Viaggio in Dalmazia: differenze tra le versioni

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{{Centrato|AGL'ILLUSTRISSIMI, ED ECCELLENTISSIMI SIGNORI

ANDREA QUIRINI,

GIROLAMO GRIMANI,

SEBASTIANO FOSCARINI K
SENATORI GRAVISSIMI,
RIFORMATORI
DELLO STUDIO DI PADOVA}}
 
ALBERTO FORTIS
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A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR
 
{{Centrato|A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR
JACOPO MOROSINI1 PATRIZIO VENETO
 
JACOPO MOROSINI PATRIZIO VENETO}}
 
Delle osservazioni fatte nel Contado di Zara
 
La lontananza da Venezia privandomi dell’onore d’esserle vicino sovente, e togliendomi pell’interposto mare il modo d’inviarle con sicurezza frequentemente nuove di me, non farà già ch’io tralasci di scriverle. Assai tardi Vostra Eccellenza probabilmente avrà questa mia lettera: ma io sono ben certo che in qualunque tempo le giunga sarà benignamente accolta, mercé di quella bontà cui Ella degnasi d’avere per me, e di quel trasporto col quale usa ricevere tutte le notizie che tendono a dilatare i progressi della scienza naturale.
Io mi sono prefisso di render conto delle varie osservazioni che ho di già fatte, e di quelle che sarò per fare d’ora innanzi nelle mie peregrinazioni, intraprese sotto gli auspici di nobiissimi mecenati patrizi, a quel picciolo numero d’illustri amatori o di celebri professori, co’ quali mi tiene in corrispondenza il vincolo fortissimo degli studi comuni. L’incominciare dallo scriverne a Lei mi sembra un tanto più preciso dovere, quanto che i coltivatori della buona ed utile scienza de’ fatti, e le produzioni così belle e varie della natura (in un secolo di tanta luce pel resto dell’Europa), dispregiate e pur troppo mal conosciute fra noi, unicamente presso l’Eccellenza Vostra ritrovano buon’accoglienza e ricetto.
Io dividerò le mie lettere, ora seguendo la separazione topografica dei distretti, ora il corso de’ fiumi, ora il circuito dell’isole, ora la natura ed analogia delle materie. L’estensione della Dalmazia Veneta è troppo vasta, il numero dell’isole di questo mare troppo considerabile, perché da brevi peregrinazioni qualche cosa di
 
Io mi sono prefisso di render conto delle varie osservazioni che ho di già fatte, e di quelle che sarò per fare d’ora innanzi nelle mie peregrinazioni, intraprese sotto gli auspici di nobilissimi mecenati patrizi, a quel picciolo numero d’illustri amatori o di celebri professori, co’ quali mi tiene in corrispondenza il vincolo fortissimo degli studi comuni. L’incominciare dallo scriverne a Lei mi sembra un tanto più preciso dovere, quanto che i coltivatori della buona ed utile scienza de’ fatti, e le produzioni così belle e varie della natura (in un secolo di tanta luce pel resto dell’Europa), dispregiate e pur troppo mal conosciute fra noi, unicamente presso l’Eccellenza Vostra ritrovano buon’accoglienza e ricetto.
1Patrizio veneziano, collezionista di curiosità fossili e cultore di botanica, è ricordato anche per il suo «bell’orto botanico» alla Misericordia.
Io dividerò le mie lettere, ora seguendo la separazione topografica dei distretti, ora il corso de’ fiumi, ora il circuito dell’isole, ora la natura ed analogia delle materie. L’estensione della Dalmazia Veneta è troppo vasta, il numero dell’isole di questo mare troppo considerabile, perché da brevi peregrinazioni qualche cosa di
 
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completo possano aspettare i naturalisti. V’hanno degli uomini audaci che, trasportati da uno sconsigliato fervore di giovinezza e persuasi di poter imporre al mondo letterario, promettono di dare in pochi mesi la botanica, la zoologia e l’orittografia delle più vaste provincie; ma chi è usato a contemplare con filosofica posatezza la varietà immensa delle cose intende pur troppo bene, che non basta la vita d’un uomo solo (ed abbia pur egli aiuti generosi) a tessere la completa storia naturale della più picciola isola o del territorio più angusto. Un’acqua minerale2minerale, una vasta e diramata caverna, il corso d’un fiume con tutte le acque influenti3influenti, ricercano lunghissime osservazioni innanzi che si possa di loro espressamente trattare. E come non le ricercherebbono, se gli abitanti subacquei del più picciolo seno di mare, anzi un solo di essi, una pianta, un insetto, di cui si vogliano appieno conoscere le trasformazioni e le proprietà, puote occupare per mesi ed anni talvolta un oculato naturalista, prima di lasciarsi conoscere a perfezione? Chi non diverrebbe modesto e tardo sapendo che quanto Swammerdam, Reaumur, Maraldi4Maraldi e tanti altri uomini celeberrimi hanno osservato intorno alle api, resta convinto di poca esattezza dopo le recenti osservazioni di mr. Schirach5Schirach? Vostra Eccellenza, che ben conosce le asprezze e l’ampiezza del campo in cui sudano i naturalisti, voglia difendermi dalle voci indiscrete de’ non-conoscitori di questa scienza, che pur talvolta l’osservatore taciturno e raccolto in se stesso importunano latrando, come i fastidiosi cani usano di fare contro chi va pe’ fatti suoi, senza pensare a recar loro molestia.
2Abitualmente indica acque sorgive contenenti sostanze minerali, ma qui sembra potersi intendere come corso d’acqua sotterraneo o comunque di interesse speleologico e geologico.
 
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3Corsi d’acqua che sfociano in un fiume: immissari.
4F, Maraldi (1665-1729) astronomo nizzardo, RA. de Reaumur (1683-1757) scienziato e naturalista francese, J. Svammerdam (1637-1680) medico e botanico olandese, considerato tra i padri dell’entomologia, sono qui citati per i loro studi sulle api: rispettivamente Maraldi per le Observations sur les abeilles (1712); Reaumur per il V volume della sua fondamentale opera Mémoires pour servir à l'histoire de insectes (1734-42); Svammerdam, probabilmente, per la Biblia naturae, pubblicata postuma nel 1737.
5 Adam G. Schirach, sacerdote di Klem Bautzen in Lusazia, autore di una Histoire naturelle de la reine des abeilles, avec l’art de former des essaims, tradotta dal tedesco e pubblicata a l’Aia nel 1771.
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Vitaliano Donati6, dopo parecchi anni di viaggi dalmatici, non ebbe il coraggio di pubblicare se non che un Saggio di storia naturale dell’Adriatico; il grande Hallero7, dopo lunghe peregrinazioni pell’Alpi Svizzere, diè un luminoso esempio di modestia pubblicando un Catalogo incominciato delle piante elvetiche; or che dovrassi pretendere ed aspettare da me che, dinanzi a questi sommi uomini, trovomi d’essere un insetto invisibile?
 
§. 1. Dell’isole d’Ulbo e Selve
 
Varcato quel tratto di mare che dai nostri naviganti e da’ geografi è conosciuto sotto il nome di Quarnaro, le prime isolette dove io ho approdato furono le due contigue d’Ulbo e di Selve8, fra le quali sogliono passare i legni minori diretti da Venezia a Zara. Esse probabilmente sono quelle medesime che da Costantino Porfirogenitoa trovansi annoverate fra le deserte, co’ nomi al di lui solito stroppiati d’Aloep e Selbo9. L’opportunità della situazione in cui trovansi fa che, a’ tempi nostri, sieno abitate e coltivate anche più che non merita lo scarso ed ingrato loro terreno. Gli abitatori vi hanno che fare con un fondo arido e petroso, in cui gli
6 Viaggiatore e naturalista padovano (1717- 1762), dai numerosi viaggi in Istria, Dalmazia, Bosnia, e Albania, compiuti tra il 1739 e il ‘50, trasse una Storia naturale marina dell’Adriatico (Venezia, 1750), ricca di osservazioni sulla morfologia del fondo marmo e sulla flora e fauna dell’Adriatico, che godette di notevole fortuna ed ebbe un seguito di traduzioni in varie lingue. Fu professore di botanica a Torino e vi curò il Museo di Storia Naturale allora in costituzione. Per arricchirne le collezioni intraprese un viaggio in Oriente del quale rimane una relazione. Le sue raccolte naturalistiche andarono in seguito disperse, mentre quelle archeologiche pare abbiano costituito il primo fondo del Museo Egizio di Torino.
7 Il noto medico e naturalista svizzero Albrecht von Haller (1708-1777) è qui ricordato per la Historia stirpium Helvetiae indigenarum (1742) con la quale gettò le basi per lo studio della flora svizzera.
8 L’attuale denominazione slava è Olib e Silba.
a Const, Porph., De Themat. Imp. Them. Dalm., c 29
9 Delle numerosissime opere dell’imperatore bizantino (905-59), Fortis cita in più luoghi il trattato Perì themata, relativo alle province bizantine dell’impero: opera di interesse prevalentemente geografico ed etnografico, compilata su fonti più antiche, con ampie descrizioni mitologiche sulle origini delle città considerate.
 
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ulivi mal volentieri allignano e le viti producono poco buon frutto; di grano fanno sì miserabile raccolta che non giova parlarne. La pietra dominante vi è della pasta di marmo compatto biancastro ch’è, come sa Vostra Eccellenza, estesa anche molto ampiamente pe’ monti più alti dell’Italia che guardano il Mediterraneo, e segnatamente a Piperno, a Terracina e presso le reali delizie di Caserta ritrovasi. Io non so se facendo il giro del golfo fra l’Italia nostra e l’Istria si ritrovasse pelle altezze10 del Friuli, non essendomi fino ad ora accaduto di viaggiare per quelle contrade, né (per quanto mi si fa credere) avendovi molti amatori dichiarati l’orittografia11l’orittografia. N’è però composta per la maggior parte la penisola dell’Istria, e regna questa spezie d’impasto pell’isole intermedie, mostrando una contemporaneità d’origine coi monti litorali e mediterranei, ne’ quali si veggono del marmo medesimo vaste stratificazioni, quantunque benespesso fuor della giacitura loro naturale e interrotte. Noi lo abbiamo comunemente sotto gli occhi, pel grand’uso che se ne fa nelle fabbriche di Venezia, e mi pare che convenga col calcareo solido, di particelle impalpabili e indistinte del Walleriob12Wallerio. L’apparenza di questo marmo è silicea, particolarmente nella frattura, rompendosi egli sotto il martello in ischeggie concavo-convesse come le focaie usano di fare. Tardi si lascia attaccare dagli acidi artefatti, e non v’è che l’aria con quelli cui porta seco sovente, che rendane in lungo giro d’anni la superficie scabrosa e lasci distinguere i corpicelli triturati ond’egli è composto. Sull’umile isoletta d’Ulbo io ho raccolto de’ curiosi esemplari di pietra ostracitica13ostracitica. I gusci delle ostriche vi si
 
10 Ovvero prominenze, cime.
11 Propriamente descrizione dei fossili, ma in senso lato anche dei minerali e della loro struttura.
b Calcareus solidus, particulus impalpabilibus et indistinctis, Wall. § 41. I. Lapis calcareus particulis impalpabilibus, Cronstedt 7. Calculus litoralis, Dio. scorid. Caesalp. Encel. Pierre à chaux compacte, Bomare 149, 103.
12 Chimico e naturalista svedese (1709-85). Esito delle sue ricerche in campo mineralogico fu la Mineralogia systematice proposita (1747-48), nella quale viene introdotta una divisione, considerata la migliore per l’epoca, del regno minerale in quattro classi: terre, pietre, minerali e concrezioni. Alla seconda edizione, apparsa col titolo di Systema mineralogicum (1772-75), fa qui riferimento Fortis.
13 Tipo di pietra descritta anche da Plinio, caratterizzata da conglomerati fossili formati da conchiglie.
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trovano orizzontalmente disposti l’uno sopra l’altro; la lunga età né li calcinò, né li petrificò. Essi conservano la lucentezza loro naturale, e si rompono in isquame laminose a un di presso come fanno quelli che di fresco sono tratti dal mare. Non sono però que’ gusci spoglie d’abitanti delle nostre acque, che non producono ostraciti così lunghe e scannellate, ma sembrano abbandonati colà da quel rimoto Oceano, de’ di cui testacei formaronsi i vasti strati di pietra calcarea differentemente impastati che compongono tuttora l’ossatura dell’isole di Dalmazia, piccioli e miserabili avanzi d’antiche terre squarciate da’ fiumi, corrose da’ sotterranei torrenti, scombussolate da’ tremuoti, capovolte da’ vulcani e finalmente allagate dal nuovo mare. Io ho dato a questo aggregato il nome di pietra calcarea scissile, spatosa, alternativamente composta di trituramenti marini e d’ostraciti piane, scannellate, esotiche. Fra le fenditure degli strati e nelle picciole caverne che vi si trovano benespesso, è frequente cosa l’incontrare delle grosse incrostazioni e gruppi di qualche mole. Queste rassomigliano identicamente al marmo dolce, stalattitico, colorato, a fascie serpeggianti, cui gli scalpellini nostri conoscono sotto il nome d’alabastro di Corfù. Sull’isola di Selve non ebbi campo di fare osservazioni d’alcuna sorte; il vento e la pioggia burrascosa che mi vi avea spinto, m’impedì anche una breve escursione. E probabile che le pietre non vi siano differenti da quelle d’Ulbo. Entrambe queste isolette godono d’aria salubre; non hanno però acqua buona e sentono troppo da ogni lato i venti, non avendo eminenze che le difendano. Selve abbonda di popoio addetto alla navigazione e di greggie.
 
