Fosca/Capitolo XXXVII: differenze tra le versioni

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Giunto a casa, incominciai a provare quella specie di leggerezza e di benessere che precede la febbre.
 
Mi buttai nel letto, smanioso di addormentarmi, di non svegliarmi mai piú, giacché non potevo piú reggere agli assalti di tutti quei pensieri che venivano a torturare il mio cervello.
 
Non tardai ad assopirmi, ma passai una notte terribile; ebbi l’incubo; un fantasma spaventevole s’era buttato sopra di me e mi stringeva, mi soffocava col suo peso; sentivo un affanno, un caldo, una sete, un’oppressura da non dirsi; al mattino mi svegliai come istupidito, mi sembrava di non esser desto; sentiva una gonfiezza penosa nel cuore, e mi pareva che egli si fosse ingrossato, e che urtasse con violenza nelle pareti del petto. Non avendo potuto alzarmi, mandai pel medico.
 
- Era cosa da aspettarsi, - mi diss’egli - vi vedevo deperire ogni giorno, e voleva avvertirvene. Me ne astenni sempre perché mi sentiva un poco imbarazzato a farvi questa confidenza, e perché speravo che un giorno o l’altro avreste trovato modo voi stesso di troncare quella relazione. Ora non posso farne a meno. Bisogna che lasciate quella donna ad ogni costo; siete troppo sensibile.
 
- Credete che ella ne morrebbe?
 
- Non è cosa da potersi prevedere. Ad ogni modo voi non fareste che affrettarle di poco una crisi vicina, inevitabile. Capirete che è questione assai delicata; io non posso dirvi: “Fate questo, fate quello”, posso avvertirvi di un pericolo, ecco tutto; è a ciò che si limita il mio mandato. La vostra malattia attuale è cosa di cui guarirete in otto giorni; siete sano, e potete trionfarne, potete farvi robusto; ma i germi del male li avete già in voi, trascurateli, e non sarete piú in tempo. Vi ammalerete in piedi, vi consumerete senza avvedervene; alla vostra età, colla vostra costituzione, colla vostra indole, si muore in questo modo. Non avete nessun altro dispiacere?
 
- Nessun altro.
 
Stette un momento silenzioso, poi riprese:
 
- Pensateci, bisogna che scegliate fra la vostra vita e la sua; o voi o lei, questo è il dilemma, io mi limito a formularvelo.
 
Mi prescrisse alcune medicine, ed uscí dicendo sarebbe ritornato assai presto.
 
Passai tutto quel giorno in una profonda malinconia; v’era fuori un gran vento, piovigginava; io guardava le gocce di pioggia stillare giú per i vetri, e le ventole dei tetti girare da un lato e dall’altro cigolando. La notte era vicina, incominciava ad abbuiarsi, i mobili della mia stanza sparivano a poco a poco nell’oscurità; il rumore della via cessava, e sentiva da lontano certi rintocchi di campane che mi stringevano il cuore di tristezza. Io era tutto immerso nel pensiero dei miei affetti e dei miei dolori.
 
Ad un tratto intesi su per le scale un rumore di passi accelerati, poi un fruscio di abiti femminili, poi sentii aprirsi l’uscio con violenza, poi Fosca comparve come una visione nel fondo della stanza, corse verso di me, e si lasciò cadere inginocchiata vicino al mio letto.
 
- Tu soffri, tu sei malato, e per colpa mia! Oh mio Giorgio, o mio angelo, perdono, perdono!
 
Singhiozzava, e non poteva articolare altre parole.
 
- Fosca - io le dissi - che hai fatto? Alzati, alzati.
 
- No, finché non mi avrai perdonato.
 
- Ma io non ho nulla a perdonarti.
 
- Sí, dimmi che mi perdoni.
 
- Ti perdono.
 
- Oh grazie, grazie!
 
Si alzò a stento, e si abbandonò con le braccia distese attraverso il mio letto.
 
