale al battesimo. Sicuramente era lui. Nullameno era strano. Tutta quella vita di Prudenza che egli conosceva non dava presa al minimo sospetto; le maniere di lei erano sempre state le stesse, i suoi occhi sempre calmi, sempre quieti, il suo sorriso sempre casto. Una simile avventura era dunque impossibile.
 
Ma allora la sua lunga esperienza del mondo gli ricordò centomila casi egualmente impossibili e veri, e rammentandosi la sua antica inferiorità di omino brutto ed insipido vicino a quella donna bella come una divinità, e che aveva sempre vissuto nella modestia della sua vita d'impiegato con una rassegnazione inalterabile quasi da essere strana per lui stesso, allibì. Quindi interpretandola più esattamente gli parve come una rassegnazione di prigioniero; ma tutti i prigionieri non erano colpevoli. Egli lo sapeva, sulle prime non osò condannare. Prudenza aveva dunque amato un altro? Quell'ufficiale, egli ricordava, aveva tutto quanto mancava a lui; era bello, nobile, ricco: naturalmente doveva esserle piaciuto più di un povero impiegato mal vestito, senza spirito, che aveva appena un buon cuore, e non sapeva che amare e rispettare. Quindi una malinconia dolce, piena di generosi rimpianti per se stesso, gli strinse l'anima. Poi si ribellò ancora. Infine egli non ci aveva colpa di essere stato così: perché ella dunque lo aveva sposato? Che cosa poteva rinfacciargli? Non l'aveva sempre tenuta sopra un altare? Non era sempre stato un uomo onesto? Tutti non lo rispettavano? E riandando agli ultimi cinquant'anni della sua vita, così morigerata ed attiva, si disse che valeva bene quella di un altro, giacché egli non aveva d'arrossire in faccia a nessun gran signore. Ma una voce sorda ed ostinata gli gridava nullameno dal fondo della coscienza che il torto era suo: la primavera è dei fiori, e nella stagione dei fiori un buon frutto è senza pregio. Egli non era mai stato altro.
Ma allora la sua lunga esperienza del mondo gli ricordò centomila casi egualmente impossibili e veri, e rammentandosi la sua antica inferiorità di omino brutto ed insipido vicino a quella donna bella come una divinità, e che aveva sempre vissuto nella modestia della sua vita d'impiegato con una rassegnazione inalterabile quasi da essere strana per lui stesso, allibì. Quindi interpretandola più esattamente gli parve come una rassegnazione di prigioniero; ma tutti i prigionieri non erano colpevoli. Egli lo sapeva, sulle prime non osò condannare.
 
Prudenza aveva dunque amato un altro? Quell'ufficiale, egli ricordava, aveva tutto quanto mancava a lui; era bello, nobile, ricco: naturalmente doveva esserle piaciuto più di un povero impiegato mal vestito, senza spirito, che aveva appena un buon cuore, e non sapeva che amare e rispettare. Quindi una malinconia dolce, piena di generosi rimpianti per se stesso, gli strinse l'anima. Poi si ribellò ancora. Infine egli non ci aveva colpa di essere stato così: perché ella dunque lo aveva sposato? Che cosa poteva rinfacciargli? Non l'aveva sempre tenuta sopra un altare? Non era sempre stato un uomo onesto? Tutti non lo rispettavano? E riandando agli ultimi cinquant'anni della sua vita, così morigerata ed attiva, si disse che valeva bene quella di un altro, giacché egli non aveva d'arrossire in faccia a nessun gran signore. Ma una voce sorda ed ostinata gli gridava nullameno dal fondo della coscienza che il torto era suo: la primavera è dei fiori, e nella stagione dei fiori un buon frutto è senza pregio. Egli non era mai stato altro.
 
Prudenza infatti lo aveva sempre apprezzato, ma un fiore misterioso le aveva fatto un giorno girare la testa. Povera donna! Mentre tutte le altre fanno scontare al marito la propria colpa di sensi o di cuore, ella invece lo aveva egualmente prediletto. Allora l'immagine di Prudenza ai bei giorni gli riapparve, quando il suo volto puro come quello di una madonna imponeva quasi silenzio alle voglie brutali dell'amore; o lungo i passeggi nella domenica quando tutti la guardavano, ed egli sentiva in quella ammirazione di tutti come dei rimproveri per se stesso. Egli non era degno di Prudenza; se non avesse profittato della sua inesperienza per sposarla, forse Prudenza sarebbe diventata una gran signora.
 
Ed ella non se n'era mai lagnata.
 
Ma con tutte queste ragioni il suo cuore soffriva sempre. Sciaguratamente per tutti la vita era fatta così, la bellezza aveva anch'essa i propri diritti e la gioventù era piena di passioni. A settant'anni egli doveva saperlo quanto un altro. Perché dunque se ne lamentava? La sua vita, legata con quella di Prudenza a una profondità prima d'ora nemmeno sospettata, si era sempre pasciuta di una illusione, illusione l'amore delle prime notti, illusione l'amore del primo ed unico bambino!
 
Adesso gli sembrava di non avere più passato. La sua vita, semplice impiego nell'amministrazione di un gran signore, serie di conti e di conteggi, perdeva ogni significato: che cosa era dunque venuto a fare nel mondo? E ora tutto era fatto! Persino questa suprema e totale disgrazia era così lontana che non si poteva più parlarne.
 
Nell'oppressione di quest'ultima idea gli parve che una mano di ferro stringendogli lo stomaco gli ricacciasse tutte le castagne mangiate nella sera su per la gola con un'amaritudine di purgante. Per reazione si alzò. La sonnolenza tiepida ed onesta della camera gli fece male, forse la camera conosceva tutto quel triste secreto. Girò due o tre volte per l'alcova sempre colle lettere in mano, e si fermò dinanzi al ritratto di Fernando, alto nella parete sopra quello stesso canterano cui voleva mutare posto. Quell'idea di ricordare a Prudenza la prima notte di matrimonio gli morse allora il cuore. Chissà quante volte ella sopportando le sue carezze aveva pensato con un sospiro al bel ufficiale! Ma Fernando era proprio loro? Si appressò al canterano, lo assettò con un altro spintone al solito posto ed allungandovisi sopra con uno sforzo staccò il ritratto dalla parete.
 
Fernando era miniato, nudo nello splendore della innocenza sopra un cuscino.
 
Egli lo strinse nella mano tornando con passi febbrili verso la poltrona: si mise a guardarlo. La delicata e superba bellezza del bambino finì di atterrarlo, gli si smarrirono i sentimenti, gli si confusero le idee: Fernando non poteva essere suo. Quindi tutte le gioie e i dolori provati per lui gli ripassarono lentamente nella memoria come un corteo di funerale per un cimitero.
 
Gli sembrò di averlo ancora in braccio, mentre la mamma col seno slacciato li guardava tutti e due sorridendo; gli sembrò di insegnargli a camminare, di mettersi carponi perché il piccino potesse movere i primi passi reggendoglisi con una mano ai capelli; si ricordò tutti gl'incidenti per strada, a pranzo, a letto, poi, quando il bimbo ammalò, il terrore delle notti insonni, i lamenti della creaturina che soffriva, il medico intenerito che piangeva quasi, le vicine che venivano in punta di piedi e se ne andavano singhiozzando; poi la morte, il vestitino bianco, la bara coll'angioletto, i fiori, i pianti, Prudenza che ebbe a morirne, lui mezzo morto che doveva consolare tutti e bastare a tutto. Si ricordò che di notte era andato diverse volte solo a piangere lungo le mura della città, si ricordò di tutto e in mezzo a tanto squallore di memorie, fra gli echi di questi lamenti, la figura ilare di Fernando sorrideva ancora ai suoi occhi incantati, mentre la sua vocina gli batteva a strilli sul cuore.
 
Perché dunque Fernando non era suo?
 
Non avrebbe potuto anche esserlo?
 
Che cosa aveva avuto quell'uomo per soverchiarlo così in tutto?
 
Forse in quelle carte c'era più di una spiegazione. Si pose il ritratto sulle ginocchia e riaccostando il mazzo delle lettere agli occhiali si mise a cercare nei bolli l'ordine delle loro date. Voleva leggerle in fila per capire meglio, ma all'improvviso un insulto di sdegno, di tristezza, di dignità amareggiata e nullameno trionfante gli fece gettare il pacco sulle bragie respingendo dispettosamente la poltrona da un lato. Le lettere arsero subito, si contorsero sotto le lingue curiose delle fiamme: qualcuna si aperse, s'involarono su pel camino per ricadere in tanti cenci minimi ed aerei. Egli aveva già ripreso il ritratto e se lo teneva dinanzi gli occhi per non vedere le fiamme: forse non vedeva nemmeno cogli occhi il ritratto, ma la sua anima non lo ammirava che meglio.
 
Oramai non sapeva più di avere settant'anni, né quando avesse perduto il bambino; invece gli contava i ricci sulla fronte e mettendogli un mignolo in bocca gli diceva:
 
- Mordi, Nando, mordi, Nando! -
 
E Nando, grosso e biondo come un vitellino, era lì, c'era sempre stato, ci sarebbe sempre, gli saltava sopra un ginocchio ed allungandogli le manine cogli occhi strizzati, i labbruzzi protesi, si metteva a battergli coi talloni gli stinchi strillando:
 
- Cavallone, cavallone! -
 
Egli rideva, ritornava bambino, poi sollevandolo a tutta l'altezza delle proprie braccia gli domandava:
 
- Nandino, vuoi più bene a me o alla mamma? -
 
Una mano lo percosse sulla spalla.
 
Gaspare si voltò di soprassalto rimanendo col ritratto alzato sopra la testa.
 
- Che cosa fai, Gaspare? - chiese Prudenza con voce intenerita, indovinando quella contemplazione.
 
Gaspare ebbe una scossa violenta, si scrollò, la guardò un istante cogli occhi sbarrati, parve che un lampo gli schizzasse dalle pupille, che la bocca gli si contraesse ad una parola: tremava, aveva la faccia smarrita, le mani vibranti.
 
Prudenza affagottata ancora nello sciallone, col viso calmo, un po' giallo, un viso di buona vecchia che ha pregato ed è contenta di se stessa, lo guardava con amorevole rimprovero.
 
- Gaspare….
 
A quella voce egli si arrese, abbassò la testa, una lagrima, che l'altra non vide, gl'inumidì gli occhi, e baciò il ritratto.
 
Ella più commossa fece un gesto carezzevole per toglierglielo, ma Gaspare sollevò il capo, le prese una mano e stringendogliela esclamò finalmente:
 
- Ah! se fosse vivo….
 
<center>'''CRISTO ALLA FESTA DI PURIM'''</center>
 
CRISTO ALLA FESTA DI PURIM
 
Pioveva.
 
Nella piccola trattoria, vuota a quell’ora, i quattro giovani seduti all'ultimo tavolo in fondo, con dinanzi un fiasco di Chianti ancora intatto, parevano pensosi; uno di essi, biondo, dalla faccia pallida, che colla schiena al muro guardava per la vetriata dell'uscio sotto il portico, esclamò:
 
- Eccolo!
 
Infatti entrò un'alta figura di prete, curvo delle spalle, che traendosi tosto il cappello per scrollarne l'acqua mostrò una fronte di una dolcezza straordinaria malgrado i capelli neri, ispidi e duri, che la incorniciavano; ma così giovane non poteva essere che uno studente di teologia.
 
- Dunque? - domandò sedendosi famigliarmente.
 
- Ci siamo stati, l'attore è grande - rispose Tarlatti, il biondo, con voce sottile, passandosi spesso la mano sul capo quasi automaticamente.
 
- Zacconi è forse più che il migliore attore d'Italia - disse Osnaghi, il poeta: - peccato che tu non possa andare a sentirlo.
 
- Che importa l’attore in un’opera simile? - interruppe l’abate.
 
- Importa come la misura nel verso. Sul teatro il personaggio, essendo vivo, deve esprimere nella lealtà il pensiero, che lo ha creato, molto più che il poeta, costretto a scrivere solamente le parole, presuppone tutto il lesto nell'attore. Tu sopprimeresti altrimenti il teatro.
 
- Si seppellirebbe un morto, evitando così la riapparizione di scheletri scenici come il Cristo di Bovio! Non è teatro questo, non è dramma, non è scena, non è figura - seguitò concitatamente Mattioli, che gli era vicino, più piccolo, bruno, dalla fisonomia vivacissima. - Tutto vi è egualmente falso, lo scenario e gli attori, il pubblico che ascolta, e colui che ha scritto. Il dramma riassunto in una sola scena, dalla quale il vero personaggio resterebbe fuori, era certamente una grande idea: Cristo non può essere rappresentato che così, facendolo solamente sentire: tutte le figure devono muoversi intorno alla sua ombra esprimendo nei propri atteggiamenti il variare dei suoi moti. La scena poteva essere superba, Gerusalemme, nel momento della sua fine ideale, identica a quella di Roma; a Gerusalemme cadeva la monarchia divina, a Roma era caduta poco prima l'unica repubblica cittadina, perché la creazione era più grande oramai del creatore, e il diritto del mondo più largo della legge romana. A Gerusalemme come a Roma la stessa corruttela di costumi, il medesimo sfacelo d'istituzioni, una eguale anarchia d'idee. Forse mai più magnifica scena fu apprestata dalla storia al genio di un poeta. Mentre Roma soccombeva non allo sforzo di resistere alla invasione ideale del mondo nella sua coscienza, ma alla propria impossibilità individuale di contenerla; in Gerusalemme, più antica e più forte malgrado la schiavitù politica, il potente spirito semitico rimaneva ancora chiuso entro la coccia della legge mosaica. L'Ebraismo vivente tuttora, sopravvissuto alle tragedie di una migrazione millenaria attraverso tutti i popoli, infrangibile come un atomo in ognuna delle sue più piccole stazioni era ancora in Gerusalemme una idea più compatta che non il gius quiritario a Roma. Ed eccola prima scena del dramma di Cristo che, detronizzando Iehova coll'adottarlo per padre, sostituiva al dualismo del popolo eletto coi popoli gentili, assurda ed atroce primogenitura, l’universalità dell'uomo pari all'unità divina.
 
L'abate si lasciò sfuggire un gesto.
 
