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Stringea nel pugno una possente clava
130Da un capo di giovenca in sulla cima.
Venne costui fino a Dahàk correndo
E cercando la pugna, e lo colpìa
Con quella clava in su la testa. Allora,
Quell’eroe che da meno era degli altri
135Negli anni suoi, dal capo al piè legavalo
D’un striscia di cuoio, ambe le mani
Con quel capestro gli avvincea pur anco
In nodi fermi, e un laccio gli appendea,
In segno d’ignominia, alla cervice.
140Del Demavènd così fin presso al monte
Abbandonato ei lo traeva, correndo,
Strascinandolo avvinto, e dietro a lui
Gittavasi la folla intimorita.
     Si contorcea nel sonno paventoso
145L’empio Dahàk, sì che parea che il core
Gli scoppiasse nel sen. Levò tal grido
Sognando ancor, che tutta quella vasta
Dimora ne tremò con le sue cento
Alte colonne. Giù balzâr dal loco
150Le vaghe ancelle, al grido impaurite
Dell’inclito signor; prima di tutte
Ernevàz l’inchiedea: Prence e signore,
Che t’avvenne ci narra, e alto secreto
Ne terreni noi. Tu che in tua vasta casa
155Dormi tranquillo, per la dolce vita
A che temi così? Sono dell’ampia
Terra le sette regïoni al tuo
Cenno sommesse, e gli uomini e le fiere
E i Devi ancora guardano gelosi
160I giorni tuoi. Tutti i viventi stanno
In tuo poter, dal cerchio della luna
Fino al mostro fatal che il mondo regge.
     E di rimando a le fanciulle il prence:
Di tal prodigio favellar concesso,

Firdusi, I. 11