- Ieri ti ho tormentato, ti ho torturato con le mie insistenze, ho abusato troppo di te. Sí, sí, non dirmi che non è vero. Io lo so che tu sei malato per questo, io lo sento. Oh sono stata ben egoista, ben trista! Povero Giorgio! E tu non vuoi neppure dirmi che son io che ti ho fatto ammalare. Ma sapessi quanto ho sofferto anch’io stanotte! Dio, quanto ho sofferto! Io ignorava che tu eri malato; era in letto io pure, l’ho saputo adesso, mi sono subito sentita forte, mi sono alzata, sono fuggita. Povero angelo! povero angelo! Oh, io sono una insensata, una miserabile!
 
E stringeva colle mani e mordeva la coperta del letto piangendo.
 
- Calmati, Fosca, - io le dissi - tu lo sai, questa commozione potrebbe esserti fatale; se i tuoi accessi… se ciò succedesse qui… pensa…
 
- Oh no, no, è impossibile, io soffro troppo in questo momento; e poi io non mi appartengo piú, tutta la mia vita è in te, io non so piú di esistere. Ma guarirai, guarirai presto, non è vero? oh guarisci, guarisci!
 
Si alzò, buttò in un angolo il suo scialle, e prese a camminare per la stanza con passi rapidi. Afferrò l’estremità di un tappeto che copriva il tavolo, e lo gettò a terra assieme ad alcuni ninnoli che vi erano sopra. Guardò il cielo dalla finestra, si avvicinò ad una parete, vi appoggiò il capo, e rimase in quell’atteggiamento alcuni minuti. Io la guardava istupidito.
 
- Non voglio che soffra tu solo, - riprese riscuotendosi ad un tratto - no, no, non voglio.
 
Guardò intorno alla stanza, vide splendere sopra uno scrittoio la lama d’acciaio d’un tagliacarte, la prese e mi si avvicinò gridando:
 
- Feriscimi, feriscimi: dove è che soffri? nel petto, nel cuore? ebbene feriscimi qui, nel cuore, voglio anch’io la mia parte di dolori, sí, voglio soffrire anch’io.
 
Le afferrai la mano, e le tolsi la lama che gettai a terra.
 
- Per carità, - esclamai io - Fosca, non ti abbandonare a questi trasporti. Io non sto male, non ho nulla, siediti vicino a me, su questa sedia; se veramente mi ami, se ti è cara la mia vita, la mia felicità, non mi affliggere e non mi atterrire in questo modo.
 
Non disse nulla, e si sedette. La sentiva piangere e singhiozzare forte nell’oscurità.
 
- Accendi un lume - io le dissi.
 
- No, mi vedresti, avresti orrore di me. Io ti vedo lo stesso. Non ho bisogno di luce per vederti.
 
- Buon Dio! è forse la prima volta che ti vedo?
 
- È vero - diss’ella con tristezza.
 
- Ebbene, sarò io che voglio vederti - aggiunse per mitigare l’asprezza di quella risposta.
 
Si alzò, accese la lampada, e tornò a sedersi vicino al mio letto.
 
- Come sei pallido! Come sei bello! Ah, perché sei cosí pallido!
Stette un momento a guardarmi come rapita. Alzò gli occhi, e vide un vecchio Cristo di legno appeso alla parete.
 
- Tu credi? - mi chiese ella.
 
- Un poco.
 
- E preghi?
 
- Qualche volta.
 
- Vi fu un tempo in cui ho creduto anch’io, in cui ho pregato anch’io. Quando aveva quindici anni piangeva tutte le sere pregando. In collegio c’era un camerino dove andava a nascondermi per poter esser sola, e pregare ad alta voce senza essere sentita. Oh quell’età! quella fede! Ora è tutto finito. Sono tre anni che non prego piú; penso sovente al cielo, ma senza invocarlo. Due mesi or sono nei primi giorni che ti conobbi, in una notte che c’era stato un gran temporale, e non aveva potuto dormire, mi alzai e mi affacciai alla finestra. Aveva cessato di piovere, il cielo s’era rasserenato come per incanto e scintillava di miriadi di stelle, l’aria era fresca, imbalsamata, ricca di quel profumo acre che ha la terra bagnata; e allora mi ricordai con piú forza di Dio, e tesi le braccia al cielo quasi per chiedergli misericordia di me e della mia giovinezza infelice; ma fu indarno, io non sentiva piú la sua voce.
 