- Non interrompere, ho bisogno di dir tutto, subito, per non confondermi. Non discuto che il dramma di Bovio, io sono un artista: tu, Tarlatti, che sei un filosofo scettico: tu, abate, che sei un mistico: tu, Osnaghi, che sei un poeta: tu, Tebaldi, che sei un socialista, discuterete l'idea. Che importa una idea nell'arte, se non vi crea una figura? L'arte è vita. Bovio aveva trovato l'opposizione drammatica, Cristo e Giuda, l'eroe e il traditore, questa necessità di tutte le tragedie, questo segreto di tutte le catastrofi, dalle quali si sprigiona una idea. Ma che cosa diventa Giuda nella scena di Bovio? Un patriota in ritardo, che congiura in piazza fra due legionari romani e una etèra greca, i quali parlano come lui, tutti in un modo, a concetti aforistici, con formule liriche; non personaggi bensì maschere, dalle quali soffiano il pensiero e le parole di Bovio, come purtroppo le prodiga da anni nei libri e nei discorsi; seicentismi di pensieri e di parole in un’asma di stile, entro i vuoti del quale molti operai ed alcuni studenti cercano indarno la profondità. Vi è del sonnambulo e del ventriloquo in quell’uomo. La scena - si rivolse all’abate - giacchè bisogna ripensarla tutta per discuterla, si svolse sulla piazza di Gerusalemme: dalla porta aperta della sinagoga si vede e si ode lo Sheliach leggere il parascà al paragrafo di Ester, mentre per la piazza passano fallofore di Lesbo, tribadi di Sparta, batilli, una etèra e Giuda con due congiurati. L'etèra l'apostrofa dalla lettiga con uno squarcio di filosofia della storia per spiegargli la impossibilità di una rivolta giudaica contro Roma, un centurione la soccorre d’argomenti rinfacciando agli ebrei di non avere nè un Gracco, nè un Catilina: poi l’etèra pesando con la rapidità femminile le sue filosofie, che secondo lei si dividono il mondo, quella di Epicuro e quella del Rabbi di Nazaret, conclude rivolta al centurione: «se tu a Roma non mi troverai fra le compagne di Tiberio cercami fra le seguaci del Messia». La prima cortigiana ha parlato, e da buona pronipote di Aspasia proibisce ai Farisei di uccidere Cristo, perchè dopo cinquanta e cinquanta olimpiadi il mondo non ha ancora perdonato agli Eliasti e ad Atene la morte di Socrate. Per una etèra, che arringa in piazza dalla lettiga, bisogna accontentarsene: evidentemente i discorsi di piazza non erano allora come adesso, se l’etère vi parlavano come i moderni professori di filosofia del diritto. La prima cortigiana ha declamato il proprio pezzo: aspettiamo la seconda, Maria di Magdala. Ma Giuda rimasto solo sulla piazza disegna a sè medesimo il proprio ritratto in un monologo ritmato come un recitativo, e che comincia con una invocazione all'etèra già lontana. Nella leggenda cristiana Giuda è il traditore, ma siccome il tradimento è fatto ad un Dio, Giuda vi diventa meno di uomo vendendo inesplicabilmente il maestro per trenta denari, duecento cinquanta franchi moderni, ed impiccandosi subito dopo per il rimorso. Il Cristianesimo nello sforzo di fare il Cristo un Dio ha violato intorno a lui tutti gli elementi umani: ma Giuda perchè tradì? Questa oscura domanda ha sempre pesato sul sentimento cristiano; il traditore nella prima parte della vita di Cristo rimane insignificante, quindi la sua negazione scoppia improvvisa ed assurda per dissiparsi subito dopo entro l’ombra. Nell’arte la figura di Giuda non fu mai disegnata, e Dante stesso, il poeta dei poeti, il più pensatore dei poeti come dice Bovio, vi ha fallito mettendolo in fondo all’inferno in una delle tre bocche di Satana fra Cassio e Bruto. Dante, che applica sul Satana biblico la triplice maschera del cerbero virgiliano, e nella gamma divina delle espiazioni pareggia deicidio e legicidio! Eppure è Dante, il poeta della Tolomea, nella quale i peccatori traspaiono come paglie nel ghiaccio e, mentre piangono per lo spasimo, le lagrime si gelano loro dentro gli occhi! Nullameno Dante ha fallito, Bovio altera le date della leggenda cristiana per condensarne il significato; la famosa frase - qualcuno tradisce - pronunciata all’ultima cena cogli apostoli, la suppone detta prima dell’aneddoto coll’adultera, pel quale ha concepito il proprio dramma. Giuda comincia col pensare il problema di Socrate: ebbe egli ragione di morire per le leggi della sua città anzichè per la propria dottrina? «Sarà più grande di lui questo idealista di Nazaret?» Perché Giuda applica a Cristo questa parola moderna e nel più moderno significato? Poi definisce gli apostoli: «Pietro che trema, Giovanni che delira, Giacomo che gonfia, Tomaso che dubita», ma Pietro nella tragedia cristiana tremerà e rinnegherà veramente il maestro solo nel cortile di Caifas, Giovanni delirerà vecchio nell’Apocalisse, Tomaso resterà celebre per il proprio dubbio contro Cristo risorto e riapparso alle donne e agli altri apostoli, Giacomo gonfia o gonfierà… che cosa? Io non lo so.
 
Un sorriso apparve sulle labbra di tutti quei giovani.
 
- Lascia, lascia, tutto questo sarebbe nulla: non è Giuda che parla, ma Bovio, il quale nel l894 crede di poter giudicare ognuno di quei quattro apostoli con una sola parola. E sempre l’uomo, che nella propria Filosofia del Diritto scriveva: «Spartaco ebbe un successore, Cristo», ed ecco pareggiata una guerra servile di Roma a tutto il cristianesimo. Ma Giuda sente una fatalità di tradimento intorno a Cristo: la battuta questa volta è buona, se non che Giuda dovrebbe sentirla in sè stesso per alzarsi a figura drammatica rivale di Cristo, e invece arzigogola sul tradimento, il quale è secondo lui nell’aria, nella folla, nei discepoli, nei fratelli stessi di Cristo se il genio può averne, per finire al solito in una lirica, dubbiosa bestemmia: «Se dietro al tuo patibolo il traditore sono io, la complicità si addensa dal genere umano a tuo Padre».
 
- Ma lo sai dunque tutto a mente? - chiese Osnaghi.
 
- Ecco tutto il Giuda di Bovio: che cosa è quest’uomo? Parrebbe un patriota giudeo, poi si perde nel vaniloquio, non ha una passione, una idea, un carattere, un temperamento. Parla come un retore, declama peggio d’un istrione essendo a sè stesso teatro ed attore, e, come questo non bastasse, ecco ancora Maria di Magdala a fargli l’ultima lezione di filosofia. L’etèra della prima scena avrebbe dovuto essere la donna pagana, abbastanza fine per cogliere i primi sottili aromi di un pensiero nuovo anche se religioso; questa della seconda sarebbe già la passione novella, l’amore umano purificato dal contatto divino e sublimatosi nel sacrificio di sè medesimo sino a diventare più limpido della innocenza. La figura di Maddadena così bella nella penombra della leggenda cristiana, schizzata con due o tre tocchi, sentite come parla: «Potrai trovare ancora un fatto, un pensiero, che superi - solo - la malizia del mondo? «E Giuda rimbecca: «Sarà un pensiero di genio». Maddalena: «Innanzi al quale il Nazareno è vile: chi sarà l'eroe? «Giuda guarda a terra, e io sono tentato di fare altrettanto, perché non credo di aver capito più di lui. Quindi disputano su Cristo; Maddalena, con un linguaggio imitato dalle eroine di Dumas figlio, accenna alla propria caduta e al perdono del Rabbi senza potersi decidere come Giuda a prendere Cristo nè per un uomo, nè per un Dio, quantunque sia venuto un giorno a sedersi sul verone della sua, casa, e lì, sognando senza forse, gli sia sfuggito dalle labbra pallide - non mandarmi questo calice, sudo Sangue, non abbandonarmi, perdona loro perchè non sanno quello che si facciano - tutti i gridi supremi, che segneranno il crescendo spasmodico del suo sacrificio. E quasi ciò non fosse abbastanza falso drammaticamente riferisce a Giuda il giudizio su lui di Cristo, così: «Giuda non è la fede di Filippo, di Bartolomeo e degli altri semplici, nè il pensiero del filosofo di Stagira: è la mezza mente che, posta fra due mondi, oscilla fra due fini e rasenta il tradimento». «Se egli si uccide, somiglia a quel tumido Uticense che stimò di non poter sopravvivere a repubblica morta da gran tempo: se mi uccide somiglia a quel Cassio iracondo che tentò rifare una repubblica disfatta sopra un uomo ucciso» Infine questa disputa di accento scolastico e di volgarità moderne finisce all’ultima moda socialistica: questo ti riguarda, Tebaldi. Giuda accusa d’insufficienza la teorica di Cristo e, profetizzando che i prelati ricchi dell’avvenire non lo riconoscerebbero se gli saltasse il ticchio di risuscitare dopo un millennio, urla contro la promessa di una seconda vita: «Ahi!… qua il solco, qua il seme, qua la spiga, qua il diritto! - Di là c’è frode».
 
- Tutto questo è goffo, lo so: ma aggiungi ancora la bella parola: «Il venditore di Cristo non sono io: verrà!» - disse Osnaghi guardando Tebaldi, che non aveva ancora parlato. - La sola bella di tutta la scena, perchè le ultime parole di Maria di Magdala sono di una fraseologia ancora più torbida: «Se il tuo redentore è nel numero, la tua redenzione non è destinata. Va e cerca nel numero il tuo Messia che non sa liberare sè dalla turba. Addio».
 
- Pazienza se fosse qui finita! - sogghignò Tarlatti - ma invece siamo ancora al prologo del dramma scritto solo per il motto finale nella scena dell’adultera: Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Naturalmente tutti restano colle pietre in mano tranne il centurione, che getta il proprio bastone di vite per raggiungere Cristo dietro le quinte.
 
- Oh! - interruppe Osnaghi - perchè non ripeti la formula frugoniana del centurione?» «Restitusci a Roma questo mio bastone di vite, e dille che una parola è nata più equa del diritto del pretore». Quale capitano di fanteria declamerebbe oggi così?
 
- E siccome Giuda piange, Maddalena per consolarlo gli dice anch’essa il proprio giudizio: «Innanzi a te Egli è già un mito, e tu innanzi a Lui sei già la posterità incredula che simula adorazione»
 
- La lezione è terminata! - conchiuse Osnaghi stringendosi nelle spalle.
 
- Se l’arcivescovo di Napoli avesse saputo tacere, questo Cristo alla festa di Purim non lo si sarebbe rappresentato come non lo si era letto.
 
- Oh - ribattè l'abate - tutto ciò che tocca Cristo diventa importante. La chiesa ha creduto di opporsi a questa opera di Bovio certo non per quello che vale, ma per quello che significa.
 
- Forse hai ragione - disse Tarlatti.
 
- Riassumiamo prima - si ostinò daccapo Mattioli. - Che cosa c'è in questo Cristo di Bovio? Cristo no, Giuda nemmeno, ma tre donne, una ètera di Grecia, la cortigiana di Magdala, l'adultera di Gerusalemme: una triade femminile, dentro la quale avrebbe dovuto mostrarci l'idea di Cristo. La prima non è già più una ètèra per il semplice fatto di sentire anche da lungi la sua presenza, la seconda diventa una pitonessa per avergli parlato, la terza si salva dalla lapidazione per aver ottenuto senza nemmeno chiederla una sua risposta. Null'altro. Cristo che chiama Aristotile il filosofo di Stagira è dà del tumido Uticènse a Catone, dell'iracondo a Cassio, della mezza mente a Giuda, mandandolo a pensare la verità messianica nel deserto perchè la larghezza dello spazio gli suggerisca quello che la lunghezza dei secoli dovrà rivelare: e che passa sulla terra unicamente per risolvervi un caso di adulterio come un pretore… tale Cristo è davvero la più sconoscente ingiuria proferita contro di lui in questo secolo, che dopo avergli conteso la divinità gli ha negato perfino l'esistenza. Mai più vacua corpulenza di pensiero si sgonfiò in più informi sembianze di arte, e più inetta soggettività di autore, si atteggiò drammaticamente per falsare figure ed ambiente, idea e linguaggio…
 
- Perchè perdi in questo momento tu stesso la misura?
 
- Perché il dramma c'era.
 
- T’inganni. Nel medioevo la chiesa rappresentò la Passione nei Misteri, ma quando sorse il teatro nessuno dei grandi poeti pensò di trarre dalla Passione una tragedia, e bada che nè Lopez, nè Calderon sono grandi poeti.
 
- Tu opponi un fatto ad un’idea: è troppo poco.
 
- Forse!- intervenne Osnaghi - ma io ti opporrò idea a idea. Tu credi al dramma di Cristo, io no: tu vedi d' ambiente e la scena, Gerusalemme divisa fra partiti politici e sacerdotali, la doppia tirannia di Erode e del Sanhedrin, poi Roma più in alto. Cristo appare dal popolo, secondo te; i discepoli gli si stringono intorno, le donne s’innamorano della sua parola, i partiti si acquetano per ascoltarla. Scene di miracoli e scene domestiche abbondano gli apostoli formano una prima Tavola Rotonda, alla quale
Cristo annunzia il tradimento, perché come tutti i veramente grandi egli ha presentito la catastrofe e indovinato il rivale. La bravura dei discepoli messa a dura prova nel processo soccombe, la prima fede del popolo si dissipa; Pilato, l’indulgente magistrato romano, spicca originalmente fra le sinistre figure dei pontefici, e l’ultimo atto si compie sul Golgota colle donne sotto alla croce. Ebbene, mio caro, il dramma non c'è. Se di Cristo fai un uomo, urti nel fantasma divino, che di lui è in tutte le coscienze, e in questo dissidio l’anima del pubblico si frange. Se tu lo mostri Dio, tutto il suo valore umano non è più che un simbolo vuoto. Il dramma non può oltrepassare i limiti della individualità, noi dobbiamo cozzare nel fato, in Dio, non esserlo.
 
- Eschilo ha scritto il Prometeo.
 
- Tragedia umana, mio caro, perchè Prometeo e Giove non superano le proporzioni di due eroi, e l'Olimpo non è più alto del Caucaso. Cristo nell’arte non può apparire che solo, figura umana, dalla quale traspare lo spirito divino, nè uomo, nè donna alla fisonomia, di una bellezza vera e non reale, come lo rappresentarono i grandi pittori antichi. Guarda i loro crocifissi: il corpo non spenzola come dovrebbe dalla croce, lo spasimo della sua faccia è ineffabile, ma non vi si sente alcuna fitta corporea, il suo dolore è divino e ha atteggiato di sè stesso la bellezza del volto. Oggi credono di fare del realismo dipingendo un uomo crocifisso: la verità è nell’altro, il Crocifisso.
 
- La poesia è fede - esclamò l’abate: - tu sei vicino ad accoglierla.
 