§. 2. Dell’isola di Zapuntello
 
L’ostinazione del vento burrascoso mi cacciò a forza in un seno dell’isola di Zapuntello14Zapuntello, dopo ch’ebbi salpato da Selve. L’isola è poco abitata in proporzione
 
14 Zapuntel, centro nell’isola di Molat (Melada).
 
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della sua estensione, quantunque v’abbiano tre ville15, da una delle quali riceve il nome. Chiamasi anche Melada per la ragione medesima, e non è da dubitare che sia la nominata Meleta dal Porfirogenitoa fra le deserte del mar di Zara. Io non mi sono colà fermato lungamente, ma anche la breve dimora mi vi fece osservare delle curiosità fossili. Vi raccolsi de’ grossi pezzi di pietra forte16, ripieni d’una spezie incognita di lapidefatti appartenenti alla classe degli ortocerati17ortocerati, de’ quali mi riservo a far parola in altro luogo più diffusamente. Ma la più bella produzione fossile di Zapuntello si è una pietra calcarea bianchissima, che ha durezza quasi marmorea, benché apparisca farinosa nella frattura; in essa trovansi delle impressioni di lavori petrosi, arborei, degl’insetti marini. Sembra che nella fanghiglia indurata ond’ebbe questa spezie di pietra l’origine, varie spezie di madrepore e coralline sien rimaste sepolte; l’acido che le distrusse, vi lasciò vuoto o al più tinto d’ocra ferruginosa il luogo che occupavano, per modo che dall’impressione che ne rimane, si può agevolmente giudicare della cosa distrutta. L’arena marina di quel porto è popolata di piccioli nicchi microscopici del genere de’ nautili e Corna d'Ammone18Ammone, le figure de’ quali trovansi nell’opera del celebre Giano Plancob Delle conchiglie men conosciute, ch’egli ebbe il merito di scoprire il primo nelle arene del nostro mare19mare. Io avrei voluto tentare di far un’appendice alle oculatissime osservazioni di lui, sottoponendo al microscopio acquatico questi piccioli viventi appena estratti dal mare. onde veder se fosse possibile il sapere qualche cosa di più intorno alla struttura particolarmente dell’abitante di
 
15 Città, francesismo.
a Const. Porph., l. cit.
16 Marmo non friabile, giallastro e venato di bianco, resistente alle intemperie e quindi indicato per opere esterne e monumenti. È detto anche «macigno».
17 Famiglia di molluschi contraddistinti da una conchiglia settata a struttura conica eretta o debolmente ricurva.
18 Si tratta di una conchiglia di mollusco fossile, Citata già da Plinio e descritta successivamente anche da Vallisnieri.
bJani Planci Ariminensis etc., De conchis minus notis, Tab. I.
19 Pseudonimo di Giovanni Bianchi, naturalista e botanico, studioso di anatomia e teratologia (1693-1775). Nella sua opera De conchis minus notis (Venezia, 1739), è descritto anche il Corno d’Ammone, di cui Bianchi enumera e distingue numerose specie diverse e avanza un’ipotesi sulla loro origine di corpi marini.
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quella conca politalamia20 che chiamasi Corno d’Ammone, non rimanendo alcun dubbio che la sola differenza fra le maritime del naturalista riminese e le montano-fossili, consista unicamente nella varietà della mole.
quella conca politalamia che chiamasi Corno d’Ammone, non rimanendo alcun dubbio che la sola differenza fra le maritime del naturalista riminese e le montano-fossili, consista unicamente nella varietà della mole.
 
§. 3. Dell’isola d’Uglian
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Il vestito degli abitanti dell’isole soggette a Zara è molto dissimile da quello de’ contadini nostrali21 e s’accosta più a quello che usano i coltivatori delle terre del continente vicino. Le donne però, e le fanciulle in particolare, hanno una sorte di vesti e d’ornamenti assai vagamente ricamati. Io ho creduto che meritassero l’applicazione del mio disegnatore (Tav.I).
 
 
20 Conchiglia a più concamerazioni.
21 Locali, del nostro paese.
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§. 4. Impasti marmorei che la compongono
 
Varie spezie di pietra formano l’ossatura d’Uglian e degl’isolotti vicini, ma si possono ridurre a quattro principali. Il più basso strato è marmoreo, con un’infinità di corpi estranei ceratomorfi, cristallizzati in ispato bianco, calcareo. Questi corpi non sono tutti simili di mole e di configurazione, quantunque siano tutti fistolosi e recurvi. Alcuni esemplari ch’io ne conservo corrispondono alla descrizione dell’helmintholitus nautili orthocerae del signor Linneoa23.Linneo Il
 
22 Tra le fonti maggiori e più frequentemente citate da Fortis è la Naturalis historia di Plinio I sec. d.C.) «opera amplissima ed erudita e varia quanto la natura» secondo la definizione di Plinio il Giovane. Questa monumentale enciclopedia scientifica compendia nei suoi trentasette libri l’intero sapere dell’antichità: sei libri sono dedicati alla cosmografia, geografia e antropologia (II-VII), quattro alla zoologia (VIII-XI), altri alla botanica (XII-XIX), alla medicina (XX-XXXII) e alla mineralogia (XXXIII-XXXVII).
b Plin,, lib. IX, cap. 56.
a Linn, Syst. Nat., t. III, p.162, ed. 1768, «Habitat sine dubio in abysso maris Balthici, deperditus; petrificatus nobis frequentissimus in marmore stratario etc.».
23 Altro punto di riferimento costante di Fortis è il Systema naturae di Linneo (1707- 1778). La classificazione sistematica dei tre regni della natura e la riforma della nomenclatura che vi viene introdotta consentono, infatti, la collocazione ordinata di tutte le specie note e di quelle che si
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celeberrimo naturalista crede senza dubbio abitante de’ fondi del Baltico l’originale marino di questa petrificazione (d’onde non fu però mai tratto vivo né in istato testaceo), condotto a ciò dal trovarla frequentissima nel marmo da lui detto stratario, cioè usato ne’ pavimenti delle strade di molte provincie a quel mare aggiacenti. Sembra che il dottissimo uomo siasi dimenticato, questa volta, delle tante spezie di piante esotiche, de’ corpi marini stranieri e delle ossa d’animali terrestri che si trovano lapidefatte nelle viscere de’ monti d’Europa, né mai si rinvengono in istato naturale pe’ nostri mari. Io posso impegnarmi che nell’Adriatico non vivono gli ortocerati, i quali pur sono petrificati nel marmo dell’isole e del continente di Dalmazia; i pescatori di coralli ne hanno scopato il fondo quanto basta per farci sapere che non vi abitano spezie di viventi assai propagate, delle quali ci restino tuttora incogniti gl’individui. Ho fatto disegnare vari pezzi di questo marmo, ne’ quali veggonsi prominenti gli ortocerati, e descriverò più minutamente i corpi presivi dentro, quando farò parola dell’isoletta su di cui ho raccolto i più interessanti. Voi troverete certamente, Eccellentissimo Signore, che fa una strana sensazione al galantuomo quell’asseverante sine dubio, non appoggiato a veruna prova di fatto e contraddetto poi immediatamente da quel deperditus; e quindi non vorrete condannarmi se mi sono emancipato fino al dir contro un celeberrimo uomo, riverito meritamente dalla maggior parte dei coltivatori della scienza naturale.
 
La seconda spezie di marmo d’Uglian, analoga alla pietra ostreifera24d’Ulbo, contiene gran quantità d’ostraciti conservatissime e riconoscibili, ma non separabili agevolmente dalla troppo resistente pasta lapidosa in cui stanno prese; si lasciano particolarmente vedere sulla superfizie di que’ pezzi di marmo che sono stati lungamente esposti all’azione dell’aria e delle pioggie. Tanto quel primo ch’è composto d’ortocerati, quanto questo ostreifero sono di color bianco, ma
La seconda spezie di marmo d’Uglian, analoga alla pietra ostreifera d’Ulbo, contiene gran quantità d’ostraciti conservatissime e riconoscibili, ma non separabili agevolmente dalla troppo resistente pasta lapidosa in cui stanno prese; si lasciano particolarmente vedere sulla superfizie di que’ pezzi di marmo che sono stati lungamente esposti all’azione dell’aria e delle pioggie. Tanto quel primo ch’è composto d’ortocerati, quanto questo ostreifero sono di color bianco, ma
vanno scoprendo, offrendo al naturalista un modello e uno schema ideale cui rapportarsi e confrontare le proprie osservazioni.
 
24 Dal latino ostreiferus, ricco di ostriche, si riferisce alla pietra ostracitica precedentemente descritta.
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rigidi e intrattabili dallo scalpello di chi volesse trarne lavoro men che grossolano. Sarebbe più atto a prender forma sotto l’artefice il terzo, ch’è assai compatto e ritiene bensì corpi marini, ma così infranti, o così compenetrati dalla sostanza lapidosa, che non si ponno per ignun modo sconnettere. Le sommità de’ colli d’Uglian sono di marmo calcareo, compatto, di parti impalpabili, istriano, dalmatino, o apennino che dir si voglia, da che l’impasto medesimo descritto più addietro come dominante in Ulbo, a vicenda colle breccie domina su le altezze di tutte queste provincie e in Italia. Il Donati, descrivendolo meno esattamente che il Linneo, lo chiama marmo opaco, di grana uniforme, di colore biancastro, ed ha creduto che fosse il traguriense degli Antichi, non so quanto bene apponendosib. Ho per la prima volta veduto su di quest’isola una curiosa spezie di kermes (se pur questo nome può convenirgli, e piuttosto non si dee formarne un nuovo genere)25sul fico e, non risovvenendomi d’aver letto alcuno autore che l’abbia descritta, né d’averne veduto la figura ne’ libri classici d’insettologia, l’ho voluta far disegnare. Questo insetto è differentissimo dal faux-puceron del signor di Reaumur, che non si è mai lasciato trovare da me su’ fichi della Dalmazia. Osservi l’Eccellenza Vostra il ramoscello di fico (Tav. I, Fig. A) su di cui stanno attaccate le galle, se pur con tal nome ponno esser senza improprietà chiamate queste crisalidi singolarissime. Egli non è de’ più carichi; v’ha tale albero, i di cui rami minori tutti ne sono così eccessivamente coperti che rassomigliano a un vaiuoloso pieno di pustole accavallate. La Figura B mostra la galla alcun poco ingrandita; ella è per certo uno de’ più eleganti lavori che l’insettologia possa offerire a’ curiosi. La sua cupola è striata, ma così minuta- mente, che non perde punto della levigatezza se sia guardata coll’occhio nudo. La sommità di essa è costantemente adornata da una papilla che ricorda quelle nelle quali stanno incastrate le spine degli echini. La parte inferiore intorno alla base è circondata
b Donati, Saggio d’istoria naturale dell’Adriatico, p, VIII.
 