- Tu non puoi non credere, - io le dissi - la tua bontà è una fede, la tua virtú è una religione, i tuoi dolori sono una preghiera. Quanti onesti credono di essere atei perché sono infelici! La loro infelicità sembra volerli allontanare dal cielo, e non sanno di essere i piú credenti degli uomini! Può la bontà non essere credente?
 
- Ciò è vero - diss’ella. - Oh se potessi credere ancora! Ma per te crederò, sai, pregherò ancora per te. Sarò esaudita lo stesso. Stasera dirò le mie vecchie orazioni, le dirò sempre, tutti i giorni; domani andrò in una chiesa per pregarvi e per piangervi.
 
Mi fece passare una mano sotto il capo, volse il mio viso verso il suo; mi guardò, e mi sorrise cogli occhi bagnati di lacrime.
 
- Come sei bello cosí malato, - mi disse - se tu non soffrissi vorrei vederti sempre cosí. Farei patto di passare tutta la mia vita in questo modo, vicino al tuo letto a guardarti.
 
Mi arruffò i capelli con le mani, li fece cadere a ciocche da un lato e dall’altro del guanciale, si alzò, prese uno specchietto e mi disse:
 
- Guardati.
 
Io mi guardai e sorrisi. Baciò lo specchio, lo ripose, e tornò a sedersi.
 
- Ora - diss’ella - me ne andrò; mio cugino era uscito, e non sarà tornato ancora; se lo sapesse!… Ebbene, se lo sapesse!
 
- Ma che monta? - riprese crollando il capo e riabbracciandomi - io ti adoro, Giorgio, io ti adoro. Che m’importerebbe il perdere la mia pace, la mia fama, il rendermi anche ridicola, quando ciò fosse per te? Ove è il tuo male? Nella testa, nel cuore?
 
- Nell’uno e nell’altro, piú nel cuore.
 
- Anche il mio è lí. Mi sento una pena, un fuoco, una quantità di sangue… Ti parrà strano che io tanto consunta soffra di troppo sangue, e pure è cosí. Ieri mi sono sentita meglio, quelle graffiature mi avevano fatto bene. Dovresti levarmene un poco.
 
Si tolse uno spillone dalla cintura, me lo diede e mi disse:
 
- Forami una mano, forami.
 
- Ma è una follia! Che idea!
 
- No, no; - esclamò ella con impazienza - lo voglio, te ne prego, Giorgio!
 
Io allontanai il braccio, ella fu sollecita ad afferrarlo, a tirarlo verso di sé, e a percuotere la mano che aveva libera sullo spillo. Si ferí leggermente; una goccia di sangue cadde sul mio guanciale.
 
- Ora sono contenta, - disse ella, - mi fa male, mi abbrucia, sono contenta.
 
- Va’, va’!, - le diss’io - è tardi.
 
- Sí, andrò, ritornerò domani; fuggirò ancora. Oh! per pietà, non soffrire, non esser triste; guarisci presto, guarisci presto.
 
Si abbassò a raccogliere lo scialle che aveva calpestato passeggiando. Guardò tutt’intorno alla stanza, guardò il mio letto, i miei mobili, e disse:
 
- Che pace vi è qui dentro! Che raccoglimento! Che religione! È qui che tu vivi, o mio Giorgio -. Si inginocchiò, e stette assorta un istante non so in quali pensieri; si calò il velo del cappello, si alzò, e mi disse con voce ferma e risoluta:
 
- Un solo bacio, uno solo, e partirò subito.
 
La baciai; attraverso il suo velo vidi lucere le sue lagrime.
 
Prese un lembo del mio lenzuolo e se lo avvicinò alle labbra; baciò anche un piccolo libro che v’era sul tavolino. Quando fu vicina all’uscio, tornò indietro, si fermò a piedi del mio letto, si appoggiò colle mani incrociate sulla spalliera, mi guardò un istante; poi uscí senza parlare.
 
All’indomani il dottore mi trovò assai peggiorato.