- No - interruppe Tarlatti, - la più grande poesia è nel dubbio: ecco perchè ho amato la figura di Cristo. Tu no, abate, non puoi rileggerle perchè hai la seconda vista dei mistici; ma voi altri pigliate ancora una volta le sue parabole, allineate le sue risposte. Vi è in tutte una mestizia irresistibile, una ironia sottile, che Renan solo ha saputo cogliere. Il dubbio trema nell’anima del Messia: attraverso i racconti ingenuamente impossibili degli evangelisti si comprende che il suo dubbio tocca gli altri, giacchè nemmeno i suoi miracoli più stupefacenti. come quello di Lazzaro, bastano a persuadere coloro stessi che vi assistono. All’altezza, cui è salito, la vista gli vacilla: il mondo troppo grande anche pel suo occhio di veggente sarà sempre più antico (e più vasto di qualunque opera, e la sua redenzione trionfandovi non avrà redento che pochi. Allora, il redentore preso nella vertigine della propria illusione prova nel freddo della caduta i primi brividi del nulla. Ecco il dramma di Cristo, l’impossibilità di credersi Dio e di farlo credere prima di morire. Infatti tutte le sue affermazioni sono ambigue, i discepoli, che lo seguono, non le comprendono più di colui che dovrà tradirlo: l’avvenire gli è chiuso come il passato, la morte stessa, dando agli altri la fede nella sua divinità, non gli basta più. Nessun processo somiglia a quello di Cristo, giacchè tutto vi si riassume in una parola: qui est veritas. Il silenzio di Cristo davanti a questa dimanda di Pilato è la sua sconfitta di Dio. Che importa il resto? La magnifica scena del Golgota colla ironia finale della fede, che morta nel redentore ricomincia nel ladrone crocifisso al suo fianco: l’ineffabile malinconia della sostituzione di Giovanni, il più poeta tra i discepoli, come figlio nel cuore di Maria: l’ultimo, delirante appello nel vuoto - Dio, dio, perchè mi hai abbandonato?- e subito dopo tutto il peso della morte nel terribile - consumatum est - questo finale sublime non vale il silenzio di Cristo davanti alla domanda di Pilato: quid est veritas? L'espiezione del redentore è tutta in quel silenzio.
 
Gli altri guardarono all’abate come aspettando uno scatto, ma questo invece si volse a Tebaldi:
 
- A te ora, poiché i poeti, i quali come Osnaghi fanno ancora dei versi, non sentono più Cristo che dipinto. Tu socialista, se davvero il socialismo sarà Un’epoca nello spirito umano, devi intendere quella, dalla quale esce. Ami tu Cristo?.
 
- Io lo odio.
 
- Tanto meglio! Il tuo odio potrebbe averlo compreso più dell’amore di Tarlatti. Cristo non ha egli detto: chi non odia l’anima sua in questa vita non la serberà immortale? Chi odia crede.
 
Tebaldi il più grosso dei quattro si torse verso l’abate appoggiando il gomito sulla tavola e guardandolo fissamente; la sua faccia: quadra, bruna, dai sopraccigli quasi riuniti, esprimeva una fiera energia.
 
- Non ho il vostro ingegno – cominciò - ma io credo; per voi altri la vita è uno spettacolo, del quale vorreste riprodurre i quadri nell’arte, e così pensereste di aver vissuto. Allora come ridete di Bovio? Perchè il suo quadro di Cristo è brutto? E bello a che cosa gioverebbe, se nemmeno la redenzione di Cristo ha giovato? Quando tu, Mattioli, parlavi di Giuda, io ti ascoltavo attentamente: il cristianesimo non ha potuto comprendere il suo tradimento, tu dicevi. Ebbene, io ti rispondo: perchè tradimento non vi fu. In che cosa si poteva tradire Cristo? Qual’era la sua idea? Io non la so.
 
- Il mondo l’ha accettata. - proruppe l'abate.- Rimanendo tale quale, quindi non la sa come me. Egli si proclama figlio di Dio: è questa l’idea? Tutte le mitologie dei suoi tempi n’erano piene. La redenzione dal peccato originale mediante una incarnazione divina? Tutte le mitologie n'erano piene. Un'altra vita in un altro mondo migliore? Tutte le mitologie n'erano piene. L'uguaglianza del genere umano.
 
- Sì.
 
- Ma non osò proclamarla.
 
- Nel cristianesimo schiavo e padrone sono eguali.
 
- Come dunque sono ancora schiavo e padrone? Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo.
 
- Perchè dunque hai detto di odiarlo?
 
Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell’abate si rischiarava; ambedue sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni.
 
- Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l’ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l’uomo, certamente per l’uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l’umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? - In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell'altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione.
 
- Nell’infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d’ingiustizia l’elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l’uomo soffre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l’uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l’equazione facendo a meno dei suoi dati?- La società sola riduce l’uomo infelice.
 
- Ancora l’uomo contro l’uomo! Perché? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L’umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell’avvenire? Il primo pensiero dell’uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio.
 
- Troppi lo hanno già chiesto indarno.
 
- E tutti chiederanno sempre.
 
- Perchè il dubbio è la nostra unica verità - intervenne Tarlatti.
 
- No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l’altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i perchè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll’infinito, dell’uomo con Dio: e poiché nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell'arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell’odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L’umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell’umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L’indimenticabile dell'uno non vale dunque l’immutabile dell’altra? Per coloro, che credono, il presente è l’eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l'effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell’umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede - se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? - Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l’immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono.
 
- Chi crede più? - chiesero tutti a una voce.
 
- Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l’universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio.
 
- E la chiesa, della quale tu vesti l’abito? - intervenne con fine sorriso Tarlatti.
 
- Signori, è ora di chiudere - disse l’oste appressandosi a1 loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell’ambiente. Il fiasco era ancora intatto.
 
- Oh! - proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l’oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora.
 
Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell’indomani all’università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano.
 
- Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l’intestatura dell’ultimo capitolo nell’ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo.
 
- E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta.
- Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l’abate coll’imperturbabile fede dei mistici.
 
 
 
TESTA O LETTERA?
 
- Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l’abate coll’imperturbabile fede dei mistici.
 
<center>'''TESTA O LETTERA?'''</center>
Una volta era stato un signore.
 
I vecchi del villaggio si ricordavano ancora di suo padre, il cavaliere, che Gregorio XVI nominò conte per quelle due tornature di campo offerte al paese, quando si doveva costruire la grande chiesa parrocchiale. Ma il titolo di conte non aveva attecchito, perché nelle fantasie montanare egli avrebbe dovuto essere molto più ricco per meritarlo davvero; rimase quindi cavaliere.
 
Fece educare il figlio, l'estremo e l'unico della sua vita, nel seminario della prossima città, poi sentendosi troppo vecchio lo riprese a casa e se lo tenne costantemente dappresso sino agli ultimi giorni. Il ragazzo diventato ormai giovanetto sembrava intelligente ed era bello; quindi il cavaliere morì, e il giovanetto fattosi quasi uomo volle subito essere un giovane alla moda secondo il costume d'allora nel villaggio. Ma siccome la moda è identica in tutti i luoghi e in tutti i tempi, si mise contemporaneamente a comprare cavalli, a giuocare, ad amoreggiare. La sua vita era una festa. Fragorosamente allegro, stordendosi nel proprio frastuono e colle adulazioni della poveraglia, che lo chiamava sempre conte e cavaliere, egli era l'anima e l'invidia di tutto il villaggio. A notte lo assordava di risa e di canto ubbriacando per tutte le bettole quanti ne avevano voglia, ed erano molti: di giorno passava e ripassava sul selciato roccioso dell'unica strada, alto sopra la propria sedia. Così allora si chiamavano i biroccini; ma la sua sedia era dorata, dipinta di rosso, con un gran tappeto, il primo che il villaggio avesse forse visto, e che egli lasciava spenzolare fra il montatoio e una stanga a guisa di gualdrappa.
 
Le sedie di quel tempo, primo e massimo sintomo di ricchezza in una famiglia, somigliavano agli ultimi sedioli usati nelle corse al trotto, sostituiti poi dai sulki americani, ma erano a due posti; e siccome non avevano molle sotto la grande cassa di legno festosamente dipinta o intagliata, per ottenere una qualche elasticità portavano due stanghe smisuratamente lunghe. Così gravitando e molleggiando sulle reni del cavallo, massime nelle discese, permettevano di parlare senza troppo pericolo di mangiarsi la lingua nell'assiduo trabalzare sui ciottoli delle strade. Da alcuni paesetti montanari delle Romagne le ultime sedie hanno forse portato alla città i voti del plebiscito nel 1859: oggi nella rapida vicenda di tutte le forme nessuno le ricorda più.
 
La sedia del cavaliere era dunque dorata come la sua vita, chiassosa come la sua gioia, rapida come i suoi capricci, andava sovente nel fosso come la sua fortuna. Una volta fortuna e sedia vi rimasero così sbriciolate che nessuna avarizia o pietà tentò di risollevarle.
 
Ma prima il cavaliere aveva preso in moglie una fanciulla di eccellente famiglia diventata poi quasi illustre per due uomini politici saliti ad alte cariche nella rivoluzione. La fanciulla sedotta dalle apparenze painesche del cavaliere lo aveva sposato, regalandogli presto in quella allegra vita, senza troppo capirla, due figli. Quindi nel crollo improvviso di tutta la casa restò più intontita che afflitta: la sua natura bonaria, capace di vivere in ogni condizione quasi colla stessa facilità, devota, fredda, di un appetito insaziato e di un cicalìo inesauribile, la salvò dalle cupe malinconie dei decaduti.
 
Poi morì abbandonando il giovane dissoluto con due bambini, solo e povero. Il giuoco gli aveva già fatto perdere quasi tutte le masserizie, senza che il suo temperamento ne fosse domo: lasciò i figli crescere nel rigagnolo e iniziò per sé stesso un sistema di scroccherie basato sulle antiche relazioni di famiglia. L'arguzia dei primi espedienti aiutata dalla sfacciataggine delle maniere gli diede per qualche anno un abbondante ricolto; in seguito slargò le operazioni, come soleva egli stesso dire ironicamente, circuì ogni forestiere signorile capitasse nel paese, fece da scrivano e da segretario, fu sensale e mezzano, visse di tutto e di tutti. Avendo una eccellente calligrafia, qualche studio grammaticale e potendo firmare "conte" e "cavaliere", due titoli che davano una grande rispettabilità alla sua volontaria sventura, poté spillare quattrini al vescovo, poi a quanti gli successero, finché giunto il '59 ed eletti i deputati si credette quasi ricco. Per molti anni gabbò tutti quelli della provincia col darsi a credere a volta un Giobbe e a volta un grande elettore, o partendo talora cogli abiti più sdruciti a fare il giro della diocesi si presentava ovunque e sempre col migliore italiano, mentre nel villaggio per dispregio della gente non discorreva mai che nel più sordido dialetto, ma ritornando invariabilmente senza un soldo dopo averli tutti perduti in qualche bettola.
 
Però non sentiva rimorsi. E oltre il giuoco aveva ancora un vizio ed una passione: era goloso, nauseantemente goloso di dolciumi, e pazzo per la caccia alle reti. Nei giorni migliori, quando colla vendita di qualche uccello poteva comprarsi delle paste, veniva subito nel caffè per mangiarle dinanzi alla gente con ogni sorta di lazzi e d'ingiurie contro i signori del paese, che facevano la più miserabile vita e non erano nemmeno da tanto che sapessero come lui cavarsi un capriccio.
 
- Perché non le dai piuttosto ai tuoi bambini? - gli fu chiesto un giorno.
 
- Il bambino sono io.
 
Ma poi ci pensò e gli parve con un certo senso di umiliazione che la risposta fosse più vera di quanto volesse. Infatti era stata accolta da una risata significativa.
 
Alcuni parenti umiliati da quella sua vita di mendicante si offersero più di una volta a trovargli un impiego, ma egli rifiutava ostinatamente.
 
- Se lavorassi nessuno mi crederebbe più conte.
 
- Allora mandate almeno a bottega i ragazzi.
 
- Prima di tutto sono conti anche loro se lo sono io: però se ci vogliono andare, non mi oppongo.
 
Naturalmente i ragazzi se ne guardavano bene.
 
Poi venne il '66 ed essendo allora quasi due giovanotti diventarono due garibaldini. Alla partenza, siccome in paese si era fatta una colletta per i volontari e ad essi n'era già toccata una parte, il padre li chiamò. Erano presso un'osteria.
 
- I tedeschi sono sempre stati nostri nemici, ma questa volta dev'essere finita per sempre: battetevi tutti da bravi - concluse dopo un lungo discorso alla presenza di molta plebaglia, che gli batté fragorosamente le mani. - E adesso beviamo.
 
- Vorreste mangiarci quei due soldi che abbiamo - rispose il maggiore dei due figli, il più lacero.
 
- Ti ho detto di bere - ribatté il conte rattenendosi.
 
- Dove avete i quattrini voi? -
 
Il vecchio, che si vide penetrato, gli lanciò una occhiata sinistra; la plebaglia rideva e fermava quanti passassero per farli assistere alla scena.
 
- Il conte, il conte! - vociavano i bambini.
 
Il conte era diventato livido.
 
- Tu dunque vai a batterti per la patria? - replicò con voce stridula. - Sai che cosa ti darà la patria, dopo?
 
- Non voglio niente io.
 
- Te lo darà ugualmente: ti darà la galera.
 
Il figlio alzò la mano, ma la gente s'interpose.
 
Nullameno il conte trovò modo di farsi ubbriacare da un altro volontario, e prima di sera incontrandosi coi figli:
 
- Ohé! - gridò loro barcollando - io ho fatto bene la mia prima tappa.
 
Questo scherzo li rappattumò.
 