25 Specie di cocciniglia dalla quale, una volta essicata, si estrae una sostanza nota sin dall’antichità per tingere stoffe, e utilizzata anche nella composizione del liquore Alchermes (cfr. la descrizione di Vallisnieri, Lessico, ad vocem)
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da otto papille, quasi del tutto simili alla superiore, che corrispondono ad altrettanti fermagli, co’ quali si è da prima attaccato per disotto l’animaluzzo alla corteccia. La grandezza di queste galle è inuguale: ve n’hanno di quelle che restano meschine e malfatte, per essersi fermato l’animaletto, dal quale tranno l’origine, troppo vicino a due o tre altri che hanno succhiato il latte della corteccia, col mezzo del quale anch’elleno dovean crescere. Non è da mettere in dubbio che dall’umore lattiginoso del fico, elaborato pe’ vasi del trasformato animaluzzo, non prenda giornaliero accrescimento la galla; da che, se per qualche disavventura esteriore ella venga guasta alcun poco, si riproduce la parte offesa facilmente, come usano di fare i gusci delle lumache. Questa particolarità sola par che possa bastare a costituirne un nuovo generea. La sostanza del di lei guscio è un cerume, o lacca, molto analoga al latte seccato dell’albero su di cui nasce e propagasi. Non si potevano distinguere le parti dell’animale, allora quando io l’osservai pella prima volta sull’isola d’Uglian e ne feci raccogliere buona quantità; in tutte le galle ch’io volli esaminare allora, trovai una sostanza mocciosa, di colore sanguigno, che tingeva di bellissimo rosso le dita. Ne portai a Zara nel mese di giugno un gran cartoccio; e da una picciola porzione di esso ritrassi per la via semplice della decozione un cerume di color incarnato; l’acqua in cui bollirono le galle restò tinta di rosso-giallognolo.
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È celebre il lago di Vrana in Dalmazia, e noto anche a Venezia piucché gli altri di quelle contrade, non meno pella sua considerabile estensione di dodici miglia che pel progetto immaginato da privata persona, e messo anche in parte ad esecuzione, di scavarvi un emissario, per cui se ne scaricassero le acque al mare. Il Zendrini49, di chiara memoria, fu consultato sulla possibilità di sì fatto scolo: ma non fu chiamato sopra luogo. Egli si fidò delle livellazioni fattevi all’ingrosso da non so quale ingegnere, e non vide altra difficoltà che quella della spesa, trattandosi di tagliare a considerabile profondità un ismo di vivo marmo pella estensione di mezzo miglio. La spesa non ispaventò il progettante che, favorito dalla clemenza del Senato Eccellentissimo, intraprese e sbozzò per così dire il suo lavoro, scavando coll’aiuto della polvere da cannone un canale, che giace abbandonato e imperfetto da molti anni, e restando così dovrà in breve tempo pella rovina delle sue sponde otturarsi. Il fine dell’emissario era di metter a secco e in istato coltivabile 1400 campi50occupati dall’acque, supposte stagnanti e capaci di sfogo.
 
Io fui a vedere questo sconsigliato lavoro, per la prima volta in compagnia di mylord Hervey51, vescovo di Derry, e sul fatto conobbimo che ogni spesa e fatica vi era stata gettata, e il progetto fisicamente impossibile ed illusorio. Basta esaminare il lido del mare per chiarirsi di questa verità. Le acque del lago, facendosi luogo pelle vie sotterranee delle divisioni degli strati marmorei, portansi da per se sole al mare nel tempo della bassa marea; elleno sono impedite dal far questo viaggio quando l’acqua crescé o è a un livello medio. Da questa sola
 
49 Collaboratore del «Giornale de’ letterati» e autore di varie opere scientifiche (1679-1747), dagli studi di idraulica gli vennero onori, fama e importanti commissioni pubbliche a Ravenna e a Venezia, dove progettò anche i «murazzi», dighe sul modello di quelle olandesi.
 
50 Misura agraria veneta: nella provincia di Venezia un campo corrisponde a 36, 566 are.
51 Compagno di Fortis nell’escursione scientifica del 1771. I due naturalisti viaggiarono insieme da Pola a Rovigno, dove furono raggiunti dalla notizia dell’eruzione del Vesuvio che li spinse a recarsi a Napoli e a tornare, successivamente, in Dalmazia. A Frederick Hervey è dedicata la penultima lettera del Viaggio in Dalmazia.
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semplicissima osservazione apparisce che qualunque emissario si scavasse, le acque di quel lago non anderanno mai a scaricarsi in mare con rilevante e permanente utilità de’ terreni inondati, e che al più potranno, se fosse loro aperta una vera e sussistente communicazione, esser rese soggette ad un’alternazione più sensibile di flusso e riflusso.
Egli è certo che ‘l dimostrato alzamento progressivo del livello del nostro mare (sia poi ch’egli venga dalla depressione delle terre, come alcuni vorrebbero, sia che si debba da qualche altra più universale ragione ripetere, com’io pendo a credere) renderà sempre più scarso lo scolo di quelle acque, e per conseguenza farà crescere d’anno in anno insensibilmente, e sensibilmente poi di cinquanta in cinquant’anni il cratere del lago. Raccogliesi dalle pregevoli schede del Gliubavaz che sino all’anno 1630 il lago della Vrana era dolcissimo; questo scrittore sembra accusare il tremuoto dell’apertura de’ meati sotterranei, pe’ quali la communicazione delle acque e il passaggio de’ pesci si è fatto strada. Ma chiunque ha esteso le proprie osservazioni pelle spiaggie e pelle coste dell’Adriatico, e dopo lunghi esami conosce l’indole degli strati marmorei della Dalmazia maritima, vede manifestamente che non da una causa accidentale qual sarebbe stato uno scuotimento di tremuoto, ma sibbene da una durevole e progressiva, qual è l’alzamento di livello del mare, si ha da riconoscere questo cangiamento; e dee ridere dell’impresa tentata.
Non è già ch’io creda impossibile il ritrarre parecchie centinaia di campi dall’inondazione, che ogni giorno più s’avanza impaludando le terre migliori presso a quel lago, e rendendo insalubre l’aria del vicinato. Al contrario, io sono convinto che v’è un ripiego, come sono convinto che non è, né può essere quello dell’emissario. Eccolo in poche parole. Si rimettano sull’antico cammino le acque provenienti da Smocovich, che probabilmente portavansi al mare; s’incassino, per quanto riesce possibile, quelle che scendono dal ramo di colline che fiancheggia la villa di Vrana, come a dire il rivo di Scorobich, e la ben più abbondante acqua della Biba colla medesima direzione; si facciano vagare nel pendio della valle
 
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l’acque di Ricina e di Pécchina, che si scaricano adesso senza veruna legge nel lago, e vi portano ad accrescere un male ciò che serpeggiando pe’ campi soggetti all’arsura produrrebbe mille beni; si cavino alvei profondi all’acqua che indispensabilmente dee lasciarsi andare pel paludo; s’alzino gli opportuni argini per mettere al coperto le terre basse; presieda a questi lavori qualche uomo onesto ed intelligente. Ecco il vero ed unico modo di trar profitto dalle adesso allagate pianure, di dar una direzione all’acque stagnanti, di render forse non del tutto inutile lo scavato emissario, che presentemente al più potrebbe servire a dar uno sfogo alquanto men tardo alle strabocchevoli piovane.
L’uso vantaggioso che potrebbe farsi del lago della Vrana, in qualunque stato egli si voglia considerare, è quello della pescagione. Le anguille che in grandissima quantità vi si trovano, e che sono abbandonate alla poco ben intesa arte de’ pescatori di que’ contorni, somministrerebbono una somma non indifferente di barili al nostro commercio interno, se colà fossero con inteffigenza imprigionate ne’ lavorieria, e a’ tempi convenienti prese per metterle in sale o marinarle. Non sarebbe mal consiglio il mandarvi qualche barca di pescatori usi a prendere le anguille delle nostre valli del Dogado, onde gli abitanti di Pacostiane e de’ vicini luoghi imparassero un miglior metodo. La Nazione spende annualmente molto denaro per provvedersi di anguille salate e marinate a Comacchio; perché non facciamo piuttosto valere i laghi e le valli dello Stato? Uno degli oggetti principali delle mie osservazioni lungo i lidi della Dalmazia è stata la pesca, in quanto il sistemarla, o l’introdurla di nuovo là dove non è praticata a dovere, può e dev’essere una fonte di risparmio e di provento nazionale. Il lago della Vrana è il più esteso di tutti quelli che vi si trovano poco lontani dal mare, e quindi il più degno d’essere particolarmente contemplato dalle Magistrature che presiedono al nostro commercio, e alla coltivazione ed aumento de’ prodotti nostrali.
a Lavorieri è voce tecnica pescatoria delle nostre lagune e delle valli di Comacchio, che significa que’ ricinti di canne maestrevolmente piantati ne’ quali, internate che sieno, le anguille non trovano più il modo d’uscirne. Quest’arte de’ lavorreri, ch’era propria delle lagune dell’Adriatico, è stata introdotta con buon esito anche nelle paludi pontine presso al Mediterraneo.
 
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Gli abitanti di questo paese, e in generale tutti i Morlacchi, hanno un’avversione mortale per le rane. Ne’ tempi di carestia (che sono pur troppo frequenti in Dalmazia, sì per la male intesa agricoltura, che per grandissimi difetti di costituzione) niun vero Morlacco mangerebbe rane a costo di lasciarsi morire di fame. Il curato di Vrana, interrogato del perché in vece di cattivo cacio non mangiava delle rane, s’accese quasi di sdegno. Ei ci disse che un briccone Morlacco ne pigliava per portarle al mercato di Zara, ma che non era ancora giunto a mangiarne; ed aggiunse che costui era l’obbrobrio della villa.
 
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Ne’ boschi poco lontani da Ceragne ho trovato in gran quantità nuclei di turbiniti presi nel marmo comune dalmatino e, poco lunge da questi, la medesima spezie d’ortocerati che a Uglian. Così trovansi pietre lenticolari sotto la rocca di Bencovaz e a un casale poco lontano detto Podluk, dove sono tanto perfettamente ben conservate, come quelle di Monteviale nel Vicentino e di S. Giovanni Ilarione, che sono le più belle ch’io conosca. Fra la rocca di Bencovaz e ‘l bosco di Cucagl stendesi un ramo di colline composte di argilla marina piombata, e in alcun luogo di terra marnosa bianchissima. Nelle aperture scavatevi dalle acque de’ torrenti, io ho raccolto de’ corpi marini erranti, alcuni de’ quali sono nuclei spatosi di turbiniti petrefatti lucidissimi di color giallo dorato. In generale la pietra, di cui sono formate le colline di questi contorni, rassomiglia di molto alle pietre dolci de’ nostri colli italiani. Le vaste campagne e le valli amenissime che formano i distretti di queste ville, sono poco popolate e peggio coltivate, in qualche luogo la scarsezza della popolazione fa torto alla purità dell’aria, portando per necessaria conseguenza l’abbandono totale de’ rivoli montani a se stessi, e l’impaludamento delle acque.
 
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Non è già insalubre l’aria di Perussich, castello eretto dalla nobilissima famiglia de’ conti di Possedaria, per servire di ricovero ne’ tempi di diffidenza ai Morlacchi delle vicine campagne. Egli è situato su d’una collina petrosa, e domina un gran tratto di bel paese dall’alto. Le poche petrificazioni che vi si discernono somigliano alle sopraccennate.
 
