Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/36: differenze tra le versioni

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{{ct|f=100%|l=30em|t=2|v=1|SCENA QUINTA<ref name="pag36">1790, Maggio. Per mio divertimento. — A voler provare cosa operi la locuzione,
{{ct|f=100%|l=30em|t=2|v=1|SCENA QUINTA<ref name="pag36">1790, Maggio. Per mio divertimento. — A voler provare cosa operi la locuzione,
ho rifatto il piú de' versi di questa scena senza mutarvi un pensiero; e ciascuno giudichi quale sia l’influenza dello stile.
ho rifatto il piú de' versi di questa scena senza mutarvi un pensiero; e ciascuno giudichi quale sia l’influenza dello stile.

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|width=4em|''Augusto''
|Antonio, a te, qual vincitor non vengo.<br>Cieca la sorte, e a suo piacer fallace<br>dona talor, toglie talor gl imperi,<br>e invan si oppone a lei virtude. Indegno<br>sarei pur troppo de’ suoi doni, ov’io<br>teco altero ne andassi. Or via, fra noi<br>tacciano gli odj omai; né Antonio stimi<br>emulo omai della sua gloria Angusto.
|''Augusto''{{gap}}Antonio, a te, qual vincitor non vengo.<br>Cieca la sorte, e a suo piacer fallace<br>dona talor, toglie talor gl imperi,<br>e invan si oppone a lei virtude. Indegno<br>sarei pur troppo de’ suoi doni, ov’io<br>teco altero ne andassi. Or via, fra noi<br>tacciano gli odj omai; né Antonio stimi<br>emulo omai della sua gloria Angusto.|6}}</div>

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|''Antonio''
|Da che fra noi si bipartiva il mondo,<br>e ch’io Roma lasciava, il ciel ne attesto,<br>altro che pace io non bramai. Ma. noto<br>troppo ben t’è. qual rimaneasi Roma<br>da che inondata di romano sangue<br>l’ebbero e Mario e Silla. Ah! da quel giorno<br>non fu piú Roma. Ogni virtú sua prima<br>scemar vedendo, al troppo vasto impero<br>ella indarno volgea gli attonit’occhi;<br>che al troppo grave peso era pur forza<br>che soggiacesse da se stessa vinta.<br>Non nasco io no tiranno; in petto un’alma<br>Romana io vanto; inutil pregio, allora<br>che più Roma non è! Cesare vivo,<br>non isdegnai d'esser a lui secondo<br>ma il mondo intero ei debellato avea;<br>e adorno il crine d’immortali allori,<br>ebbe a vile il diadema. Ahi, di tant’uomo<br>indegna orrida morte! inique spade<br>troncaro i giorni suoi: ma almen non giacque<br>inulto ei, no: di Grecia e d’Asia i campi<br>il san per me, se n’irrigò la tomba<br>più sangue assai che pianto. Allor, le antiche<br>mie vittoi e, il mio lustro. e gli anni miei,<br>tutto allor mi fea di Roma il primo;<br>e allor di Ottavio esser pur volli io pari.<br>L’armi poscia impugnai, quel di ch’io vidi,<br>a certa prova, che me ugual sdegnavi.
|''Antonio''{{gap}}Da che fra noi si bipartiva il mondo,<br>e ch’io Roma lasciava, il ciel ne attesto,<br>altro che pace io non bramai. Ma. noto<br>troppo ben t’è. qual rimaneasi Roma<br>da che inondata di romano sangue<br>l’ebbero e Mario e Silla. Ah! da quel giorno<br>non fu piú Roma. Ogni virtú sua prima<br>scemar vedendo, al troppo vasto impero<br>ella indarno volgea gli attonit’occhi;<br>che al troppo grave peso era pur forza<br>che soggiacesse da se stessa vinta.<br>Non nasco io no tiranno; in petto un’alma<br>Romana io vanto; inutil pregio, allora<br>che più Roma non è! Cesare vivo,<br>non isdegnai d'esser a lui secondo<br>ma il mondo intero ei debellato avea;<br>e adorno il crine d’immortali allori,<br>ebbe a vile il diadema. Ahi, di tant’uomo<br>indegna orrida morte! inique spade<br>troncaro i giorni suoi: ma almen non giacque<br>inulto ei, no: di Grecia e d’Asia i campi<br>il san per me, se n’irrigò la tomba<br>più sangue assai che pianto. Allor, le antiche<br>mie vittoi e, il mio lustro. e gli anni miei,<br>tutto allor mi fea di Roma il primo;<br>e allor di Ottavio esser pur volli io pari.<br>L’armi poscia impugnai, quel di ch’io vidi,<br>a certa prova, che me ugual sdegnavi.
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<poem>
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{{ct|c=personaggi|Antonio, Augusto, Settimmio.}}
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