Ma come il vecchio aveva predetto accadde: dopo cinque o sei anni ambo i figli quantunque non malvagi finirono in galera. Egli proseguiva la solita vita, solamente era stato nominato organista della parrocchia con cento lire annue di stipendio e, ciò che maggiormente importava, con una nuova facilità a scroccare buoni pranzi. D'allora non fu festa di campagna alla quale si suonasse o no l'organo senza di lui. Arrivava primo, nel tempo della caccia, colle reti e i richiami, per cacciare in qualche campo vicino ove in mancanza d'uccelli s'ingegnava colla frutta o altro; d'inverno col solito mantello bucherellato di panno turchino, un residuo dell'antica eleganza, e il caldanino sotto. Partiva ultimo non senza qualche cartoccio nelle tasche, giacché a tavola domandava quasi per ogni pietanza il permesso di conservarne un ricordo, esagerando questo uso già troppo sfacciato di molti preti. Nella primavera, a caccia proibita, invescava le cingallegre, d'estate arretiva gli ortolani, nel settembre le passere, d'ottobre trovava qualche paretaio disusato per i fringuelli; e d'inverno tornava colla pania ai tordi, o saliva malgrado la neve al paretaio, ne spazzava la platea, e lì nel casotto, semivestito, gelato, con una pignattina di caffè, nella quale intingeva un pezzo di pane, aspettava tutto il giorno che un fringuello più affamato di lui venisse a beccare l'erba presso il boschetto. Era una caccia rabbiosa e desolata. Spesso il vento alzando turbini di neve glieli sbatteva sul volto incorniciato dal finestrino, immobile come un ritratto: aveva i diacciuoli nella barba, il naso pavonazzo, le lagrime agli occhi, e nullameno raggomitolato nel vecchio mantello, il caldanino sulla pancia e le mani sul caldanino, i piedi dentro una vecchia sporta piena di paglia, aspettava sempre. L'uccello arrivava pigolando: allora i suoi occhi scintillavano, un brivido più freddo lo faceva tremare sulla panca, afferrava colla mano dritta la ciambella del tiratoio e attendeva senza respirare. Ma se l'uccello saltarellando per la platea s'involava prima di essere entrato fra le reti, la sua passione scoppiava in un delirio di collera. Poneva il caldanino sul parapetto e alzando le corna al cielo chiamava Dio ad alte grida come un nemico personale, che si compiacesse a torturarlo vigliaccamente.
 
- Nemmeno un uccello… To'! - e un gesto intraducibile conchiudeva la bestemmia.
 
La sera giù nel villaggio, vedendolo arrivare mezzo morto dal freddo senza nemmeno un passerotto, gli davano la berta: egli tornava ad inviperirsi. Poi il governo mise una forte tassa di trentacinque lire sui paretai, di quaranta sulle reti a mano, di dieci per le panie, e proibì i lacciuoli. La nuova legge, soggetto, prima e dopo la promulgazione, di tutti i discorsi del villaggio, fu pel conte causa di nuove tragedie. Egli aveva giurato di cacciare senza nessuna licenza, ma nonostante tutti i riguardi dei carabinieri, che fingevano di non vederlo, cadde più volte in contravvenzione, e dovette scontarla con la perdita degli attrezzi e parecchi giorni di carcere. Le sue bravate al caffè, dove parlava dei carabinieri col più insultante disprezzo, li aveva costretti a catturarlo. Allora fu eroico: colle cento lire dell'organo, la sua unica rendita, comprò tutte le licenze e venne trionfante al caffè ad inveire contro quei signori che per paura della nuova tassa avevano dismessi i paretai.
 
- E quest'inverno? - gli chiese un bracciante che giuocava a scopa.
 
- Sai leggere tu?
 
- No.
 
- Io so scrivere - rispose sardonicamente, e una risata in coro gli diede ragione.
 
Infatti le lettere restavano sempre la sua migliore risorsa, anche quando giuocava.
 
Ma questa frenetica passione del giuoco, che gli aveva fatto perdere i lenzuoli, le sedie e una volta persino i tortellini di Pasqua, prima di cuocerli, a un centesimo l'uno, non riusciva oramai più a soddisfarla. I due o i cinque franchi spillati ai gonzi sfumavano tosto in dolciumi, se il gioco non era pronto: nullameno se ne rifaceva alla meglio.
 
Talora nel paretaio, mentre passava un branco di passeri e dava loro lo zimbello, aveva scommesso:
 
- Cinque soldi che piglio almeno tre passere? -
 
Intanto gli uccelli giungevano al tiro.
 
- Scommettiamo, tiravia: cinque soldi…
 
- Ma come vuoi fare? Potresti prendere anche tutto il branco.
 
- Ebbene in questo caso avrò perduto - rispondeva il giuocatore indiavolato.
 
Un'altra volta gli dettero tre lettere da portare a tre parrocchie: erano inviti per un funerale. Egli partì sollecitamente; cinque soldi per lettera e senza dubbio una pagnotta e un bicchiere di vino dal prete che la riceveva. A un miglio dal paese si incontrò in un altro giuocatore, vecchio contadino, già possidente andato a male. Si fermarono a chiacchierare presso il parapetto di un ponte: ambedue non avevano sciaguratamente giuocato da un pezzo, quindi il conte mostrò le tre lettere e gli espose l'incarico.
 
- Eh! - mormorò l'altro invidiosamente - quindici soldi con poca fatica.
 
- Vogliamo giuocarli?
 
- Non ho le carte - ribatté il contadino con tono amaro.
 
Il conte ebbe un sorriso umiliante di superiorità.
 
- Ecco, sono tre lettere a cinque soldi l'una, vanno a tre parrocchie: scommettiamo. Se indovini la parrocchia hai vinto tu, se non la indovini ho vinto io.
 
- Ma se non ho un soldo! - replicò l'altro solleticato dal giuoco e forse anche dalla sua stranezza.
 
Poi una idea lo illuminò.
 
- Facciamo così: se vinco, tu mi cedi l'incarico e le porto io; così tu non metti fuori niente.
 
- E se perdi? -
 
L'altro si grattò la testa.
 
- Va là, imbecille, l'ho trovata io: se perdi mi accompagnerai nel giro senza guadagnare nulla.
 
Invece perdette il conte.
 
Così erano passati molti anni, poi i figli uno alla volta tornarono dalla galera: il maggiore ripartì dal villaggio e andò a fare il manovale a Roma, l'altro si acconciò nel paese da stalliere presso un oste. Il conte viveva solo. Stava lassù in un solaio screpolato, quasi senza porta, col tetto troppo incline, attraverso il quale si vedevano le stelle: d'inverno la neve gli cadeva intorno al letto alta sino al ginocchio senza che egli pensasse a spazzarla, non aveva camino, e d'altronde gli sarebbe mancata la legna. Il fornaio gli riempiva gratis il caldanino di carbonella: del letto non aveva rimasto che il pagliericcio, entro il quale si cacciava tutto vestito, poi col mantello si faceva una coperta e col vecchio cappellaccio una specie di berrettone. Nei giorni di gran freddo non si alzava più; passava le lunghe ore a guardare i propri uccelli chiusi dentro un abbaino sporgente sul tetto e difeso da una rete di ferro, rifacendo forse per la milionesima volta gli stessi sogni di giuoco, di caccia o di dolciumi. Aveva pochi bisogni e meno rimorsi; se fosse ridivenuto ricco si sarebbe nuovamente rovinato.
 
Oramai in paese la sua miseria e le sue stravaganze si erano talmente invecchiate nell'abitudine di tutti che nessuno gli badava più. Egli tirava dritto.
 
Finalmente si ammalò. Un giorno la ruota di un biroccino pigliandogli il mantello lo fece cadere; parve cosa da nulla, ma non si rimise più. Gli vennero meno le gambe, si mise a letto. Il figlio per rispetto mondano, fors'anche per un rimasuglio di pietà, venne ad usargli qualche cura, a portargli qualche zuppa.
 
Egli non si lagnava. Era d'inverno. Nel solaio aperto a tutti i venti sarebbe gelato il vino: le pareti scrostate e sudicie annebbiavano la poca luce, il pavimento era tutto rotto, la porta sgangherata metteva certi urli ai buffi del vento, che parevano umani. Solo gli uccelli nell'abbaino saltellavano o canticchiavano di quando in quando. Nessun altro mobile o soprammobile occupava un poco di quella nudità desolata, tranne un fiasco spagliato, sospeso per un chiodo a capo del letto. Una volta, quando lo poteva ancora, vi faceva il caffè attaccandolo alla catena del focolare; adesso era vuoto, impolverato, e per coperchio aveva un guscio d'uovo.
 
E, sintomo di morte vicina, egli aveva venduto quasi tutti gli attrezzi di caccia, meno un sacco di reti che gli servivano da guanciale.
 
- È morto? - domandava talvolta la gente al figlio.
 
Questi si stringeva indifferentemente nelle spalle.
 
Ma un giorno l'arciprete si credette in dovere di visitare il suo organista, che da sei mesi non suonava più e si faceva sostituire dal capobanda del villaggio, un giovane di carattere dolcissimo.
 
Quando il conte scorse l'arciprete:
 
- È venuto per darmi il buon viaggio? - esclamò. - Mi dispiace che dovrà accompagnarmi gratis al cimitero, ma io non ce ne ho colpa; l'uso l'hanno inventato loro. Per me ne farei anche a meno.
 
- Non volete dunque i conforti della religione? -
 
Il conte ebbe un sorriso spavaldo. Egli si era sempre vantato d'empietà pur bazzicando nelle chiese, ma la sua fisonomia era così disfatta che il prete credette di non essere venuto inutilmente. Il medico aveva già dichiarato da tempo che il conte oltre la paralisi alle gambe soffriva di un aneurisma. Nullameno l'occhio dell'infermo era sicuro.
 
Allora s'impegnò una lunga discussione fra il prete, che voleva convertire il conte, e questi che, rabbrividendo a qualche sua ragione, non voleva mostrarlo per un'ultima bravata di morire senza sacramento. Erano le tre dopo mezzogiorno; il figlio uscito da un'ora non sarebbe ritornato che a notte. Il vecchio colla testa appoggiata sulle reti, nascosto dentro il pagliericcio, col vecchio mantello sopra il cappellaccio che gli si rialzava come una sporta sulla fronte, non mostrava che la faccia bianca sotto la barba bianca cresciutagli nell'ultimo mese.
 
Ad un tratto si sentì male.
 
Il prete gli si chinò sopra premurosamente:
 
- Aspettate, vado a prendere i sacramenti - mormorò vedendolo mutare fisonomia.
 
Ma l'altro mise fuori una mano e lo rattenne.
 
- È tardi.
 
- Raccomandatevi a Dio.
 
- Ma c'è?
 
- Ne dubitereste proprio? -
 
Il vecchio dubitava davvero.
 
Ma il prete richiamato a tutta la serietà del proprio ufficio da quella agonia improvvisa, si trasse di tasca una grossa medaglia e presentandogliela perché la baciasse:
 
- È la Madonna delle Grazie, vi sono due mesi di indulgenza a dirle un'avemaria.
 
Il vecchio tese la mano.
 
- Baciatela dunque.
 
- Ma c'è?
 
- Chi?
 
- Dio - e tacque; poi facendo uno sforzo per voltarsi a guardare in faccia l'arciprete, gli mostrò la medaglia.
 
- Scommettiamo: io prendo testa, voi lettera.
 
- Disgraziato! - gridò il prete, offeso nella propria fede da quello che egli prendeva per uno scherzo brutale.
 
- Avete paura di perdere; scommettiamo: non c'è.
 
- Dio?!
 
- Testa… - chiamò l'infermo gettando la medaglia in mezzo alla stanza, e piegò subitamente il capo.
 
Rantolava: il prete si voltò al tintinnìo della medaglia, ma attratto dal rantolo del morente non poté raccoglierla. Il conte moriva, aveva gli occhi vitrei, un filo di bava sulla bocca. A un tratto, mentre il prete suo malgrado agitato da quella suprema scommessa stentava a trovare le parole rituali per raccomandargli l'anima, il vecchio sbarrò gli occhi: parve voler parlare.
 
- Raccomandatevi a Dio! -
 
La testa ricadde, era morto. Il prete si chinò atterrito per vedere se respirava ancora, ma sentendolo già freddo provò un brivido alla schiena. Allora confuso, quasi palpitante in un dubbio che non avrebbe voluto sentire, andò a raccogliere la medaglia: era dentro un crepaccio del pavimento. Così al buio non si discerneva da che parte fosse voltata. Si abbassò.
 
- Testa! -
 
Il conte aveva vinto l'ultima scommessa.
 
<center>'''L'OMNIBUS'''</center>
 
L'OMNIBUS
 
La notte era fosca.
 
Il viale di circonvallazione coperto dai vecchi platani sembrava alla scarsa luce dell'unico fanale presso la barriera come un lungo andito che si perdesse nell'ombra. L'aria era umida, la tenebra così fitta che le mura stesse della città vi erano scomparse. Solo una stella laggiù, lontano, aveva un bagliore misterioso di lucerna sospesa nell'infinito.
 
Egli proseguì lentamente. Una tristezza vasta e silenziosa come quella tenebra era penetrata nella sua anima, occupandone tutto il deserto. Nessun ricordo gli vigilava più nella memoria, non una idea gli attraversava la coscienza. Era solo. Il suo passo strideva sulla ghiaia minuta del viale come un lamento. L'ombra e il silenzio si dilatavano nella notte.
 
Egli alzò macchinalmente gli occhi ed incontrando lo sguardo morente di quella stella trasalì.
Laggiù c'era dunque un altro che naufragava nelle tenebre.
 
E d'improvviso credette di udire un rotolare sordo ed insieme fragoroso che s'inoltrasse: l'ombra rimaneva immobile, la terra tremava. Egli attese; in quella precipita ruina s'intendeva già la cadenza di un ritmo che la precedeva e la guidava. Poi due lampi forarono la tenebra, mentre le foglie degli alberi palpitavano perdutamente, e lontano, al disopra dell'ombra che pareva precipitare giù nel fossato, quei due lampi rossi tingevano di sangue i merli delle mura. D'un tratto una fanfara di sonagli scoppiò come un riso di pazzia davanti a quel terrore invisibile: quindi una ondulazione di ombre leggere e galoppanti rimbalzò sulla strada, coi sonagli che tintinnivano disperatamente e i due fanali rossi fiammeggianti come due occhi dinanzi ad una massa più nera delle tenebre, più alta degli alberi. I platani tremavano, ma più in alto ancora, su quella massa cubica, un'altra ombra, dritta come un camino sopra una casa, aveva una luce pallidissima alla punta.
 
Era un omnibus a tre cavalli, quella ombra in alto il cocchiere. I cavalli, coperti da un immenso velo nero che svolazzava tratto tratto sui fanali con un battito di palpebre, si riconoscevano appena.
 
Uno schiocco di frusta squillò: i cavalli dettero un balzo e rimasero immobili.
 
- Vuoi salire? - gli chiese con voce velata il cocchiere abbassando la frusta.
 
L'altro l'osservò. Il cocchiere seduto in serpe sul cielo dell'omnibus aveva un balenìo bianco sulla faccia. Erano gli occhi? non distingueva altro: il manico della frusta era lungo come una lancia. I cavalli immoti sotto la gramaglia del loro velo non sbruffarono nemmeno.
 
Il cocchiere mosse la frusta.
 
- Vuoi salire? -
 
L'omnibus era lunghissimo: qualche vetro dei suoi sportelli riverberava al raggio obliquo di un fanale; l'interno non si discerneva, le ruote arrivavano ai vetri.
 