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52 Umanista tedesco 1469-1547), fondatore della scienza dell’antichità romana in Germania, il suo nome è legato ad un itinerario, che ricevette nel 1507 in eredità da C. Certes che l’aveva scoperto. Copia medievale di un’antica carta di età imperiale, del tipo delle carte itinerarie militari, disegnata su pergamena, la Tavola peutingeriana traccia i percorsi stradali, le stazioni di sosta e indica le distanze tra i luoghi. Presenta le deformazioni caratteristiche di questi disegni, privilegiando una direttrice (nel caso quella ovest-est), a sfavore di quanto si trovi o conduca in altre direzioni, considerate di scarso interesse e quindi appiattito sullo sfondo. Peutinger ricopiò dall’originale una piccola parte mentre l’intera Tavola venne dimenticata, per essere riscoperta nel 1397 e pubblicata l’anno successivo dal geografo Ortelio.
53 Il grande astronomo non è qui ricordato per l’Almagesto bensì per la sua Introduzione geografica, sintesi monumentale delle conoscenze geografiche dell’alto medioevo. Elaborata su itinerari e autori precedenti, l’Introduzione iniziò ad essere diffusa in Italia dal ‘500 in poi, in coincidenza con le pregevoli edizioni a stampa curate dai più illustri geografi del tempo.
 
b Plin., Nat Hist, lib. III, c. 21.
 
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Gliubavaz in un suo manoscritto De situ illyrici ha preso questo sbaglio, ma non si può fargliene colpa imperocché, mentr’egli scriveva, le rovine d’Asseria erano ancora soggette ai Turchi e quindi non potevano essere agevolmente osservate.
Le vestigia che ci rimangono delle mura di Asseria (Tav. II) lo provano assai. Il loro circuito resta tuttora assai precisamente riconoscibile sopra terra, e gira 3600 piedi romani. La forma dello spazio cui racchiudono è d’un poligono bislungo; la materia onde sono state fabbricate è marmo comune di Dalmazia: ma non del colle su di cui sorgono, che somministra solamente pietra dolce. I pezzi di questo marmo sono stati tutti lavorati a bugno, e le mura ne furono rivestite dentro e fuori; qualche pietra arriva a essere lunga dieci piedi, e tutte sono di notabile dimensione. La grossezza di queste fortificazioni è communemente d’otto piedi: ma all’estremità più angusta, che cala verso il pié della collina, sono grosse undici piedi; in qualche sito veggonsi tuttora alte da terra dodici braccia. In un sol luogo vi si trova manifesto indizio della porta ch’è coperta dalle rovine; io ho messo i piedi sulla curvatura dell’arco, e v’ha più d’uno de’ vicini abitatori che si ricorda d’averla veduta a netto. Potrebb’esservi stata un’altra porta nel sito d’onde adesso si entra. Oltre le porte, due altre aperture veggonvisi praticate. Ma l’ultima non è così ben conservata come l’altra. Non saprei congetturare a qual uso servissero, non sembrando che possano essere state porte, né feritoie, né scoli d’acqua. Merita molta osservazione il mezzo bastione che conviene benissimo alla moderna architettura militare. Molte più cose vi vedrebbe degne d’attenzione particolare un professore di quest’arte nobilissima. L’antiquario, o anche il semplice amatore delle belle arti e della buona erudizione non potrà a meno, quando si trovi a Podgraje, di non desiderare che qualche mano potente quicquid sub terra est in apricum proferat54. A questo desiderio lo moverà particolarmente il vedere che, dalla rovina di quella città in poi, niuno vi frugò profondamente per voglia di trame qualche cosa. Quelle mura cingono un deposito d’antichità sfasciatevisi dentro, chi sa per qua! cagione, forse per un
 
54 Orazio, Epistole, I, VI, 24.
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tremuoto, o per una improvvisa inondazione di barbari, ch’è peggior cosa. La porta sotterrata, l’altezza considerabile delle mura, veduta dal di fuori in più d’un luogo, qualche grossa muraglia che fra gli arbusti si vede ancora a pel di terra, sono tutte circostanze che deggiono far isperare moltissimo sulla quantità di monumenti pregevoli, che di là si trarrebbono. La magnificenza del fabbricato delle mura, e la frequenza de’ pezzi lavorati, o de’ fini marmi che trovansi sparsi pe’ campi contigui, fanno ben conoscere che in quel paese allignava buon gusto e grandezza. In mezzo alla spianata che copre i residui d’Asseria, trovasi isolata la chiesa parrocchiale della soggetta picciola villa, che fu fabbricata de’ rottami antichi cavati sul luogo. Vi si vedono iscrizioni maltrattate e pezzi di cornicioni grandiosi.
 
I Morlacchi abitatori di Podgraje non facevano per lo passato ingiuria alle lapide che incontravano, arando, o scavando per qualche loro bisogno la terra. Ma da poi che furono obbligati a strascinare, senza mercede, alcune colonne sepolcrali sino al mare co’ loro buoi, eglino hanno giurato inimicizia con tutte le iscrizioni, e le guastano appena disotterrate a colpi di piccone, o per lo meno le risotterrano più profondamente di prima. Avrebbe il torto per certo chiunque volesse accusarli di barbarie per questo. Il modo di renderli ricercatori e conservatori degli antichi monumenti sarebbe il far loro sperare un premio delle scoperte e delle fatiche. Io ho trovato per un raro accidente nella casa del morlacco Juréka una sepolcrale, che ho anche acquistata con pochi quattrini, e unitamente ad alcune altre porterò in Italia. Cattivandosi la fiducia e amicizia de’ Morlacchi, si potrebbe ragionevolmente sperare di trarne delle indicazioni utili. Io mi lunsigherei di saperlo fare, conoscendo l’indole della nazione, e quindi ho lasciato Podgraje portando meco una gran voglia di ritornarvi, munito delle facoltà necessarie per farvi scavare.
 
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Coslovaz è un povero luogo, come gli altri casali di queste contrade; ma i boschi del suo distretto abbondano di frassini che danno manna in abbondanza, quando siano opportunamente incisi. I Morlacchi non sanno farvi incisioni e non conoscevano questo prodotto. Due anni sono, andò a far colà delle sperienze persona che ne avea ottenuta la permissione dal Governo. Queste non corrisposero tosto alle speranze concepite, perché l’aria erasi rinfrescata alcun poco. Lo sperimentatore perdette la pazienza e abbandonò i frassini tagliati. Al ritornare del caldo, eglino diedero esorbitante quantità di manna, cui avidamente presero a mangiare i Morlacchi, trovandola dolce. Parecchi di essi furono quasi ridotti a morte dall’uscite violente: la manna restò dopo pochi giorni abbandonata ai porci e ai polli d’India55.
 
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Ostrovizza, che alcuni vogliono corrisponda ad Arauzona, altri allo Stlupi degli Antichi, e che probabilmente non ha punto che fare coll’una né coll’altro, è stato altre volte luogo di qualche riguardo, e dalla Serenissima Repubblica comperato del 1410 con qualche altro pezzo di terreno, per cinque mila ducati. La sua rocca, che sorgeva su d’un sasso tagliato a piombo d’intorno, dovea essere creduta a ragione inespugnabile, prima che l’uso dell’artiglieria si fosse propagato. Fu presa da Solimano del 124 ma poi ripassò sotto il felice dominio veneto. Adesso non ha più verun vestigio di fortificazione, ed è un masso ignudo e isolato.
Io ho fatto disegnare una picciola prospettiva de’ colli d’Ostrovizza (Tav. III), perché le loro sommità mostrano assai manifestamente la duplicità delle divisioni degli strati, e ponno disingannare coloro che fossero troppo corrivi a credere nate con essi, per legge di stratificazione, le apparenze di separazioni perpendicolari. Le linee divisorie che tagliano quasi sempre ad angoli retti le orizzontali, sono
 
55 Tacchini.
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altrettante prove visibili del lavoro dell’acque distruggitrici. Elleno si fanno strada giù per le spalle del colle scavandovi rivoletti, i quali nascondono in qualche sito le divisioni orizzontali.
Gli strati che formano la sommità del masso su di cui siedeva l’antico castello, sono di ghiaia fluitata56 di varie paste e colori; ve n’ha di quarzosa, chi sa mai da quali montagne minerali venuta, e ve n’ha che porta corpi marini lapidefatti. Lo strato è di pietra analoga a quella di Nanto nel Vicentino, ch’è il moilon de’ Francesi. Vagando pell’aspra collina e pe’ suoi contorni ho raccolto varie nummali erranti, sì della spezie volgare che ha le spire nascoste, come di quella men ovvia che le ha di fuori, un bellissimo esemplare di camite, ed ho veduto fra gli altri petrefatti molte coralloidi fistulose e degli echiniti africani maltrattati. Vi si ritrovano anche vari univalvi turbinati, coclee particolarmente, e buccini lisci, con qualche raro esemplare di una spezie esotica di fungite, orbicolare, complanata, anzi talvolta depressa nel centro, che agli orli non ha un terzo di linea di grossezza, né suoi eccedere un pollice nel diametro. Sui colle, dov’era anticamente il castello, trovansi degl’indizi di strato d’un bellissimo marmo tigrato, composto di piccioli frantumi marini e di sabbia vulcanica prodotta dai fluitamento di lave triturate.
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56 Termine che indica ciò che viene levigato, smussato dalla corrente Da «fluitare», trasportare con acqua o con fluidi.
57 Più noto per essere l’autore della Storia dei meravigliosi viaggi del Barone di Münchhausen RE. Raspe (1737-94) fu traduttore di opere scientifiche, divulgatore e studioso di scienze: scrisse anche uno Specimen historiae naturalis globi terraquei (1763), in cui, tra l’altro, sostenne la teoria di Robert Hook sull’origine dei monti.
 
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da questa opinione l’aver io in più luoghi della Dalmazia osservato, che anche i solidi massi di marmo calcareo volgare hanno delle crepature e fenditure in ogni senso, a un di presso come quelle de’ marmi sopraccennati, spiegate assai ingegnosamente dal dottissimo monsignor Passeri58 nella sua Storia naturale de’ fossili del Pesarese, opera degnissima di ricomparire alla luce, e d’essere, più di quello ch’è, conosciuta oltremonti. Non è già ch’io non sia disposto a concedere moltissimo coi signor Raspe (e coi soprallodato amico mio monsignor Passeri, che sembra parziale59del sistema hoockiano) alla forza de’ tremuoti e de’ fuochi vulcanici che li cagionano, allorquando si tratta di spiegare le gran fenditure, sfaldamenti, rovesciamenti delle montagne: ma gli esempi dei disequilibramenti e rovine nate dai lunghi lavori sotterranei delle acque, sono tanto frequenti nelle provincie ch’io nelle picciole mie peregrinazioni ho visitato, sì in Italia come oltremare, che non ardirei di preferir loro cagioni più infrequenti e rimote.
Sotto la villa d’Ostrovizza è una palude, il di cui fondo di torba colpito da un fulmine alcuni anni sono arse lungamente, non dando verun segno d’incendio se non in tempo di notte. Spento che fu il fuoco sotterraneo, restò tutto nero e sterile il terreno sovrappostovi, e appunto la di lui negrezza, destando la mia curiosità, mi fece rilevare questa cosa. Mi accorderà l’Eccellenza Vostra, che fra le origini de’ monti vulcanici abbiamo un diritto di mettere anche i fulmini? Se desse un fulmine in qualche monte di zolfo, non farebb’egli probabilmente più romore, non avrebbe più riflessibili conseguenze di quello ch’ebbe nelle umide torbiere d’Ostrovizza? Mi risovviene a questo proposito d’aver letto in qualche luogo, che il signor Linneo viaggiando pell’isola d’Oeland vide ardere a Moe Kelby alcuni monticelli di minerai, dal quale era già stato cavato l’allume; l’incendio accidentale avea incominciato due anni prima ch’egli passasse di quel luogo: il
58 Rappresentante di quel filone dell’erudizione che va sotto il nome di «etruscheria», Giovanni Battista Passeri (1694-1780) fu antiquario del Granduca di Toscana e vicario di Pesaro. Oltre a numerose altre opere erudite scrisse la Storia fossile del Pesarese 1752), più volte ricordata da Fortis.
59«Sostenitore» delle teorie di E. Hook, scienziato inglese che elaborò una teoria della deformazione elastica dei corpi naturali, da cui la legge «ut tensio sic vis» che tuttora porta il suo nome.
 
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vulcanetto avea molti caratteri della solfatara di Pozzuoli. Kempfero60 ha notato ne’ suoi viaggi del Giappone un vulcano nato dall’accensione casuale d’una minera di carbon fossile.
Un boschetto, non molto lontano da questo sito, produce nelle stagioni d’autunno e di primavera una enorme spezie di fungo, che rassomiglia perfettamente ai carrarese sopra di cui l’ottimo amico nostro signor Marsili, professore di botanica nell’Università di Padova61, ci ha dato un aureo opuscoloa. Le vipere amano quel sito, detto da’ soldati il Picchetto, e vi moltiplicano più che in qualunque altro luogo vicino. I frassini danno anche in que’ contorni abbondante manna, e di ottima qualità: ma i Morlacchi nemmeno colà hanno imparato la semplice operazione che si richiede per farla stillare dai rami.
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Per esaminare davvicino lungo il loro corso le acque che impaludano sotto Ostrovizza, io andai a traverso delle sue campagne sino alle fonti della Bribirschiza, considerabile rivo che scaturisce dalle radici dell’etto colle, su di cui veggonsi ancora le rovine di Bribir, antica residenza d’una possente famiglia di Bani62 della Dalmazia che fé gran figura nel XIV secolo. Esaminando il corso della Bribirschiza, trovai molte petrificazioni di grandi ostraciti erranti e guaste dalla fluitazione, e più presso alla fonte parecchie spezie di turbiniti e bivalvi semicalcinati, conservatissimi e lucenti nell’argilla petrosa azzurra. Niuna delle
60 Engelbert Kaempfer, medico e naturalista tedesco (1651-1716), viaggiò in Europa e soprattutto in Oriente, fu in Giappone dal 1690 e a questo paese dedicò alcune sue opere: nelle Amoenitates exoticae (1712) sono descritte, tra l’altro, tutte le piante giapponesi. Postumo uscì The History of Japan and Siam, tradotto poi in francese col titolo di Histoire naturelle, civile et écclésiastique de l’Empire du Japon (1729).
 
61 Letterato e naturalista veneto (1724-94), dedicatario di una delle lettere, la settima, del Viaggio in Dalmazia.
a Fungi carrariensis historia, Pat. 1766, in 4°.
62 Dal serbocroato ban, governatore di Provincia, titolo diffuso in Ungheria e in alcuni paesi slavi.
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varietà ch’io vi osservai, frugando e rompendo pietre col mio martello orittologico, vive nei mari nostri. I gran massi di breccia, che sembrano in qualche luogo rovinati dalla sommità lungo le sponde del rivo, sono di formazione submarina, e fra ghiaia e ghiaia tengono imprigionate molte varietà di testacei calcinati, riconoscibili ancora malgrado il loro stiacciamento, alcuni de’ quali mi parvero simili ai nostrali.
Nel ritornarmene al lido del mare, attraversai l’ampia e bella pianura di Morpolazza, fiancheggiata da poco abitate colline, e divisa per lungo da un canale destinato a scaricare le acque de’ rivoli e delle paludi vicine. Il fondo di questa campagna quasi del tutto incolta è di terra marnosa, al formare la quale sembra debbano essere concorsi i gusci de’ piccioli turbiniti, che in infinito numero vi sono d’anno in anno abbandonati dalle acque che, partendo dai colli superiori a Sopot, sogliono allargarla. Il canale di Morpolazza mette capo nel lago di Scardona, dopo trenta buone miglia di corso, col nome di Goducchia. Probabilmente nel sito dov’ora è la chiesa di s. Pietro di Morpolazza, appié delle colline, sorgeva qualche stabilimento romano. Vi restano tuttora degli avanzi di pietre lavorate, e qualche frammento d’iscrizione. L’Arausa dell’Itinerario d’Antonino63 non dovrebb’essere stata molto lontana da questo luogo. E andato molto lungi dal vero chi ha creduto che Arausa, o Arauzona, sia Zuonigrad, piazza ch’è ben trenta miglia più addentro e lontana dalla strada cui fece quell’Imperatore.
 
I corpi marini fannosi vedere fra Ostrovizza e Morpolazza su’ colli di Stancovzi, e fra Morpolazza e il mare per tutte le falde di Bagnevaz e di Radassinovaz.
 
Il Contado di Zara avea molti altri stabilimenti romani, de’ quali, quantunque sieno periti anche i nomi, troverebbonsi però de’ vestigi coll’aiuto della carta peutingeriana. D’alcuni rimangono i nomi tuttora come sono Carin e Nadin, sorti
63 Costituisce l’unico esempio di itinerario pervenutoci che sia strutturato a libro. Appartiene a quel genere di carte a carattere prevalentemente pratico, approntate nell’antichità per mercanti, viaggiatori e militari, intese a indicare i sistemi viari, le stazioni di sosta e le distanze intercorrenti. Probabilmente di età imperiale, comprende il nord Africa, l’Italia e le isole, e le province dell’Impero fino alla Britannia.
 
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dalle rovine di Corinium e Nedinum; io non posso per ora renderle conto di ciò che vi si osservi, non avendoli visitati. Mi fu però detto che presso Carin si veggano tuttora de’ vestigi d’un anfiteatro.
 
Ho voluto con una stucchevole precisione parlare a Vostra Eccellenza di tutti i luoghi dove ho trovato lapidefatti d’origine marina, e di tutte le pianure, o valli coltivabili ed amene, che ho veduto cavalcando per una picciola porzione del Contado di Zara, perché la non si lasciasse ingannare da quanto fu scritto poco veracemente degli eterni dirupia della Dalmazia, della continuità di non so qual masso marmoreo che la compone, e della rarità, o difficile riconoscimento de’ corpi marini lapidefatti. Non si può negare che sian aspre ed orride alcune delle montagne di questo regno; ma fa d’uopo anche aggiungere che v’hanno ampi distretti, ne’ quali montagne non s’incontrano giammai, e che fra le montagne ancora v’hanno delle valli amenissime e feconde. Il mio concittadino Donati ha nel suo Saggio dato anche qualche poco favorevole cenno del carattere dei popoli, che abitano l’interno di questa provincia; ed egli ebbe il torto, alla pagina iii, prendendo a dirci che il timore, cagionato dalla barbarie de’ popoli e dal pericolo delle ricerche trattenne lo Spon e il Wheler64 dall’internarsi nella Dalmazia mediterranea. Chiunque sa che questi due viaggiatori erano diretti pel Levante, imbarcati su d’una nave pubblica veneziana, e per conseguenza costretti a dilungarsi poco dal lido, allorché afferravano qualche porto, non vorrà crederlo. Lo Spon trovò poi tanta e sì generosa ospitalità ne’ luoghi maritimi, e segnatamente a Spalatro, e fu sì contento dell’onestà e ragionevolezza delle guide morlacche, dalle quali fu accompagnato in qualche sua picciola escursione a cavallo, che non avrebbe mai sognato di temere la barbarie de’ popoli fra terra. E facile il consultare lo Spon medesimo nel primo tomo del viaggio, dove rende conto della sua gita a Clissa. Se Vostra Eccellenza avrà la pazienza di leggere un
 
a Donati, Saggio di storia nat., p. VII, IX.
 
64 Viaggiatore e botanico inglese (1650-1724), cultore d’arte e di antiquaria, collezionò iscrizioni, disegni e monete; fu compagno di Spon nel viaggio in Dalmazia e Asia Minore (1674-1676), scrisse un Journey into Greece (Londra 1689), più volte pubblicato anche in traduzione francese.
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giorno o l’altro i dettagli di quanto io ho personalmente su di questo proposito veduto cavalcando fra’ Morlacchi, non vorrà più credere che questa nazione sia barbara a segno di render pericoloso il viaggiare pelle contrade ch’ell’abita.
 
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{{Centrato|
A SUA ECCELLENZA
MYLORD
GIOVANNI STUART,
CONTE DI BUTE, ec. ec. ec}}.65
 
De’ costumi de’ Morlacchi
 
Voi avrete più volte, nel tempo del soggiorno vostro fra noi, udito parlare de’ Morlacchi come d’una razza d’uomini feroce, irragionevole, priva d’umanità, capace d’ogni misfatto; e forse v’avrà sembrato ch’io sia stato assai più temerario di quello si deggia permettere ad un naturalista, scegliendo il paese da essi abitato per oggetto delle mie peregrinazioni. Gli abitanti delle città litorali della Dalmazia raccontano un gran numero de’ fatti crudeli di questi popoli che, dall’avidità dei rubare condotti, si portarono sovente agli eccessi più atroci d’uccisioni, d’incendi, di violenze: ma que’ fatti (de’ quali non permette si dubiti la riconosciuta onestà di chi li riferisce) o sono d’antica data, o, se ne sono pur accaduti recentemente alcuni, i caratteri che portano, deggiono piuttosto fargli ascrivere alla corruzione di pochi individui, che all’universale cattiva indole nella nazione. Sarà pur troppo vero che dopo le ultime guerre coi Turco, i Morlacchi, abituati all’impunità dell’omicidio e del predare, avranno dato qualche esempio di crudeltà sanguinaria e di rapine violente: ma quali sono mai state le truppe che, ritornate dalla guerra e licenziate dall’esercizio dell’armi contro il nemico del proprio Sovrano, non abbiano, sciogliendosi, popolato i boschi e le vie pubbliche d’assassini e di malviventi? Io mi credo di dovere alla nazione, da cui sono stato così ben accolto e umanamente trattato, un’amplissima apologia, scrivendo ciò
65 Uomo politico inglese (1713-1792), ministro di Giorgio in, cultore di scienze (compose una descrizione di piante indigene della Gran Bretagna, Botanical Tables), mecenate di artisti e letterati, fu il finanziatore della spedizione a Cherso e Osero del 1770, alla quale parteciparono, oltre a Fortis, lo storico inglese John Symonds e il botanico napoletano Domenico Cirillo. Nel 1771 Fortis pubblicò il resoconto del viaggio nel Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero, anch’esso dedicato a John Stuart.
 
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che personalmente delle sue inclinazioni e costumi ho veduto; e tanto più volentieri secondo questa mia disposizione, quanto meno sospetto d’interessatezza posso incontrare, non dovendo io probabilmente mai più ritornare ne’ luoghi della Morlacchia, dove sono già stato. I viaggiatori si studiano pell’ordinario di magnificare i pericoli a’ quali sono andati incontro, e i disagi sofferti ne’ rimoti paesi. Io mi trovo ben lontano da sì fatte ciarlatanerie e Voi rileverete, Nobilissimo Signore, dal dettaglio che sono per darvi delle maniere e usanze de’ Morlacchi, quanto sicuramente e con quanto leggieri disagi io abbia viaggiato pelle loro contrade, e quanto ragionevole fiducia mi animerebbe a proseguirvi le mie ricerche, se lo mi permettessero le circostanze.
 
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I Morlacchi generalmente chiamansi Vlassi nell’idioma loro, nome nazionale di cui, per quanto io ho potuto finora sapere, non si trova vestigio alcuno ne’ documenti della Dalmazia anteriori al XIII secolo, e che significa autorevoli o
b Non è da mettere in dubbio l’esistenza della lingua slavonica nell’illirico sin da’ tempi della Repubblica Romana. I nomi delle città, de’ fiumi, de’ monti, delle persone, de’ popoli di quelle contrade conservatici dagli scrittori greci e latini sono manifestamente slavonici. Promona, Alvona, Senia, Jadera, Rataneum. Silupi. Uscana, Bilazora, Zagora, Tristoms, Ciabrus, Ochra, Carpatius, Pleuratus, Agron, Teuca, Dardani, Triballi, Grabaei, Pirustae e tante altre voci, che s’incontrano presso gli storici e i geografi antichi, la provano bastevolmente. Vi si potrebbono aggiungere in molto maggior numero le voci di radice slavonica, che si leggono nelle lapide scolpite pel paese illirico sotto i primi imperatori.
 