- Vuoi salire? - ripeté per la terza volta. La sua faccia irriconoscibile nella ombra ebbe come un bagliore di maiolica.
 
- No.
 
Uno schiocco di frusta vibrò, i cavalli spiccarono un salto e l'omnibus rotolò fragorosamente. Egli si rivolse e lo vide scomparire poco dopo a destra, per la seconda svolta, verso la campagna.
 
La notte non si era accorta di nulla. Egli proseguì, l'aria era sempre così tiepida, il buio così profondo. Poi tutta quell'apparizione, i tre cavalli apocalittici, l'omnibus, i fanali rossi che lucevano come una fiamma e guardavano come due occhi, il cocchiere quasi invisibile, il suo invito strano, tutto gli sparve colla medesima prontezza dallo sguardo e dal pensiero. In fondo al viale piegò a sinistra verso il sobborgo San Sebastiano, il più ricco e popoloso della città. I fanali erano ancora accesi, molta gente in giro. Un lungo fremito passava per la notte, il murmure lontano del fiume pareva un gemito di ferito. D'improvviso due colonne bianche balenarono sul margine della strada: la villa nascosta dagli alberi non si distingueva, ma un filo di luce passava per l'ultima finestra al primo piano.
 
Aperse la porta colla chiave, salì le scale coperte da un tappeto così grosso che soffocava ogni rumore di passi, e sempre al buio infilò l'appartamento. Un violento profumo di fiori gli batté sul viso. L'appartamento era piccolo, dall'ultimo uscio socchiuso sboccava un'onda di luce. Egli lo spinse insensibilmente e si arrestò.
 
Il gabinetto giallo, poco più grande di una tenda, era illuminato da un lampadario di bronzo dorato carico di candele trasparenti: un enorme specchio riluceva nel fondo, i mobili erano dorati; nel mezzo, sdraiata sopra una pelle di orso nero, una donna vestita di bianco fumava una sigaretta.
 
Ella si era passata un braccio sotto la testa e guardava in alto colle spalle rivolte all'uscio. I suoi capelli, neri, diffusi, si discernevano appena sulla pelle della belva; mentre una delle sue pantofole dorate fuori della veste sembrava battere nervosamente la musica di un sogno. In un angolo, sopra un plinto di marmo giallo, un'onda di garofani traboccava da un vaso d'argento.
 
A un tratto il suo piede si arrestò. Ella arrovesciò il capo, sorrise e con accento tranquillo disse:
 
- Ti ho sentito.
 
E lo chiamò con un gesto sulla pelle nera.
 
- Dimmelo subito, mi ami? -
 
Egli non rispose.
 
- Rodolfo…
 
- Mi ami?! - esclamò con più impeto, percotendogli quasi col volto sul volto silenzioso.
 
Poi lasciando la presa con atto inesprimibile di disperazione e di amore:
 
- Che m'importa? - gridò. - Ti amo io.
 
- Mi hai sempre amato - egli rispose con voce quasi dolce mirandola negli occhi, e una luce lontana di stella sembrava brillare in fondo al suo sguardo nero come la notte.
 
La bellissima donna si confuse.
 
- Non ti ho sempre conosciuto.
 
- Quindi non mi riconoscerai sempre.
 
Ella si era fatta malinconica, egli era rimasto tetro: il gabinetto pieno di luce e di profumi li avvolgeva come in un'onda d'oro. Ella si levò, rimase un istante in piedi a guardarlo così sprofondato in quella meditazione, poi andò a sedersi sopra una poltrona nascondendovi il volto contro lo schienale. Passò del tempo: quando si alzò aveva gli occhi rossi; tornò a sedergli vicino, lo prese per le spalle ed arrovesciandosi la sua bella testa in grembo:
 
- Rodolfo… - esclamò rabbrividendo alla fissazione del suo sguardo: - tu guardi nel vuoto.
 
Ma in quel momento un impeto di vita le irruppe dal cuore, la sua fronte sfavillò.
 
- Povero Beniamino! - proruppe cacciandogli le mani nei ricci dei capelli e squassandoli per rompergli l'incanto di quella meditazione; - povero Beniamino, che sei triste quando tutto ti sorride intorno. Non senti come sei bello? La tua fronte è segnata dal dito della storia, un giorno il mondo ti riconoscerà per uno dei suoi grandi. Napoleone I era pallido come te, i capelli di lord Byron erano ricciuti come i tuoi: tu potrai vincere battaglie belle come una canzone e scrivere canzoni sonore come una battaglia. Aspetta: la tua ora fatale passerà anche troppo presto portandoti lontano dai miei occhi, e io non ti vedrò più che in mezzo ad una aureola di gloria, sullo sfondo nero di una procella.
 
La fronte di lui balenò.
 
- Aspetta… - ella s'affrettò a ripetere: - la storia non saprebbe che farsi della tua giovinezza, la primavera è dei fiori. Sei già celebre, il mondo ti osserva palpitando. Io ti credo: la fede che s'inspira è pur sempre la migliore delle certezze. Ascolta - proseguì anelando con una moina di terrore e di adorazione: - se ti provassi che ti amo, se il tuo pensiero abituato a tutte le magnificenze dell'infinito, se il tuo cuore pieno di tutte le pompe dell'immortalità dovessero per forza arrestarsi davanti al mio amore…
 
- Fermarsi è morire.
 
- No, non ancora. Se quando tu cerchi nelle tenebre dell'ignoto io avessi per te conforti di luce e di rivelazioni; se quando tutto oscilla nel dubbio del tuo pensiero io restassi salda nella fede del tuo cuore; se quando tu lotti io fossi sempre la vittoria; se quando tu vinci io fossi sempre il premio… se io fossi nel tuo ieri eterno e nel tuo dimani immortale?…
 
- La vita non è che l'oggi.
 
- E sia pure. Hai ragione, noi donne siamo caduche, siamo un fiore ed un frutto, un profumo che accarezza, un sapore che corrobora. Sali, sii grande; io non posso nulla per te; sii infinitamente infelice, la tua felicità è forse in questo. Vivi lassù, al disopra dell'aria, dove le stelle guardano nel vuoto e le comete cercano Dio: io non ho né il diritto, né la forza di seguirti. Ma quando discenderai dal zodiaco fiammeggiante della tua idea al comando della storia, che avrà drizzato sopra un Golgota la tua croce nera, io sarò ad aspettarti lungo la strada e avrò lagrime che laveranno tutte le tue piaghe, parole che copriranno tutti gli insulti. Ma prima, fra l'apoteosi e il martirio, sovvèngati qualche volta di me, che ti avrò amato colla stessa costanza della terra che gira intorno al sole, sovvèngati della mia vita, che sarà sboccata nella tua come una fontana nell'oceano. La fontana è piccola, ma la sua acqua si può bere.
 
Poi guardandolo improvvisamente come in atto di sfida proruppe:
 
- Ebbene, senti: che cosa daresti tu, ambizioso, per essere il maggiore fra quanti uomini furono e saranno?
 
- Il sembrarlo a tutti.
 
Ella chinò scoraggiata la fronte, mormorando:
 
- Mi soffochi.
 
Egli era ancora nella stessa posa, sdraiato colla testa nel suo grembo guardandola cogli occhi immobili. La sua fronte altissima era pallida come una lapide.
 
Ma un lampo passò ancora nelle pupille tremolanti della donna.
 
- Credi tu almeno nel tuo genio?
 
- Sei tu sicura di Dio? -
 
Quindi egli si rialzò, le tese la mano: i suoi occhi brillavano come due stelle.
 
- Rodolfo, Rodolfo… - ella gemé soffocatamente - tu mi abbandoni, te lo leggo negli occhi.
 
L'altro non rispose.
 
Ma ella non si arrendeva, gli serrava le mani, gli si avviticchiava col sorriso, collo sguardo; poi alzando le braccia per gettargliele al collo con atto stanco, febbrile d'amore, mormorò:
 
- Vieni, dunque, dormiamo….
 
Egli le rattenne quel gesto.
 
- È già l'alba - rispose freddamente.
 
Fuori la notte era sempre così tenebrosa, il sobborgo aveva spento tutti i fanali, non s'udiva una voce: ma laggiù, lontano, quella piccola stella non era ancora sommersa.
 
Quando fu presso la città, egli piegò macchinalmente a dritta lungo lo stesso viale. Le mura non si discernevano ancora, i platani facevano sempre sul suo capo una volta anche più nera dell'ombra. D'improvviso quel medesimo fracasso rotolò lontanamente: poi quegli occhi rossi riavvamparono, i sonagli tintinnirono, gli alberi tornarono a tremare e l'ombra indietreggiò fuggendo giù nel fossato, mentre una macchia di sangue lambiva sinistramente le mura e l'ondulazione di un galoppo leggero e cadenzato rimbalzava sulla strada.
 
L'omnibus sembrava illuminato anche di dentro. Lo schiocco della frusta imitava la battuta delle nacchere.
 
Egli era venuto sul ciglio della strada.
 
Questa volta il balenìo bianco sulla faccia del cocchiere era come il riverbero di una vetriata.
 
- Ferma! - egli gridò stendendo la mano.
 
I cavalli si arrestarono stecchiti. L'omnibus illuminato internamente da un fanale bianco sopra lo sportello superiore appariva stipato nel fondo e sui sedili di casse bianche, segnate sul coperchio da una croce nera; una, la più piccina, forse di un bimbo nato e morto nel medesimo giorno, sembrava un cofanetto.
 
Il cocchiere attendeva colla frusta bassa.
 
- Salgo?
 
- Pieno! - l'altro rispose battendo colla frusta sui fianchi dell'omnibus.
 
- Salgo?
 
- In serpe? -
 
Egli vi si arrampicò, ma non si era ancora assettato che il cocchiere gli domandò:
 
- Pronti?
 
- Sì.
 
Lo schiocco della frusta squillò e i cavalli si slanciarono. Allora esaminando il cocchiere egli s'accorse che era uno scheletro vestito di una livrea nera, con un largo cappello piatto sulla testa. Il balenìo bianco della faccia gli veniva dai denti.
 
Andavano colla rapidità di un sogno.
 
- Donde vieni? - egli domandò nel piegarsi sopra di lui ad una voltata vorticosa.
 
- Dall'ospedale di San Lorenzo.
 
- Quanti morti hai caricato?
 
- Non li conto io.
 
Vi fu una pausa. L'omnibus rotolava furiosamente, la città si era già perduta in lontananza, un gran viale fiancheggiato di lunghi cipressi appariva.
 
- Dove vai?
 
- Scarico al cimitero.
 
- Ci fermiamo lì? - chiese guardando laggiù quella stella oramai vicina ad affondarsi.
 
Un lampo più bianco passò sulla faccia del cocchiere, che ripeté:
 
- Scarico al cimitero.
 
Nello stesso momento la testa dell'altro gli cadeva morta sulla spalla.
 
Lassù, lontano, la stella si era affondata.
 
<center>'''LA CITTÀ'''</center>
 
LA CITTÀ
 
 
- Vi ricordate - proseguì l'illustre critico - la pagina fine e malinconica, nella quale Sainte- Beuve paragona una biblioteca ad un cimitero? L’aria è umida e fredda, le sale hanno delle sonorità di sotterraneo, gli ordini degli scaffali rammentano la disposizione dei sepolcri nelle prime catacombe, i vecchi libri di carta pecora hanno il pallore giallognolo delle vecchie statue sdraiate sui coperchi dei sarcofaghi. Poi vi sono i libri rilegati a colori vistosi, colle costole luccicanti e dorate come le tombe azzimate di marmi e di fiori; le sale proseguono una dentro l’altra come nelle certose, si sente nell’aria un raccoglimento solenne, un silenzio di meditazione, che vi fa abbassare la voce e sospendere lo scricchiolìo delle scarpe. Quante tombe ignorate! Quanti libri, che non si leggono più! Ma vi sono le tombe illustri, davanti alle quali centinaia di generazioni si son già fermate palpitando, e che altri grandi della vita vennero ad interrogare incollandovi gli orecchi per udirne le risposte profonde; ma vi sono i libri illustri, che centinaia di generazioni hanno già imparato e altre centinaia impareranno, che discendono ogni giorno dagli scaffali, come i morti escono forse ogni notte dal sepolcro, per dare una data antica alle nostre scoperte di ogni giorno e una autorità millenaria ai nostri sogni di una notte. Una biblioteca è un cimitero - ripetè l’illustre critico abbassando la voce.
 
La bella duchessa lo scrutò con occhio benevolo e soggiunse sorridendo:
 
- Mi avete detto altre volte che dobbiamo ai frati le prime biblioteche: la prima delle ultime si è aperta ieri, la - Vittorio Emanuele». Non vi è mai sembrato che le vecchie biblioteche sentano fin troppo il convento? Ne ho visitate poche, ma ne ho sempre ricevuto la stessa impressione: che scaffali poveri e gelidi, che panche da chiesa o da refettorio! In fondo a tutte un tavolone con una lucerna sepolcrale pendente dal soffitto. Generalmente erano costrutte a navata. Gli uomini, che vi studiavano, dovevano essere penitenti, i libri di autori morti, tutte le opere un testamento. D’estate vi si sentiva un freddo d’inverno, d’inverno vi si sarà gelato addirittura. Una volta, sola con un domenicano, calvo e terribile, udendo il pavimento echeggiare sotto il mio passo leggero di donna gli domandai se v’erano sotto le prigioni.
 
- E vi rispose?
 
- Sorridendo che v’era la cantina. Ebbene abbiamo ragione noi moderni di volere allegri i cimiteri e le biblioteche.
 
- Forse! ma saranno senza monumenti.
 
- Accettereste per caso la formula di Victor Hugo, il libro ha ucciso il monumento mentre - ella aggiunse con sardonico sorriso - i nostri municipi non fanno che smentirla tutti i giorni? Oramai mancano le piazze per le statue.
 
- La formula di Victor Hugo è terribile quanto giusta, ma sciaguratamente ce n’è un’altra più terribile, che egli forse non ha presentito: se il libro ha ucciso il monumento, il monumento è morto anche nel libro. Non si scrivono più capolavori.
 
- Perchè?
 