66 Astronomo e matematico padovano (1555-1617), tenace avversario di Galileo e del sistema copernicano, più importante risulta per la sua opera di cartografo e geografo: oltre ad un Atlante d’italia, curò l’edizione a stampa del 1597 della Geografia di Tolomeo, arricchendola di 37 tavole nuove che costituiscono l’Atlante moderno.
c Haiduk significa originariamente capo di partito, e talvolta (come in Transilvania) capo di famiglia. In Dalmazia si prende per distintivo dell’uomo facinoroso, bandito, e messo a far l’assassino di strada.
 
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potenti. La denominazione di Moro-Vlassi, e corrottamente Morlacchi, di cui servonsi gli abitanti delle città per indicarli, potrebbe forse additarci l’origine loro, che a gran giornate dalle spiaggie del Mar Nero vennero a invadere questi regni lontani. Io crederei possibile (non impegnandomi però a sostenere questa mia congettura sino all’ultimo sangue) che la denominazine di Moro-Vlassi avesse significato da principio i potenti, o conquistatori venuti dal mare, che chiamasi mope in tutti i dialetti della lingua slavonica. Non merita quasi alcun riflesso l’etimologia del nome Morlacchi immaginata dal celebre istorico della Dalmazia Giovanni Lucio, e goffamente ricopiata dal suo compilatore Freschot67, perché tirata come il cuoio de’ calzolai. Egli pretese che Moro-Vlassi, o Moro-Vlaki significhi neri-Latini; quantunque in buona lingua illirica la voce moro non corrisponda a nero, e i Morlacchi nostri sieno forse più bianchi degl’Italiani. Per appoggiare poi meno infelicemente la seconda parte di questa etimologia, trovando che la radice comune de’ nomi nazionali Vlassi, o Vlaki, e Valacchi, è la voce vlàh indicante potenza, autorità e nobiltà, ne concluse primieramente che gli abitanti della Valacchia, e i nostri Vlassi doveano essere in tutto e per tutto la stessa cosa. Ma i Valacchi parlano una lingua che latineggia moltissimo, e interrogati del perché, rispondono d’essere originariamente romani; dunque anche i nostri, quantunque non latineggino tanto, sono romani. Questi Vlassi provenienti da colonie latine furono poi domati dagli Slavi; e quindi il nome singolare di vlàh, e il plurale vlassi, appresso gli Slavi divenne obbrobrioso e servile, per modo che fu esteso anche agli uomini d’infima condizione fra gli Slavi medesimi. A tutte queste miserie si risponde anche più del bisogno col dire: che i Morlacchi nostri chiamansi Vlassi, cioè nobili o potenti, per la medesima ragione che il corpo della nazione chiamasi degli Slavi, vale a dire de’ gloriosi; che la voce vlàh non ha punto a fare col latino, e se trovasi essere la radice del nome Valacchi,
potenti. La denominazione di Moro-Vlassi, e corrottamente Morlacchi, di cui servonsi gli abitanti delle città per indicarli, potrebbe forse additarci l’origine loro, che a gran giornate dalle spiaggie del Mar Nero vennero a invadere questi regni lontani. Io crederei possibile (non impegnandomi però a sostenere questa mia congettura sino all’ultimo sangue) che la denominazine di Moro-Vlassi avesse significato da principio i potenti, o conquistatori venuti dal mare, che chiamasi mope in tutti i dialetti della lingua slavonica. Non merita quasi alcun riflesso l’etimologia del nome Morlacchi immaginata dal celebre istorico della Dalmazia Giovanni Lucio, e goffamente ricopiata dal suo compilatore Freschot, perché tirata come il cuoio de’ calzolai. Egli pretese che Moro-Vlassi, o Moro-Vlaki significhi neri-Latini; quantunque in buona lingua illirica la voce moro non corrisponda a nero, e i Morlacchi nostri sieno forse più bianchi degl’Italiani. Per appoggiare poi meno infelicemente la seconda parte di questa etimologia, trovando che la radice comune de’ nomi nazionali Vlassi, o Vlaki, e Valacchi, è la voce vlàh indicante potenza, autorità e nobiltà, ne concluse primieramente che gli abitanti della Valacchia, e i nostri Vlassi doveano essere in tutto e per tutto la stessa cosa. Ma i Valacchi parlano una lingua che latineggia moltissimo, e interrogati del perché, rispondono d’essere originariamente romani; dunque anche i nostri, quantunque non latineggino tanto, sono romani. Questi Vlassi provenienti da colonie latine furono poi domati dagli Slavi; e quindi il nome singolare di vlàh, e il plurale vlassi, appresso gli Slavi divenne obbrobrioso e servile, per modo che fu esteso anche agli uomini d’infima condizione fra gli Slavi medesimi. A tutte queste miserie si risponde anche più del bisogno col dire: che i Morlacchi nostri chiamansi Vlassi, cioè nobili o potenti, per la medesima ragione che il corpo della nazione chiamasi degli Slavi, vale a dire de’ gloriosi; che la voce vlàh non ha punto a fare col latino, e se trovasi essere la radice del nome Valacchi,
67 Storico francese, nato nella seconda metà del Seicento è qui ricordato per il suo trattato sulla Dalmazia, Serbia e Croazia, Memone storiche e geografiche della Dalmazia, pubblicato a Bologna nel 1687 e successivamente anche a Napoli e a Venezia.
 
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ella lo è, perché ad onta delle colonie piantatevi da Traiano, il pieno della popolazione dacica, come ognun sa, era di gente che avea lingua slavonica, non meno che i popoli sopravvenutivi ne’ secoli posteriori; che gli Slavi conquistatori avessero dovuto dare o lasciare un nome ai popoli vinti, non avrebbero mai dato o lasciato loro quello che significa nobiltà e potenza, come necessariamente intendevano, essendo voce pura e pretta slavonica; e che finalmente il Lucio aveva del mal umore, quando si è affaticato per avvilire i Morlacchi anche nell’etimologia del nome che portano. Non si può negar che molte voci d’origine latina si trovino nel dialetto degl’Illirici abitanti fra terra, come in grazia d’esempio salbun, plavo, slap, vino, capa, rossa, teplo, zlip, sparta, skrinya, lug, che significano sabbia, biondo, caduta d’acqua, vino, berretto, rugiada, tepido, cieco, sporta, cassa, bosco; e derivano manifestamente da sabulum, flavus, lapsus, vinum, caput, tepidus, lippus, sporta, scrinium, lucus. Ma da queste e da moltissime altre, delle quali agevolmente potrebbesi tessere un lungo catalogo, credo non si possa con buona ragione concludere che i Morlacchi de’ tempi nostri discendano in dritta linea da’ Romani trapiantati in Dalmazia. Egli è un difetto pur troppo comune agli scrittori d’origini questo trar conseguenze universali da piccioli e particolarissimi dati, dipendenti pell’ordinario da circostanze eventuali e passaggiere. Io sono persuasissimo che l’esame delle lingue possa condurre a discoprire le origini delle nazioni che le parlano: ma sono poi anche convinto che vi si richiede un criterio acutissimo per distinguere le voci avventizie dalle primitive, onde preservarsi da sbagli madornali. La lingua illirica, ampiamente diffusa dall’Adriatico all’Oceano, ha una grandissima quantità di radici simili a quelle della greca, e se ne trovano persino fra le voci numeriche, alle quali non si può contendere l’indigenità; molti vocaboli slavonici sono affatto greci, come spugga, trapeza, catrida, portati senz’alcuna alterazione osservabile da σπόγγος, τράπεζα, καθέδρα. La frequenza de’ grecismi e l’analogia dell’alfabeto, non mi condurrebbero però a francamente asserire che da’ Greci ristretti a un angusto tratto di paese sia discesa la vastissima nazione slavonica, o piuttosto che da
 
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essa ne’ più rimoti secoli sia stata invasa e popolata la Grecia. Lunghissimi e laboriosi studi si richiederebbono per mettere in lume sì fatte anticaglie, e forse ogni studio vi sarebbe gettato. V’ebbe un dotto vostro nazionale mylord68, che scrisse della somiglianza della lingua britannica coll’illiricaa; né per vero dire senza qualche ragione. Le voci stina, meso, med, biskup, brate, sestra, sin, sunze, smull, mliko, snigh, voda, greb, corrispondono molto a quelle che voi usate per nominare pietra, carne, miele, vescovo, fratello, sorella, figlio, sole, bicchiere, latte, neve, acqua, sepoltura. Sarebbe da esaminare, se come si trovano queste voci nella lingua germanica, passata co’ Sassoni in codesta vostra isola nobilissima, così si trovassero anche in qualche dialetto degli antichi Celti settentrionali. Io vorrei però, in ogni caso, esser cautissimo prima di decidere, e forse non lo sarei, sino a tanto che non vedessi delle rassomiglianze palpabili d’un corpo di lingua coll’altro. La frequenza di voci esotiche mescolatesi nella nostra italiana (quantunque non si possa ragionevolmente dire che gl’Italiani discendono da nazioni straniere) prova che, indipendentemente dalle origini d’un popolo, ponno trovarsi molte parole nel di lui idioma comuni ad un altro. Per ommettere gli arabismi, i grecismi, i germanismi, i francesismi della lingua italiana raccolti già dal Muratori69 e da altri, non ha ella un grandissimo numero anche di slavonismi? Abbaiare viene da oblajati, svaligiare da svlaçiti, barare da vanti e varati, tartagliare da tarlati, ammazzare da maç, spada, e dal derivato maçati; ricco da snichian, fortunato, tazza da cassa, coppa da kuppa, danza da tanza, bisato, sinonimo d’anguilla, dal verbo bixati, fuggire; bravo da pravo, avverbio d’approvazione; bniga, è pretta voce illirica equivalente all’idea che rappresenta in italiano; maschera, stravizzo, strale, sbignare e irmumerabii voci del nostro dialetto veneziano, come a dire, baza, bazariotto, bùdela, bore, musìna, polegàna,
essa ne’ più rimoti secoli sia stata invasa e popolata la Grecia. Lunghissimi e laboriosi studi si richiederebbono per mettere in lume sì fatte anticaglie, e forse ogni studio vi sarebbe gettato. V’ebbe un dotto vostro nazionale mylord68, che scrisse della somiglianza della lingua britannica coll’illiricaa; né per vero dire senza qualche ragione. Le voci stina, meso, med, biskup, brate, sestra, sin, sunze, smull, mliko, snigh, voda, greb, corrispondono molto a quelle che voi usate per nominare pietra, carne, miele, vescovo, fratello, sorella, figlio, sole, bicchiere, latte, neve, acqua, sepoltura. Sarebbe da esaminare, se come si trovano queste voci nella lingua germanica, passata co’ Sassoni in codesta vostra isola nobilissima, così si trovassero anche in qualche dialetto degli antichi Celti settentrionali. Io vorrei però, in ogni caso, esser cautissimo prima di decidere, e forse non lo sarei, sino a tanto che non vedessi delle rassomiglianze palpabili d’un corpo di lingua coll’altro. La frequenza di voci esotiche mescolatesi nella nostra italiana (quantunque non si possa ragionevolmente dire che gl’Italiani discendono da nazioni straniere) prova che, indipendentemente dalle origini d’un popolo, ponno trovarsi molte parole nel di lui idioma comuni ad un altro. Per ommettere gli arabismi, i grecismi, i germanismi, i francesismi della lingua italiana raccolti già dal Muratori e da altri, non ha ella un grandissimo numero anche di slavonismi? Abbaiare viene da oblajati, svaligiare da svlaçiti, barare da vanti e varati, tartagliare da tarlati, ammazzare da maç, spada, e dal derivato maçati; ricco da snichian, fortunato, tazza da cassa, coppa da kuppa, danza da tanza, bisato, sinonimo d’anguilla, dal verbo bixati, fuggire; bravo da pravo, avverbio d’approvazione; bniga, è pretta voce illirica equivalente all’idea che rappresenta in italiano; maschera, stravizzo, strale, sbignare e irmumerabii voci del nostro dialetto veneziano, come a dire, baza, bazariotto, bùdela, bore, musìna, polegàna,
68 Si tratta di Edward Brerewood, matematico e antiquario inglese, autore di opere di argomento filosofico e religioso, in gran parte pubblicate postume. Fortis qui cita lo Scrutinium religionum et linguarum, tradotto nel 1650 dall’edizione originale inglese del 1614.
 
a Brerevood, De scrut. Relig.
69 Dell’infaticabile erudito, storico e letterato (1672-1750), sono qui ricordate, le Antiquitates italicae medii aevi (1738-43), e più precisamente la XXXIII dissertazione De origine sive etymologia italicarum vocum.
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vera, zòccolo, paltàn, smalzo, sonoci venute dall’illirico, donde certamente non sembra sinora provato che siamo venuti noi70.
vera, zòccolo, paltàn, smalzo, sonoci venute dall’illirico, donde certamente non sembra sinora provato che siamo venuti noi.
 
§. 3. Origine diversa de’ Morlacchi dagli abitanti del litorale, dall’isole e anche fra loro
 
La poco buon’amicizia che hanno gli abitatori delle città maritime, veri discendenti delle colonie romane, pe’ Morlacchi, e il profondo disprezzo che ad essi e agl’isolani vicini rendono questi per contraccambio, sono anche forse indizi d’antica ruggine fra le due razze. Il Morlacco piegasi dinanzi al gentiluomo delle città, e all’avvocato di cui ha bisogno, ma non Io ama; egli confonde poi nella classe dei bòdoli tutto il resto della gente con cui non ha interessi, e a questo nome di bodoloaattacca un’idea di strapazzo. E da ricordar a questo proposito il soldato morlacco, di cui rimane tuttora la memoria nello spedale di Padova, ove morì. Il religioso destinato a confortano in quegli ultimi momenti, non sapendo il valore della parola, incominciò la sua esortazione «Coraggio, signor Bodolo!». «Frate, interruppe il moribondo, non mi dir Bodolo, o perdinci mi danno!». La differenza grandissima del dialetto, del vestire, dell’indole, delle usanze, sembra provare chiaramente, che gli abitanti delle contrade maritime della Dalmazia non hanno la medesima origine che i transalpini, o che la deggiono riconoscere da tempi assai differenti, e da circostanze alteranti persino il carattere nazionale. Sono anche diverse fra loro le varie popolazioni della Morlacchia, in conseguenza delle diverse contrade d’onde vennero, e delle moltiplici mescolanze cui dovettero
 
70 Il corrispondente italiano delle voci è, secondo il Boerio: bagarella, cosa da nulla per «budela», salvadanaio per «musina», ghiera, cerchio o anello per «vera», calzatura in legno per «zoccolo», melma per «paltan», burro per «smalzo», uomo flemmatico e piacevolo per «polegano», «Bore», non registrata nel Boerio, è presente nel Vocabolario friulano di G.A. Pirona, con il significato di brace accesa, o anche di rocchio di faggio da ardere.
a Col nome di Bòdoli sono più particolarmente disegnati gli scogliani del Canal di Zara, e gli abitanti delle isole maggiori di quel mare.
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sofferire ne’ cangiamenti replicati di patria, ne’ tempi d’invasioni e di guerre, le loro famiglie. Gli abitanti del Kotar sono generalmente biondi, cogli occhi cilestri, la faccia bislarga, il naso stiacciato; caratteri che convengono anche assai comunemente ai Morlacchi delle pianure di Scign e di Knin; quelli di Duare e di Vergoraz71 sono di pel castagno, di faccia lunga, di colore olivastro, di bella statura. L’indole delle due varietà è anch’essa varia. I Morlacchi del Kotar sono pella maggior parte di maniere dolci, rispettosi, docili; quelli di Vergoraz aspri, alteri, audaci, intraprendenti. Eglino deggiono alla loro situazione fra’ monti inaccessibili e sterili, dove spesso nasce il bisogno e si ricovera l’impunità, una fortissima inclinazione al rubare. Forse scorre ancora nelle loro vene l’antico sangue de’ Varali, degli Ardiei e degli Autariati, che fra quelle montagne furono confinati dai Romanib. Pell’ordinario le ruberie de’ Vergorzani cadono a peso de’ Turchi: in caso però di necessità dicesi che non la risparmino nemmeno a’ Cristiani. Fra i tratti ingegnosi e arditi di bindoleria, ch’io ho sentito raccontare d’uno di coloro, il seguente m’è sembrato caratteristico. Trovavasi il mariuolo al mercato, un poveruomo, che gli si avvenne dappresso, avea comperato una caldaia cui s’era posta in terra coi fardello suo da un lato. Mentr’egli parlava d’affari per le lunghe con un suo conoscente, il vergorzano tolse la caldaia di terra e la si pose sul capo, senza cangiar situazione. Rivoltosi l’altro dopo d’aver finito il colloquio, nè vedendo più la caldaia al suo luogo, chiese appunto a colui che aveala in capo se avesse veduto alcuno a portarla via. Questi rispose francamente: «io non ho badato a questo, fratello; ma tu dovevi portela sul capo, come ho fatto io, che la non ti sarebbe stata tolta». Ad onta però di queste malizie, che si dicono frequenti fra’ Vergorzani, il forastiere può viaggiare sicuro pel loro paese, ed esservi bene scortato ed ospitalmente accolto.
sofferire ne’ cangiamenti replicati di patria, ne’ tempi d’invasioni e di guerre, le loro famiglie. Gli abitanti del Kotar sono generalmente biondi, cogli occhi cilestri, la faccia bislarga, il naso stiacciato; caratteri che convengono anche assai comunemente ai Morlacchi delle pianure di Scign e di Knin; quelli di Duare e di Vergoraz sono di pel castagno, di faccia lunga, di colore olivastro, di bella statura. L’indole delle due varietà è anch’essa varia. I Morlacchi del Kotar sono pella maggior parte di maniere dolci, rispettosi, docili; quelli di Vergoraz aspri, alteri, audaci, intraprendenti. Eglino deggiono alla loro situazione fra’ monti inaccessibili e sterili, dove spesso nasce il bisogno e si ricovera l’impunità, una fortissima inclinazione al rubare. Forse scorre ancora nelle loro vene l’antico sangue de’ Varali, degli Ardiei e degli Autariati, che fra quelle montagne furono confinati dai Romanib. Pell’ordinario le ruberie de’ Vergorzani cadono a peso de’ Turchi: in caso però di necessità dicesi che non la risparmino nemmeno a’ Cristiani. Fra i tratti ingegnosi e arditi di bindoleria, ch’io ho sentito raccontare d’uno di coloro, il seguente m’è sembrato caratteristico. Trovavasi il mariuolo al mercato, un poveruomo, che gli si avvenne dappresso, avea comperato una caldaia cui s’era posta in terra coi fardello suo da un lato. Mentr’egli parlava d’affari per le lunghe con un suo conoscente, il vergorzano tolse la caldaia di terra e la si pose sul capo, senza cangiar situazione. Rivoltosi l’altro dopo d’aver finito il colloquio, nè vedendo più la caldaia al suo luogo, chiese appunto a colui che aveala in capo se avesse veduto alcuno a portarla via. Questi rispose francamente: «io non ho badato a questo, fratello; ma tu dovevi portela sul capo, come ho fatto io, che la non ti sarebbe stata tolta». Ad onta però di queste malizie, che si dicono frequenti fra’ Vergorzani, il forastiere può viaggiare sicuro pel loro paese, ed esservi bene scortato ed ospitalmente accolto.
71 Le attuali denominazioni sono rispettivamente: Sinj, Knin, Zadvarje e Vrgorac.
 
 
b «Al fiume Narone sono vicini gli Ardiei, Daorizi, e Plerei... Le meno rimote età chiamarono gli Ardiei Varali. I Romani li cacciarono fra terra allontanandoli dal mare, perché mettevano ogni cosa a ferro e a fuoco rubando; e li costrinsero a coltivare la terra. Il paese loro è per verità aspro, sterile e degno d’abitarori selvaggi; quindi n’avvenne che la nazione s’è quasi spenta». Strab., lib. VII.
 
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Il pericolo maggiore che potrebbe temervisi, viene dalla quantità di Haiduci che suoi ritirarsi pelle grotte e pe’ boschi dell’aspre e rovinose montagne di quel confine. Non bisogna però farsene paura oltremodo. Il ripiego, per viaggiare con sicurezza ne’ luoghi alpestri, si è appunto quello di prendere per iscorta una coppia di que’ galantuomini, che non sono capaci d’un tradimento. Nè dee far ribrezzo il sapere che sono banditi: imperocchè mettendo le mani nelle cause della loro misera situazione, si trovano pell’ordinario casi più atti a destar compassione che diffidenza. Guai agli abitanti delle città maritime della Dalmazia, se i pur troppo esorbitantemente moltiplicati Haiduci avessero un fondo di carattere tristo! Eglino menano una vita da lupi errando fra precipizi dirupati e inaccessibili, aggrappandosi di sasso in sasso per iscoprir da lunge le insidie, agitati da un continuo sospetto, esposti all’intemperie delle stagioni, privi sovente del necessario alimento, costretti ad arrischiar la vita per procurarselo, e languenti nelle più orrende e disabitate sinuosità delle caverne. Non sarebbe da meravigliarsi, se frequentemente si udissero tratti d’atrocità da questi uomini insalvatichiti, e irritati dal sentimento sempre presente d’una sì miserabile situazione; è ben da stupire che, lungi dall’intraprendere cos’alcuna contro le persone alle quali credono dovere le proprie calamità, essi rispettino pell’ordinario la tranquillità de’ luoghi abitati, e sieno scorte fedeli de’ viandanti. Le loro rapine hanno per oggetto gli animali bovini e le pecore, cui traggono nelle loro spelonche, onde avervi di che nudrirsi e far provvisione di cuoio per le scarpe. Sembra un tratto di barbara indiscretezza l’uccidere il bue d’un poveruomo, per servirsi solamente d’una picciola porzione della carne e della pelle; ed io ho sentito più volte chi ne faceva amare e giuste doglianze contro gli Haiduci. Non mi passerebbe mai pel capo di voler far loro l’apologia su di questo: ma non si dee però lasciar di riflettere che le opanche, o scarpe, sono per quegl’infelici un affare
 
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di prima necessità, da che trovansi condannati a trarre una vita errante per luoghi asprissimi, ignudi d’erba e di terra, coperti di punte acutissime di duri macigni, rese vieppiù scabrose e taglienti pell’ingiune dell’aria e de’ secoli. Accade talvolta che la fame cacci delle partite di Haiduci alle capanne de’ pastori, dove chiedano violentemente da mangiare, e se ne tolgano a forza, se peravventura venisse loro negato. In sì fatti casi, chi fa resistenza ha il torto per ogni titolo; il coraggio di questi uomini risoluti è proporzionato al bisogno e alla vita selvaggia cui menano. Quattro Haiduci non temono d’assalire una caravana di quindici e venti Turchi; e la sogliono spogliare e metter in fuga. Se accade talvolta che un Haiduco sia preso da’ Panduri72, questi non lo legano già, come i birri usano di fare fra noi; ma sciogliendogli la funicella de’ calzoni glieli fanno cadere su le calcagna, onde non possa fuggire, e dia del mostaccio in terra se tentasse di farlo, E cosa molto umana l’aver trovato un ripiego per assicurarsi d’un uomo, senza legano all’uso delle bestie più vili. La maggior parte degli Haiduci si credono uomini di garbo, quando si sono macchiati di sangue turchesco. Uno spirito di religione mal intesa, combinato colla naturale e coll’acquisita ferocia, porta costoro violentemente a molestare i confinanti, senza verun riguardo alle conseguenze. In questo hanno colpa sovente i loro ecclesiastici, pieni d’impeto nazionale e di pregiudizi, che mantengono, e non di rado riscaldano il fermento dell’odio contro i Turchi, come contro a figliuoli del demonio, invece d’invitar i buoni cristiani a pregar la clemenza divina pella loro conversione.
 