- Le ragioni sono troppe, dirne una sola, che le riassuma tutte, non è forse meno difficile di un capolavoro. Perchè non siamo noi più belli? Uno scienziato vi risponderà: perchè nella nostra educazione coltiviamo lo spirito trascurando il corpo, e così crederà di avere risposto. Ma questo è un effetto non una causa. Prima che il culto del corpo venisse trascurato, nello spirito sarà stata mortalmente ferita l’idea della bellezza. Perchè? Perchè non abbiamo noi più fede? Se la fede è una visione, l’arte è un processo fotografico che la fissa. Quale è dunque il nostro concetto della vita? Quale il nostro concetto della morte? Come ogni visione è un fatto individuale, così i sensi del corpo e le facoltà dello spirito in ogni individuo hanno una potenza forse indeterminabile ma predeterminata. La prima condizione per fare un capolavoro è dunque che esso esista nella zona, che la vita di un individuo può abbracciare. Ora la nostra vita individuale ha confini ben tracciati, abbastanza difesi, dai quali nessuna invasione di fatti o di idee possa irrompere devastando le pianure o affumicando gli orizzonti, entro cui deve formarsi la visione del capolavoro? Oggi che tutte le barriere sono abbattute fra popolo e popolo, e si fanno le ferrovie sotto il letto dell’oceano, e si sventrano le montagne, che cosa è la patria? Pei popoli, che dicono di averla, è il sentimento di un fatto già trascorso; pei popoli, che non l’hanno ancora, il sentimento di un fatto futuro. I popoli liberi dichiarandosi uguali vogliono uniformare leggi e costumanze, conciliare tutti gli interessi per annullare tutte le differenze; i popoli schiavi aspirano alla patria per smarrirla all’indomani nella fratellanza universale. La patria è il mondo, non vi è dunque più patria. Quale è la nostra religione?
 
- La mia? - esclamò la duchessa con un sorriso - aspetto che me lo diciate.
 
- La vostra risposta invece di essere spiritosa è profonda. Noi non abbiamo più religione: il sentimento religioso è rimasto perchè immortale, ma delle sue molte costruzioni nessuna è ancora dritta in fondo alle coscienze. Rovine dunque! Al principio del nostro secolo la poesia le ha cantate, adesso anche il canto è cessato perchè furono distrutte anche le rovine. La critica arrivò d’ogni lato con un’orda di scienziati, che si divisero ringhiosamente i rottami vantandosi con essi di ripetere l’edificio. Qualche volta son arrivati a ridisegnarne la pianta, e urlarono al miracolo, come se la pianta del Campidoglio rifatta dal Canina, quand’anche vera, potesse valere, non dirò nella coscienza di un popolo, ma nella immaginazione di un artista lo spettacolo del Campidoglio quale l’anima di Roma l’aveva profeticamente intuito, dieci secoli di storia composto, e l’anima di Roma morente l’aveva veduto per l’ultima volta fra le fiamme e la bufera dei barbari trionfanti. Che cosa è oggi la famiglia? La sovranità del padre, l'autorità del cognome, la catena della tradizione, tutto è spezzato. Una volta ogni famiglia era una dinastia, adesso è una democrazia, che sta per diventare demagogia: il padre si vanta amico del figlio, la madre sorella delle figlie. Rovine dunque! Anticamente la famiglia fu una torre nello stato che era una fortezza, nella patria che era un mondo contro il mondo; poi nel medioevo la torre diventò un palazzo, il palazzo una casa, oggi i ricchi hanno un appartamento e i poveri una camera. Ecco la famiglia: il gruppo è rimasto perchè insolubile, ma l'edificio, che s’innalzava sopra di esso come sopra tre cariatidi, padre, madre e figlio, è crollato.
 
- Voi mi spaventate - disse la duchessa, diventando seria suo malgrado.
 
- Perchè? Lo sapete pure che la vita dell’individuo nell’umanità è una rovina, che passa, in una rovina, che resta. Le rovine vi spaventano? Ma non siamo noi stessi un risultato di rovine, non siamo noi composti coi ruderi di venti civiltà, che si frantumarono compenetrandosi? Ieri Renan, il vostro scrittore prediletto, inseguito dal dubbio attraverso la propria nobile ed immensa erudizione, si domandava in un ammirabile opuscolo: che cosa è una nazione? Renan, che nell’estrema sensibilità della propria fibra ha sentito tutte le malattie del nostro secolo, vicino forse a morire s’accorge che la nazione sta morendo. La vita antica aveva due termini, individuo e stato; la vita moderna ne la ancora tre, individuo, stato e umanità; la vita futura tornerà ad averne due, individuo e umanità. Che cosa è la nazione? L’orda. La patria? L’accampamento. Così la storia si mise in cammino, ha scritto con frase immortale il Quinet. Quando la tenda diventò di sasso e il terrapieno una muraglia, l’accampamento si trasformò in città: allora l’orda si mutò in popolo, e la patria arrivava fin dove gli ultimi armati dell’orda potevano accampare lungi dalla città. Lì era il confine della patria, l’orbita tracciata a quel popolo dalla sua doppia forza di attrazione e di ripulsione nel sistema storico del mondo. Adesso le città non hanno più mura e i doganieri passeggiano su tutti i confini invitando i viaggiatori a varcarli: non vi è più patria, non vi sarà dunque più nazione.
 
- Ed è per questo che non si scrivono più capolavori?
 
- Chi sa? Il capolavoro è un quadro: vi sono dunque condizioni di luce e necessità di prospettiva, che lo dominano: poi un quadro dev’essere composto in modo che esprima più di quello che fa vedere. Ogni angolo di campagna non è quindi un paesaggio, nè ogni crocchio un gruppo. Un capolavoro - seguitò l’illustre critico correggendosi con atto nervoso - è anzitutto una visione, che ha bisogno di formarsi nel popolo prima di tradursi nell’opera dell’artista. Laonde occorre che nello spirito del popolo, dal quale deve sorgere, istinto, sentimento e idea, queste tre forme della vita, non si siano offese collo svolgersi; che la sua filosofia non sia troppo alta nè la sua religione troppo bassa, che la sua scienza sappia analizzare ma non ancora decomporre, che la sua civiltà sia arrivata a quel grado e la sua storia a quel punto, nel quale l’una tocca l’apogeo e l’altra trova la coscienza; bisogna finalmente che la stessa perfezione necessaria all'artista per estrarlo si sia prima verificata nel popolo per produrlo. A venti o a settanta anni non si scrive un capolavoro, non si fonda una religione, non si costituisce un impero: le reggi della vita sono identiche nell’individuo e nel popolo. Ci vuole dunque una unità fisica di razza, una unità morale di sentimento, una unità ideale di pensiero; se il popolo non sarà uno come razza, non arriverà alla necessaria intensità di sensazione: se non sarà uno moralmente, mancherà l’unità di composizione; se non sarà uno idealmente, quella di significato alla sua opera. Orbene siamo noi uni come razza, per esempio, noi italiani? Oggi una statistica sta contando il colore dei capelli e degli occhi per apprendere la proporzione fra le razze, che ci compongono; sono molte, troppe anzi. Tutti i barbari attraversarono l’Italia per andare a Roma e nel partirsene ci lasciarono dei bambini per compenso dei tesori rubati o distrutti. Prima del cristianesimo Roma era diventata l’emporio di tutte le religioni: il cristianesimo le divorò, ma esse gli rifiorirono in pustule sulla pelle. Il vapore e il telegrafo hanno reso costante quello che era momentaneo, cioè il passaggio di un popolo attraverso un altro; il commercio ci offre i prodotti, la scienza, le ragioni, l’arte gli spettacoli di tutti i popoli. Noi soccombiamo sotto il peso delle nostre conquiste: lo stato non difende più la nostra personalità storica, l’umanità non ci ha ancora dato la propria. Il cielo non è più per noi che un deserto popolato di mondi, la terra un laboratorio gremito di viventi; la critica ha distrutto la leggenda senza creare la storia, la religione ha perduto Dio conservando i santi, la scienza non ha sorpreso il fenomeno che per disperare di rinvenire la legge. Tutti i medici sostengono oggi che l’ingegno è una nevrosi, e infatti basta guardare la fisonomia d’un uomo d’ingegno per vedere quella di un malato: negli uomini moderni la testa è più grossa e il petto più angusto che nelle statue antiche. L’ultima filosofia, la massima, l’hegeliana, risolve l’universo in una idea: l’ultima scienza, il darwinismo, conclude nell’uomo all’animale; l’ultima affermazione cattolica è stata la necessità del potere temporale, l’ultimo grido della poesia una bestemmia, l’ultima parola dello stato una parola di abdicazione: libertà!
 
- Lo so che non siete liberale: e allora?
 
Egli si fermò.
 
Evidentemente il lungo discorso lo aveva affaticato: la sua bella faccia di pensatore colla fronte alta sotto i lunghi capelli grigi perdette lo splendore della ispirazione, i suoi occhi si appannarono, un'ombra gli si distese sulla bocca e vi spense il sorriso. Quindi reclinando la testa sul petto parve seguire giù nell’oscurità di un baratro lo sprofondarsi di una visione, ma improvvisamente si raddrizzò, e con quella voce lenta e dolce, che ammaliava subito il pubblico dall’alto della cattedra, riprese:
 
- Sainte-Beuve pel primo ha trovato l’immagine paragonando Renè a una torre e le altre opere di Chateaubriand ad un gruppo di case agglomerate sulla sua base. Oggi che il libro ha ucciso il monumento e il monumento è morto nel libro, giacchè non si scrivono più capolavori, l’immagine trovata da Sainte-Beuve per Chateaubriand vale per tutti, e chi fabbrica una capanna, chi una casa, un palazzo, una villa, una città. Guardate Balzac, che Sainte-Beuve, il primo critico del secolo, ha negato: Balzac, il primo genio del secolo, che si dibatte trent’anni per scrivere un capolavoro senza riuscirvi, e invece di alzare un monumento fonda una città. I suoi quaranta volumi sono tanti rioni, nei quali si muove una popolazione identica e diversa siccome in tutte le città: non manca una bottega, una industria, un istituto, una scuola. Dalla pescivendola alla principessa del sangue o dell’avventura la città possiede tutte le categorie e le varietà femminili; vi saranno trenta pittori, cento giornalisti, poeti e scienziati, preti e demagoghi, assassini e gendarmi, burocratici e soldati, parlamento e prigioni, ospedali e teatri, genio e follia, misticismo ed usura: plebe venuta dalla campagna, o germogliata fra il selciato, o nata dal fermento delle immondizie accumulate negli angiporti. Vi sono i martiri oscuri e gli eroi decorati, veri o falsi: Napoleone I vi passa parecchie volte nelle sue varie campagne, i Borboni vi soggiornano molti anni, Svedenborg vi arriva dalla Scandinavia. Vi è il passeggio pubblico costantemente pieno di carrozze, il corso rumoroso di folla; nei quartieri aristocratici la ricchezza moltiplica il frastuono e la luce, si profonde in capolavori e in aborti, ripete tutte le sue eterne grandezze e i suoi eterni obbrobrii. Nei quartieri bassi la miseria prosegue la propria vita di stenti aiutandosi di crimini e di eroismi, ingegnandosi con gioie minuscole e con piaceri bestiali, bestemmiando Dio e credendo nei signori. Ma le stagioni passano, e il clima varia dal gelo alla canicola, mentre migliaia di persone vivono in quella città, e la loro vita vi produce centinaia di drammi, migliaia di sentimenti e di idee. Balzac ha fondato da solo questa città, nella quale tutti verranno poi a costruire.
 
- Ah! - esclamò la duchessa - comprendo.
 
- Badate al primo, Flaubert. Un altro, il quale ha sognato il capolavoro, e penetrato della sua unità decise che ogni artista non può scriverne più di uno, giacchè bisogna attendere per esso il momento armonico di tutte le facoltà dello spirito con tutte le circostanze esterne. Flaubert verrà a fabbricare nella città di Balzac. Vedete quella casa? È la casa di Madame Bovary, forse la più bella della città. Critici ed artisti non si stancano di lodarne la disposizione interna, l’eccellenza dei materiali, l’armonia della facciata e dei fianchi: sciaguratamente critici ed artisti oggi non sono più buoni giudici, e però se molte case di Balzac, per esempio quelle di Eugenie Grandet o di Cousine Bette, mi paiono migliori, la casa di Madame Bovary resterà un eterno modello delle case borghesi al nostro secolo. Vedete dietro di essa quel magnifico mostruoso edifizio? Sono i palazzi di Salambò, ancora un’opera di Flaubert: Madame Bovary doveva essere il capolavoro, Salambò il monumento: il capolavoro è forse più bello del monumento, ma vorrei aver fatto piuttosto Salambò che Madame Bovary. Siete stanca?
 
- No.
 
- Allora, passeggiamo. Guardate, via Alessandro Dumas figlio: le due case all’imboccatura sono di Margherita Gauthier e di Clemenceau, lo scultore, più innanzi in quel vasto palazzo c’è il salone del Demi-monde. Via Emilio Augier: questa è più larga, di stile più solido e moderno. Vedete le finestre al secondo piano della terza casa a sinistra? Là stanno Les Lionnes pauvres, l’altra di facciata appartiene a Maitre Guerin, poi vi è quella del Gendre Poiret e subito dopo il palazzo degli Effrontès. Quest’altra strada, che ha un solo palazzotto elegante, ma pretenzioso, verniciato, leggete: via Octave Feuillet questo è il palazzotto di Camors. Via Champfleury: oggi è poco frequentata, in fondo vi è lo studio di Courbet il pittore. Vicolo Edmondo Duranty; è corto, senza sfondo. Oramai arriviamo alla grarnde piazza De Gonconrt. La vedete? È formata di grandi fabbricati irregolari, palazzi del settecento, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, dopo la rivoluzione. Voltatevi, quella Certosa è di Stendhal, osservate la sua statua, alta in atteggiamento rigido dal profilo tagliente, che domina sul largo piedestallo Rouge et Noir. Egli solo aiutò Balzac nella fondazione della città: adesso avete dinanzi due strade, via De Goncourt, l’altra più recente via Alfonso Daudet. Per quale volete mettervi?
 
- Per la più grande, via Goncourt.
 
- Gettiamo nullameno uno sguardo nell’altra, ne vale la pena. Quel palazzo sontuoso e barocco è del Nabab, negli altri dappresso e che paiono alberghi stanno a pensione gli ex Re in esilio: quella è la piccola casa di Jacque il macchinista, nell’ultima in fondo abitò Numa Roumestan il ministro. Adesso entriamo in via De Goncourt: è una bella strada. Ecco lo studio di Manette Salomon, l’ospedale di Soeur Filomene, la casa della Faustin, in quella casipola nacque la povera Elisa, in quell’altra abitarono i fratelli Zenganno, più in là Renata Mauperin. Quella palazzina, a due passi, con una piccola facciata da museo, è la Maison de l’Artiste, una specie di bazar pieno di mobili, di quadri e di cianfrusaglie. Un momento: osservate quella casa, che si avanza stranamente sulla strada: è di aspetto povero sotto la decenza, è la casa di Germinie Lacerteux. Svoltando si entra nel quartiere di Zola, il più vasto dei quartieri recenti, quantunque sia ancora in costruzione. L’enorme fabbricato che si prolunga dalla casa di Germinie Lacerteux, ripetendone il disegno, dall’insegna della grande liquoreria presso la porta si chiama L’Assomoir: è quello che ha fatto il nome all’ingegnere, no all’architetto, perchè questa volta l’ingegnere è un grande artista. Esaminate come Zola ha riprodotto minuziosamente il cattivo stile parigino moderno nel palazzotto dicontro; questa volta l'esattezza arriva al capolavoro, è il palazzotto della Curèe. Più in là sorge la casa dell’altro Rougon Son Exellence, in fondo alla strada l’immenso, prodigioso mercato, il vero Ventre de Paris.
 
- È bello?
 
- Un mercato difficilmente può esserlo, ma è immenso, prodigioso. Avete ancora notata quella altana? Là abitava Elena Mouret colla figlia, la povera piccina nervosa.
 
- Quell’altana è un capolavoro.
 
- Di costruzione non direi, ma vi si respira un’aria più pura, e sulla conca di questo mercato è di un effetto eccellente. Vogliamo salirvi?
 
- Perchè no? - rispose finalmente la duchessa - forse dalla sua altezza si scorge il grande giardino del Paradou.
 
- Spero che non vi piacerà. Giammai artificio violentò maggiormente la natura: è la farragine del mercato dentro il giardino.
 
- Forse avete ragione, ma il giardiniere è stato nullameno un grande poeta.
 
- E lo sarebbe parso doppiamente, se avesse saputo un po’ meno la nomenclatura.
 
La duchessa si arrese.
 
- Ritorniamo - disse poi.
 
- Non vi sembra che il quartiere sia bello e soprattutto grande?
 
- Senza dubbio, ma vi sento due brutti difetti, la monotonia dello stile e una suprema volgarità nelle massime come nelle minime cose.
 
- È moderno.
 
- La città di Balzac lo è del pari e non mi fa pesare sulla coscienza la volgarità di questo quartiere. Poi non tutto vi è compiuto: si capisce che vi abita soltanto la nuova borghesia e il popolino, nessuna famiglia illustre, nessun grand’uomo è ancora venuto a stabilirvisi. Da solo questo quartiere non potrebbe vivere e nemmeno diventare una città.
 
- Infatti tutto vi è come provvisorio, la vita non vi ha conservato nulla.
 
- Vi manca persino una chiesa.
 
- No, girate quell’angolo: ecco la chiesa, forse meglio la cappella di Lourdes: nella volta egri ha dipinto i quattro evangeli.
 
- Povero Zola! il terzo non potè finirlo.
 
- Non ve ne lagnate: Zola della religione non sentiva che l’idolatria e in lui l’artista era finito assai prima che l’uomo morisse. La sua opera conclude al dottor Pascal, l’eroe della scienza, che vorrebbe da questa trarre una morale, una religione nuova, e invece sprofonda nel l’animalità di un incesto. Zola era un pessimista inguaribile: onesto, dolorosamente ammalato della propria onestà, vide e disegnò come nessuno prima di lui l’abbiezione del popolo sino alle classi più alte, ma non vide altro. Tutto quanto la vita ha di nobile, di eroico, di veramente tragico gli sfuggì, eppure la vita dura nella storia soltanto per questa eccellenza di pochi, che vi funzionano come un sale antiputrido: eroismo di pensiero, eroismo di cuore. Ma vinto nel giorno tardo del suo trionfo Zola ebbe paura, e si rifugiò in un sogno ancora più anarchico che socialista: allora non vide più. Le sue ultime figure furono di cartone dipinto, la sua musica rimase un frastuono, il suo colore una macchia, il suo pensiero si oscurò, il suo cuore rimbambì.
 
- Siete violento nelle verità.
 
- La verità lo è sempre finchè combatte: nessun artista ha potuto salvarsi entrando nel socialismo: guardate Zola, Tolstoi, oggi tocca ad Anatole France. Il socialismo è dunque ancora falso, vuoto forse, se i poeti, che hanno sempre l’istinto e la nostalgia del nuovo, non estrarne una novità e vi perdono il senso dell’arte.
 
La duchessa sorrise.
 
- Torniamo nella città di Balzac.
 
- Temereste smarrirvi altrimenti.
 
- Impossibile! ho sempre tenuto d’occhio il grande campanile della chiesta di Svedenborg, il campanile di Seraphitus. E talmente alto che nulla può nasconderlo.
 
- Forse talvolta le nuvole.
 
- Ah! - proruppe quasi stizzosamente la duchessa - non avrete dunque mai un momento di entusiasmo, sarete sempre un critico?
 
Quindi illuminandosi in viso:
 
- Giacchè volevate salire meco sull’altana di Zola, accompagnatemi sul campanile di Seraphitus: là saremo più in alto, in un’aria, in una luce più pura.
 
- E vedremo tutta la città e il suo bel territorio, i villaggi vicini, la grande rocca di Hugo, indefinibile e portentosa agglomerazione di castelli, le ville eleganti di George Sand, il capriccioso villino di Musset, il vecchio Maniero di Lamartine… - seguitò con accento quasi ironico.
 
- Seraphitus! - mormorò la duchessa.
- Voi vi chinerete dall’alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibIrE.
- No.
- Non vorrete dunque guardare?
- Sì, ma in alto.
L’illustre critico non rispose.
 
- Voi vi chinerete dall’alto del suo campanile come egli dalla cima del Fiord, ed altrettanto impassibile.
 
- No.
 
- Non vorrete dunque guardare?
 
- Sì, ma in alto.
IL RITRATTO
 
 
L’illustre critico non rispose.
 
<center>'''IL RITRATTO'''</center>
Il palazzo era del quattrocento, bruno e solenne. Aveva i finestroni a grandi vetri riparati da tendine bianche e il portone fiancheggiato da pilastri colla catena: pareva quasi nuovo nella facciata, quasi vecchio nel cortile e nell'andito su per tutto lo scalone. La statua che ne coronava il primo plinto, mancava del braccio dritto, il sole del lucernario orlato di uno zodiaco dorato si era spento chissà da quanti anni, e i suoi ultimi raggi caduti per lo scalone erano stati forse spazzati in qualche mattina fra i calcinacci dalla scopa del portiere.
 
Il sarto che adesso ne disimpegnava la funzione, senza livrea e senza spada, senza mazza e senza cappellone, ignorava egli pure la storia della famiglia, dalla quale quattro secoli or sono era stato costrutto questo magnifico edifizio, ancora fortezza al pianterreno, ma avendo già del palazzo al primo piano, coll'atrio senza colonne e lo scalone pieno di statue. Il suo ultimo rappresentante, volontario fra gli eserciti del primo Napoleone, era morto nella ritirata di Mosca, ignoto ghibellino dietro la fortuna dell'ultimo Cesare.
 
D'allora il palazzo aveva mutato parecchi padroni conservando sempre il proprio nome: era stato affittato in molte parti e per molti usi, a magazzini e ad appartamenti, a studio di artisti e a camere ammobigliate. Persino qualche bottega si era aperta dal di fuori fra il vano di due finestre, e i granai erano diventati laboratori. Ma il palazzo sovrastando a tutte le case della strada colla sua massa bruna e marmorea manteneva sempre lo stesso aspetto aristocratico, quantunque decaduto, col portone spalancato, i lastroni dell'atrio rotti e il cortile deserto. La gente che lo abitava vi pareva estranea: infatti passavano frettolosamente, piccini, male vestiti come si usa oggi, non ricevendo da lui e non rendendogli nulla della sua grandiosità poetica o della sua poesia melanconica.
 
Sul cortile, all'abbaino di una soffitta, viveva un pittore.
 
L'abbaino tagliato nel cornicione, sebbene grande quasi quanto una finestra ordinaria, sembrava piccolo. Quando il pittore era in casa, si vedeva spesso la sua pipa sporgere dal cornicione fumando o battendo sugli spigoli con una cadenza musicale. Allora qualche strappo di canzone cadeva nel cortile, talvolta vi cadeva pure la pipa, ma essendo di radica non si rompeva. Il pittore era giovane e solo: aveva venticinque anni, era secco come la fame e vagabondo come l'ozio: ma se possedeva cinque o sei tubetti di colore e due o tre pennelli, non aveva quasi mai lavori da compiere e mai voglia di lavorare. I suoi capelli crespi si sarebbero detti di un moro, i suoi abiti logori sembravano di un altro: solo il sorriso era suo, un sorriso largo sopra dei denti bianchissimi, che gli rischiarava il volto mostrando tutta la bontà spensierata ed affettuosa del suo animo. Così, sempre allegro nella miseria, temperava di sogni le troppe crudezze della realtà: diceva di abitare per la strada non tornando quasi mai a casa che per dormire, aveva più compagni che donne, desiderava tutto senza veramente invidiare nulla. La gioventù lo sorreggeva.
 
Eppure la sua vita avrebbe dovuto essere infelice. Suo padre, verniciatore di qualche merito, era morto prestissimo: sua madre, rimasta vedova, dopo aver fatto di tutto per vivere bene aveva dovuto morire nel più triste abbandono all'ospedale. Egli se ne ricordava perfettamente insieme ad altre cose della mamma, secreti sospettati sino da fanciullo, indovinati da ragazzo poi risaputi giovinotto da lei stessa con quell'accorante cinismo di poveri che non nascondono più nulla perché hanno perduto ogni speranza. Ma egli resisteva. Indarno la vita quotidiana gl'insudiciava ogni giorno più quei ricordi colla propria esperienza, o talvolta incontrando un'antica conoscenza di casa, qualche artigiano o qualche signore, una scena oltraggiosa per la memoria della mamma, un motto, un particolare che non avrebbe osato ridire con alcuno, gli balenavano improvvisi ed accecanti al pensiero, giacché la gentilezza della sua natura trionfava egualmente di tutto.
 
- Povera mamma! - mormorava in cuore.
 
Poi una ragazza lo innamorò, e allora lasciandosi riprendere dal sogno di essere un bravo pittore vestito di velluto, colla cassetta sotto il braccio, l'ixa nel bastone, viaggiando per le campagne verso le città, festeggiato ed amato dappertutto, la sua stessa statura non gli piacque più. Avrebbe voluto essere più alto, pallido e bello, giacché era talmente brutto che doveva in parte convenirne; ma invece della grande ricchezza si sarebbe sentito più felice solamente col danaro per vivere libero ed elegante in una piccola gloria. Quindi le storielle avventurose dei vecchi romanzi sugli artisti gli trottavano pazzamente pel capo, sebbene non avesse mai posto piede in uno studio di pittore, o deciso almeno di mettersi a studiare l'arte sul serio.
 
Era stato molti anni garzone nella stessa bottega, resa nota dal padre e subito dopo la sua morte rivenduta dalla mamma senza nemmeno giungere ad intascarne il prezzo; ma garzone indisciplinato che perdeva le ore per strada e non aveva mai saputo tirare un filetto sopra una ruota; si fece presto cacciare. Poi morta la mamma entrò impiegato in una bottega di droghiere, ne fu espulso, mutò padrone, cangiò mestiere, sempre allegro e svogliato, finché la vecchia arte, come egli diceva con un sorriso, lo riattirò trasformandolo in imbianchino. Aveva trovato un eccellente amico in un compagno ed un buon principale. Per parecchio tempo lavorò tranquillo, quindi capitò un altro guaio.
Era stato molti anni garzone nella stessa bottega, resa nota dal padre e subito dopo la sua morte rivenduta dalla mamma senza nemmeno giungere ad intascarne il prezzo; ma garzone indisciplinato che perdeva le ore per strada e non aveva mai saputo tirare un filetto sopra una ruota; si fece presto cacciare. Poi morta la mamma entrò impiegato in una bottega di droghiere, ne fu espulso, mutò padrone, cangiò mestiere, sempre allegro e svogliato, finché la vecchia arte, come egli diceva con un sorriso, lo riattirò trasformandolo in imbianchino.
 
Aveva trovato un eccellente amico in un compagno ed un buon principale. Per parecchio tempo lavorò tranquillo, quindi capitò un altro guaio.
 
Una seconda ragazza lo innamorò.
 
La ragazza, bella sartina, civettuola ed elegante, dichiarò che non avrebbe mai accettato per amoroso un imbianchino col berretto di carta bianca e il vestitone di rigatino turchiniccio schizzato di colori: allora egli s'improvvisò pittore di stanze ed altro, ma quantunque si vestisse meglio e parlasse sempre in italiano, tutto fu inutile: la ragazza non volle saperne. Egli rimase pittore.
La ragazza, bella sartina, civettuola ed elegante, dichiarò che non avrebbe mai accettato per amoroso un imbianchino col berretto di carta bianca e il vestitone di rigatino turchiniccio schizzato di colori: allora egli s'improvvisò pittore di stanze ed altro, ma quantunque si vestisse meglio e parlasse sempre in italiano, tutto fu inutile: la ragazza non volle saperne.
 
Egli rimase pittore.
 
Il suo primo lavoro fu la riquadratura di una bottega con un rosone nel mezzo della volta, dalla quale scendeva il lume a petrolio. Il fumo della lampada vi mise un po' di chiaroscuro intorno, la bottega era buia e il rosone passò. In seguito dipinse qualche paesaggio sulle pareti delle bettole, molti cartelli, alcune insegne, persino dei ritratti che non somigliavano a nessuno; però il guadagno era sempre scarso, e quando il bisogno urgeva più doloroso, egli andava dietro un vicolo scuro, dove nella cantonata di una vecchia casa s'inabissava il bugigattolo di uno scrivano, per farvi delle copie. Così aveva le miserie di tutte le arti.
 
Ultimamente emigrando di quartiere in quartiere, di granaio in granaio, era capitato nell'antico palazzo Lambertini. I padroni, una famiglia di canepini che vivevano lassù strettamente, quantunque guadagnassero abbastanza bene nel loro mestiere, gli fornirono la stanza con un letto, un cassettone, un portacatino in ferro collo specchio: ce n'era d'avanzo. Il cavalletto da pittore aggiungeva tutti gli altri significati. La soffitta vasta, col tetto inclinato e le travi grosse come quelle di un bastimento, sarebbe bastata da sola a più di una famiglia: d'inverno l'acqua vi gelava nella brocca, d'estate il sole vi faceva screpolare il cassettone; i mattoni del pavimento erano rotti, i vetri della finestra scompagnati, ma tutti questi difetti sparivano dinanzi a due grandi vantaggi. Rispondeva coll'uscio sulla scala e si abbelliva nella parete dicontro al letto di un antico ritratto di matrona. La sua cornice ancora dorata riverberava in certe notti di luna, l'abito cremisi della vecchia signora sembrava quasi nuovo in alcune pieghe, mentre l'ombra coagulatasi nel fondo del quadro dava come una tristezza più pensierosa al giallore opaco della sua fronte. Non si capiva bene se fosse in piedi o seduta, ma in ogni modo il suo busto scollacciato dignitosamente sino alla sommità del seno stava eretto e il superbo atteggiamento della testa sormontata da una piuma bianca le induriva alquanto la bonarietà grassa della fisonomia.
 
Egli lo spazzolò accuratamente il primo giorno pensando di copiarlo, poi non lo fece. Un'altra volta, a secco di quattrini da molti giorni e non avendo quindi pranzato, pensò di venderlo, giacché il ritratto dimenticato nella soffitta dai vari rivenditori del palazzo evidentemente non apparteneva più ad alcuno. La notte fredda e ventosa urlava alla finestra. Egli aveva bighellonato tutto il giorno cercando qualche lavoro inutilmente: non si era incontrato in un amico, non aveva fermato una donna. Una tramontana frizzante levatasi nel pomeriggio assiderava le vie, ma sebbene i suoi calzoni avessero le pillacchere e il soprabito balenasse al gomito e al bavaro non poteva cangiarli. Era venuta la sera senza mangiare, il digiuno filava verso le quarant'otto ore. Egli si prese davanti i calzoni in una mano e li strinse. Da tutti gli usci dei caffè uscivano folate calde, su dalle finestre, dalle porte delle osterie irrompevano odori mordaci di cucina, mentre la gente, più frettolosa del solito, urtando lo destava dalle sue distrazioni di affamato.
 
Era tornato a casa per accendere la pipa e cenare così; il tabacco gli fece bene. Quindi ravvoltolato strettamente fra le coperte, lanciando boccate di fumo come un camino, si mise a considerare fantasticamente quel ritratto. Chi era? Che cosa le era accaduto nella sua vita di quattrocento anni fa? Aveva avuto degli amanti? Tutti i suoi discendenti erano morti? La immaginazione eccitata dalla fame cominciò a battere la campagna attraverso il passato radunando le più strane novelle, i più inconciliabili aneddoti intorno a quel ritratto, finché a poco a poco la stanchezza lo vinse e la gioventù trionfando del digiuno lo addormentò. Per qualche minuto la pipa proseguì a fumare innocuamente fra le lenzuola, poi si spense, la candela poco più che a mezzo durò un'altra ora.
 
Sognò.
 
La soffitta rimaneva sempre la stessa, la candela agonizzava fumando: egli era triste, colla testa affondata melanconicamente nel cuscino, quando gli parve d'intendere un fruscio di seta. Qualcuno era entrato. Era una bella fanciulla dal viso pallido, vestita con rara eleganza, che si dirigeva sorridendo verso la vecchia signora: questa discese dal quadro e le gettò amorosamente le braccia al collo. Poi avevano parlato. In quel momento la vecchia signora sembrava ringiovanita; i suoi occhi grigi brillavano di bontà, la piuma bianca della sua fronte tremava come del sorriso della sua bocca, ma egli non poteva più ricordarsi le loro parole; solamente gli rimaneva il ricordo confuso di un riconoscimento, qualche cosa di drammatico fra le due donne che si ritrovavano finalmente dopo parecchi secoli di assenza. La bella fanciulla era anche più commossa; i magnifici capelli biondi le si scuotevano fra un nimbo dorato sopra la fronte di un pallore meraviglioso. Egli nascosto sotto le coperte cercava di farsi più piccolo per non essere veduto, tendendo l'orecchio ad ogni accento con una angoscia di curiosità che gli acuiva orribilmente le sofferenze della fame. Poi la ragazza uscì senza guardarlo ed egli vide daccapo la vecchia signora immobile nel proprio ritratto. Che cosa si erano detto? La fanciulla era una sua discendente? Perché era entrata in quella notte, sola ed elegante, per uscire così presto? E a poco a poco credette di indovinarlo. Quella fanciulla nobile e ricca era sola come lui; una mestizia desolata, quell'abbandono inconsolabile degli orfani come lui, senza amore nel passato e senza alcuno da amare nel presente, l'avevano spinta fuori del proprio palazzo in cerca di una mamma o di una nonna alla quale confidare la tristezza del proprio cuore. Infatti qualche cosa rischiarava adesso la fisonomia della vecchia signora dando al suo sorriso una bontà giuliva di mistero. Perché mai lo guardava così? Avevano esse parlato di lui? La sua immaginazione eccitata dalla febbre del digiuno gli persuase che la vecchia signora aveva raccontato alla fanciulla tutta la miseria di quella sua vita d'artista col cuore vuoto come le tasche, in preda ai più strambi deliri della fame e dell'amore. Anch'egli era solo nella vita, più solo di quelli che hanno tutto perduto, giacché non aveva mai avuto nulla, aspettando sempre indarno qualche cosa o qualcuno. Ma chi era quella fanciulla? Come si chiamava? Dopo aver pensato lungamente concluse che si sarebbero riconosciuti infallibilmente in qualche luogo, poiché ella doveva averlo veduto in quella strana visita e non potrebbe così presto dimenticarlo. Un profumo delicato ed acuto era rimasto nella soffitta: egli avrebbe voluto interrogare la vecchia signora, ma un rispetto pauroso, insolito ed invincibile, glielo impediva.
La soffitta rimaneva sempre la stessa, la candela agonizzava fumando: egli era triste, colla testa affondata melanconicamente nel cuscino, quando gli parve d'intendere un fruscio di seta. Qualcuno era entrato. Era una bella fanciulla dal viso pallido, vestita con rara eleganza, che si dirigeva sorridendo verso la vecchia signora: questa discese dal quadro e le gettò amorosamente le braccia al collo. Poi avevano parlato. In quel momento la vecchia signora sembrava ringiovanita; i suoi occhi grigi brillavano di bontà, la piuma bianca della sua fronte tremava come del sorriso della sua bocca, ma egli non poteva più ricordarsi le loro parole; solamente gli rimaneva il ricordo confuso di un riconoscimento, qualche cosa di drammatico fra le due donne che si ritrovavano finalmente dopo parecchi secoli di assenza. La bella fanciulla era anche più commossa; i magnifici capelli biondi le si scuotevano fra un nimbo dorato sopra la fronte di un pallore meraviglioso. Egli nascosto sotto le coperte cercava di farsi più piccolo per non essere veduto, tendendo l'orecchio ad ogni accento con una angoscia di curiosità che gli acuiva orribilmente le sofferenze della fame. Poi la ragazza uscì senza guardarlo ed egli vide daccapo la vecchia signora immobile nel proprio ritratto. Che cosa si erano detto? La fanciulla era una sua discendente? Perché era entrata in quella notte, sola ed elegante, per uscire così presto? E a poco a poco credette di indovinarlo.
 
Quella fanciulla nobile e ricca era sola come lui; una mestizia desolata, quell'abbandono inconsolabile degli orfani come lui, senza amore nel passato e senza alcuno da amare nel presente, l'avevano spinta fuori del proprio palazzo in cerca di una mamma o di una nonna alla quale confidare la tristezza del proprio cuore. Infatti qualche cosa rischiarava adesso la fisonomia della vecchia signora dando al suo sorriso una bontà giuliva di mistero. Perché mai lo guardava così? Avevano esse parlato di lui? La sua immaginazione eccitata dalla febbre del digiuno gli persuase che la vecchia signora aveva raccontato alla fanciulla tutta la miseria di quella sua vita d'artista col cuore vuoto come le tasche, in preda ai più strambi deliri della fame e dell'amore. Anch'egli era solo nella vita, più solo di quelli che hanno tutto perduto, giacché non aveva mai avuto nulla, aspettando sempre indarno qualche cosa o qualcuno.
 
Ma chi era quella fanciulla? Come si chiamava? Dopo aver pensato lungamente concluse che si sarebbero riconosciuti infallibilmente in qualche luogo, poiché ella doveva averlo veduto in quella strana visita e non potrebbe così presto dimenticarlo. Un profumo delicato ed acuto era rimasto nella soffitta: egli avrebbe voluto interrogare la vecchia signora, ma un rispetto pauroso, insolito ed invincibile, glielo impediva.
 
Ella sorrideva cogli occhi grigi.
 
L'aria del mattino dissipò quel sogno vivificandone il ricordo così che per un pezzo non poté distrarsene. La fanciulla misteriosa, l'ideale di tutte le sue visioni, era diventata una nipote dell'antico ritratto: qualche volta nelle stravaganze del suo lungo ozio gli accadeva di uscire appositamente per incontrarla, o più spesso tornando a casa si sorprendeva a domandarsi con ostinazione incredula se non fosse già su ad aspettarlo. Poi di commissione in commissione sperò che gli capiterebbe di farle il ritratto. Egli avendo già la sua fisonomia nell'immaginazione era sicuro di non ingannarsi, ella tornerebbe con lui a trovare la nonna. Ma fra tutte queste aberrazioni e i sogni del lotto, dei cavalli che dovevano rubare la mano al cocchiere e che egli arrestava ad una cantonata salvandole la vita, delle lettere profumate che non arrivavano mai; fra le fantasmagorie di troppi romanzi che si dissolvevano nell'impossibile, il suo buon senso popolano protestava ancora. Quindi scuoteva la testa per scrollarne tutte quelle immagini, ma allora una malinconia cupa come il fondo di quel vecchio ritratto gli si addensava lentamente nel cuore.
L'aria del mattino dissipò quel sogno vivificandone il ricordo così che per un pezzo non poté distrarsene. La fanciulla misteriosa, l'ideale di tutte le sue visioni, era diventata una nipote dell'antico ritratto: qualche volta nelle stravaganze del suo lungo ozio gli accadeva di uscire appositamente per incontrarla, o più spesso tornando a casa si sorprendeva a domandarsi con ostinazione incredula se non fosse già su ad aspettarlo. Poi di commissione in commissione sperò che gli capiterebbe di farle il ritratto. Egli avendo già la sua fisonomia nell'immaginazione era sicuro di non ingannarsi, ella tornerebbe con lui a trovare la nonna.
 
Ma fra tutte queste aberrazioni e i sogni del lotto, dei cavalli che dovevano rubare la mano al cocchiere e che egli arrestava ad una cantonata salvandole la vita, delle lettere profumate che non arrivavano mai; fra le fantasmagorie di troppi romanzi che si dissolvevano nell'impossibile, il suo buon senso popolano protestava ancora. Quindi scuoteva la testa per scrollarne tutte quelle immagini, ma allora una malinconia cupa come il fondo di quel vecchio ritratto gli si addensava lentamente nel cuore.
 
Dopo molti mesi della più rigida miseria, all'avvicinarsi dell'inverno parve che la stagione per lui migliorasse. Gli furono offerti da verniciare tutti gli usci e le finestre di un appartamento, più i portoni di una stalla e di una rimessa. Il lavoro era poco nobile, ma c'erano trenta lire da guadagnare in una settimana. Accettò allegramente. A mezzo dell'opera aveva già comprato per dieci lire un vecchio paltò, nel quale si affagottava voluttuosamente andando girelloni apposta nei primi freddi notturni lungo una qualche mura della città.
 
La sera del sabato, finito il lavoro, ne aveva intascato il resto del prezzo: quattordici lire. Erano troppe, la testa gli girò. Venne prima a casa: voleva lavarsi, pettinarsi, mutare camicia per entrare a cena in qualche buona locanda, ma la pigrizia lo rattenne da tale grossa follìa. Invece discese in una cantina, ove si cucinava anche da bettola, e vi scialò in una cena inesauribile quasi tre lire lasciando cinque soldi di buona mano all'ostessa. Fuori l'aria era pungente: nullameno egli si sbottonò il pastrano e col cappello sulla nuca, le mani dietro la schiena si mise a camminare sbuffonchiando. I maccheroni e il vino ingollato gl'infiammavano il sangue, gli pareva che la luce del gas facesse un'aureola intorno alla testa di tutte le donne, quando passavano sotto i lampioni. Ma improvvisamente, prima ancora che questo indistinto bisogno femminino gli si acuisse nella coscienza, allo svoltare di un cantone una fanciulla che veniva correndo gli urtò col viso nel petto.
 
Era piccina, con un fazzoletto sulla testa: ella si rattenne, trattenne una risata domandandogli scusa: egli s'imbarazzò, ma l'altra rideva, risero insieme. La fanciulla aveva il visetto aguzzo, sguaiato, e le scarpette, egli ne vide una sola, scollate malgrado il freddo della stagione.
 
- Dove vai? - finì per chiederle famigliarmente.
 
- E tu?
 
- Io sono stato a cena.
 
La ragazza accettò di andare con lui. Nel passare dinanzi ad un caffè egli la guardò bene nella faccia: era pallidissima, coi pomelli rossi dal belletto. Entrarono, egli chiese un punch bianco e le disse di ordinare tutto quello che voleva.
 
Ella esitava.
 
- Dopo cena, quando si è mangiato bene, non c'è che un punch - egli concluse con una specie di vanteria beata.
 
- Un punch dunque! - ripeté la ragazza, che non aveva cenato, con una contrazione fuggevole alla bocca; ma appena bevutolo d'un fiato come una medicina parlò di andare a casa. Il suo viso era talmente sconvolto che l'altro credette le venisse male.
 
- Sarà il punch.
 
- Che cosa vuoi? il nostro stomaco è così leggero… - ella ribatté sordamente.
 
Strada facendo l'aria frigida la ristorò: salirono ridendo le scale. Quando ebbero acceso la candela, la ragazza rimasta nel mezzo fece un oh! di complimento sulla grandezza e sulla decenza della soffitta. Osservò il cavalletto.
 
- Sei pittore? -
 
Ma la tela del cavalletto era ancora bianca.
 
Poi d'improvviso girando gli occhi gridò:
 
- Un ritratto!… Tu che cosa fai? Ti levi il paltò. Lo hai fatto tu il ritratto? Lasciami vedere.
 
Ma siccome era piccola corse ad una sedia, ve la portò sotto, vi salì, e cacciando la candela sotto il naso della signora:
 
- Chi è? - si rivolse ridendo del suo riso monellesco. - Ma se è vecchia! Guarda, guarda la piuma bianca… Stupida! le piume si mettono ai cappellini.
 
Quindi si curvò col naso sulla tela.
 
Egli si era già levata anche la giacca e guardava dietro le sue spalle la testa del ritratto con un ricordo involontario del sogno.
 
- Bella questa! - ella squittì; poi sillabando: - Aloisia comitissa ux… qui è cancellato… Lambertini… Toh! il mio cognome.
 
 
 
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