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Il Morlacco, che abita lontano dalle sponde del mare e da’ luoghi presidiati, è generalmente parlando un uomo morale assai diverso da noi. La sincerità, fiducia ed onestà di queste buone genti, sì nelle azioni giornaliere della vita come ne’
 
72 Truppe leggere, non appartenenti a milizie regolari, al servizio dell’Austria dalla metà del ‘600 alla prima metà del ‘700, destinate alla difesa delle frontiere con la Turchia.
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contratti, degenera qualche volta in soverchia dabbenaggine e semplicità. Gl’Italiani che commerciano in Dalmazia, e gli abitanti medesimi del litorale ne abusano pur troppo spesso; quindi è che la fiducia de’ Morlacchi è scemata di molto, e va scemando ogni giorno più, per dar luogo al sospetto e alla diffidenza. Le replicate sperienze ch’essi hanno avuto degl’Italiani, han fatto passare in proverbio fra loro la nostra malafede. Eglino dicono per somma ingiuria egualmente «passia-viro» e «lanzmanzka-viro», fede di cane e fede d’Italiano. Questa mala prevenzione contro di noi potrebb’essere incomoda al viaggiatore poco conosciuto: ma non lo è quasi punto. Ad onta di essa, il Morlacco nato ospitale e generoso apre la sua povera capanna al forastiere: si dà tutto il moto per ben servirlo, non richiedendo mai, e spesso ricusando ostinatamente qualunque ricognizione. A me più d’una volta è accaduto perla Morlacchia di ricevere il pranzo da un uomo, che non m’avea veduto giammai, né poteva ragionevolmente pensare di dovermi rivedere in avvenire mai più. Io non mi dimenticherò per sin che avrò vita dell’accoglienza e trattamento cordiale fattomi dal vojvoda73 Pervan a Coccorich. Il mio solo merito era d’essere amico d’una famiglia d’amici suoi. Egli mandò monture e scorte a incontrarmi, mi ricolmò di tutte le squisitezze dell’ospitalità nazionale ne’ pochi giorni ch’io mi trattenni in que’ luoghi, mi fece scortare dal proprio figlio e dalle sue genti sino alle campagne di Narenta, che sono una buona giornata lontane dalle di lui case, e mi premunì di vettovaglie abbondantemente, senza che potessi spendere in tutto questo un quattrino. Dopo che fui partito dall’albergo di sì buon ospite, egli e tutta la sua famiglia mi seguitò cogli occhi, né si ritirò in casa che nel momento in cui mi perdette di vista. Questo affettuoso congedo mi destò nell’anima una commozione, ch’io non avea mai provata sino allora, né spero di provare sovente viaggiando in Italia. Io portai meco il ritratto di questo generoso uomo, sì principalmente per aver il piacere di rivederlo anche di lontano, malgrado al mare e alle montagne che ci separano, come anche per poter dare un’idea del lusso della nazione negli abiti de’ suoi capi
 
73 Nelle lingue slave meridionali significa signore, capo: è titolo di principi e governanti.
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(Tav. IV). Egli permise ancora che fosse disegnato il vestito d’una fanciulla sua nipote, molto differente da quello delle Morlacche del Kotar e degli altri territori ch’io aveva scorso. Basta trattare con umanità i Morlacchi per ottener da loro tutte le possibili cortesie, e farseli cordialmente amici. L’ospitalità è fra loro tanto virtù del benestante, quanto del povero; se il ricco v’appresta un agnello, o un castrato arrosto, il povero vi apparecchia un pollo d’India, del latte, un favo di miele o tal altra cosa. Questa generosità non è solamente pci forastiere; ella stendesi su tutti quelli che ponno averne dibisogno. Quando un Morlacco viandante va ad alloggiare in casa del suo ospite, o parente, la fanciulla maggiore della famiglia, o sposa novella, se v’è, lo riceve baciandolo allo scendere di cavallo, o all’entrare nell’albergo. Il viaggiatore d’altra nazione non gode facilmente di questi favori donneschi; al contrario, cileno gli si nascondono se sono giovani, e stanno in riserva. Forse più d’una violazione delle leggi ospitali le ha rese guardinghe, o il geloso costume de’ Turchi vicini si estese in parte fra’ nostri Morlacchi. Sinché v’è di che mangiare in casa de’ benestanti d’un villaggio, che oggimai sono ridotti a un picciolo numero, non mancano i poveri vicini del necessario sostentamento. Quindi è che niun Morlacco si avvilisce sino al chiedere l’elemosina a chi passa pci suo paese. In tutti i viaggi ch’io ho fatto pelle contrade abitate da questa nazione, non m’è accaduto giammai d’incontrare chi m’abbia chiesto un quattrino. Io sì, che ho avuto bisogno sovente di chieder qualche cosa a’ pastori meschini, ma però liberali di quanto aveano; e molto più frequentemente, attraversando le loro campagne nel bollore della state, ho incontrato poveri mietitori che venivano spontaneamente ad offerirmi, con una cordialità che m’inteneriva, l’otre da bere e porzione delle loro rustiche provvigioni. La domestica economia non è intesa punto dai Morlacchi comunemente; eglino somigliano in questo particolare agli Ottentotti, e danno fondo in una settimana a quanto dovrebbe loro bastare per molti mesi, solo che si presenti un’occasione di far galloria74. Il tempo delle nozze, il dì solenne del Santo protettore della famiglia,
(Tav. IV). Egli permise ancora che fosse disegnato il vestito d’una fanciulla sua nipote, molto differente da quello delle Morlacche del Kotar e degli altri territori ch’io aveva scorso. Basta trattare con umanità i Morlacchi per ottener da loro tutte le possibili cortesie, e farseli cordialmente amici. L’ospitalità è fra loro tanto virtù del benestante, quanto del povero; se il ricco v’appresta un agnello, o un castrato arrosto, il povero vi apparecchia un pollo d’India, del latte, un favo di miele o tal altra cosa. Questa generosità non è solamente pci forastiere; ella stendesi su tutti quelli che ponno averne dibisogno. Quando un Morlacco viandante va ad alloggiare in casa del suo ospite, o parente, la fanciulla maggiore della famiglia, o sposa novella, se v’è, lo riceve baciandolo allo scendere di cavallo, o all’entrare nell’albergo. Il viaggiatore d’altra nazione non gode facilmente di questi favori donneschi; al contrario, cileno gli si nascondono se sono giovani, e stanno in riserva. Forse più d’una violazione delle leggi ospitali le ha rese guardinghe, o il geloso costume de’ Turchi vicini si estese in parte fra’ nostri Morlacchi. Sinché v’è di che mangiare in casa de’ benestanti d’un villaggio, che oggimai sono ridotti a un picciolo numero, non mancano i poveri vicini del necessario sostentamento. Quindi è che niun Morlacco si avvilisce sino al chiedere l’elemosina a chi passa pci suo paese. In tutti i viaggi ch’io ho fatto pelle contrade abitate da questa nazione, non m’è accaduto giammai d’incontrare chi m’abbia chiesto un quattrino. Io sì, che ho avuto bisogno sovente di chieder qualche cosa a’ pastori meschini, ma però liberali di quanto aveano; e molto più frequentemente, attraversando le loro campagne nel bollore della state, ho incontrato poveri mietitori che venivano spontaneamente ad offerirmi, con una cordialità che m’inteneriva, l’otre da bere e porzione delle loro rustiche provvigioni. La domestica economia non è intesa punto dai Morlacchi comunemente; eglino somigliano in questo particolare agli Ottentotti, e danno fondo in una settimana a quanto dovrebbe loro bastare per molti mesi, solo che si presenti un’occasione di far galloria. Il tempo delle nozze, il dì solenne del Santo protettore della famiglia,
74 Espressione corrispondente alla più diffusa «fare baldoria».
 
 
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l’arrivo di parenti o d’amici, e qualunque altro motivo d’allegria fa che si beva e si mangi intemperantemente quanto v’è in casa. E poi economo, e castiga se stesso il Morlacco nell’usar delle cose destinate a ripararsi dall’intemperie delle stagioni; di modo che se ha il berretto nuovo, e la pioggia lo sorprenda, egli se lo trae, amando piuttosto di ricevere sul capo scoperto e nudo la procella, che di guastare troppo presto il berretto. Così si trae le scarpe, se incontra fango, quando le non sieno più che sdruscite. La puntualità del Morlacco è pell’ordinario esattissima, quando l’impossibilità non vi si opponga insuperabilmente. Se accade che non possa restituire al prescritto tempo il denaro preso ad imprestito, egli viene con qualche presentuccio dal suo creditore a chiedere un termine più lungo. Avviene benespesso che di termine in termine, e di regalo in regalo, egli paghi senza riflettervi il doppio di ciò che dovrebbe.
 
§. 6. Amicizie e inimicizie
 
L’amicizia, così soggetta anche per minimi motivi a cangiamento fra noi, è costantissima fra i Morlacchi. Eglino ne hanno fatto quasi un punto di religione, e questo sacro vincolo stringesi appié degli altari. Il rituale slavonico ha una particolare benedizione per congiugnere solennemente due amici, o due amiche, alla presenza di tutto il popolo. Io mi sono trovato presente all’unione di due fanciulle, che si facevano posestre nella chiesa di Perussich. La contentezza che trapelava dagli occhi loro, dopo d’avere stretto quel sacro legame, provava agli astanti quanta delicatezza di sentimento possa allignare nell’anime non formate o, per meglio dire, non corrotte dalla società, che noi chiamiamo colta. Gli amici così solennemente uniti chiamansi pobratimi, le donne posestrime, ch’è quanto a dire mezzo-fratelli e mezzo-sorelle. Le amicizie fra uomo e donna non si stringono a’ giorni nostri con tanta solennità: ma forse in più antiche e innocenti età s’è usato di farloafarlo a.
 
a Dozivgliega viila Posestrima
 
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Da queste amicizie e semi-fratellanze consacrate de’ Morlacchi, e delle altre nazioni ch’ebbero la medesima origine, sembra sieno derivati i fratelli giurati, che fra la nostra plebaglia sono frequenti, e in molti luoghi ancora fuori d’Italia. La differenza che passa fra questi nostri e i pobratimi di Morlacchia, si è non solamente che vi manca la ceremonia del rituale, ma ancora che nelle contrade slavoniche ogni sorte d’uomini per vantaggio reciproco, nelle nostre i facinorosi e prepotenti sogliono più che gli altri congiungersi, e affratellarsi per danno e inquietudine delle popolazioni. I doveri degli amici così legati sono d’assistersi l’un l’altro in qualunque bisogno o pericolo, il vendicare i torti fatti al compagno, ec. Eglino usano di spingere l’entusiasmo dell’amicizia sino all’azzardare, e perdere la vita del pobratime, né ditali sagrifizi sono rari gli esempi, quantunque non si faccia tanto romore per questi amici selvaggi come pegli antichi Piladi. Se accadesse che fra’ pobratimi si mettesse la discordia, tutto il paese vicino ne parlerebbe come d’una novità scandalosa; ed accade pur qualche volta a’ dì nostri, con afflizione de’ vecchiardi Morlacchi, i quali danno la colpa alla mescolanza cogl’Italiani della depravazione de’ loro compatriotti. Ti vino e i liquori forti, de’ quali la nazione incomincia a far abuso quotidiano sul nostro esempio, vi produce discordie e tragedie, come fra noi.
Se le amicizie de’ Morlacchi non peranche corrotti sono forti e sacre, le inimicizie loro sono poi per lo più inestinguibili, o almeno molto difficilmente si spengono. Esse passano di padre in figlio e le madri non mancano di ricordare a’ teneri fanciulli il dovere che avranno di vendicar il genitore, se per mala ventura
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S’Velebite vissoke planine:
Zloga siio, kragliu Radoslave;
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Ecco sopra di te dodici armati».
Canz. di Radosi.
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fosse stato ucciso, e di mostrar loro sovente la camicia insanguinata, o le armi del morto. La vendetta è così immedesimata nell’anima di questa nazione, che tutti i missionari del mondo non basterebbono a sradicarnela. Il Morlacco è naturalmente portato a far del bene a’ suoi simili; egli è gratissimo anche a’ più tenui benefizi: ma guai a chi gli fa del male, o lo ingiuria! vendetta e giustizia corrispondono fra quella gente alla medesima idea, ch’è veramente la primitiva; e corre un trito proverbio, alla di cui autorità purtroppo deferiscono: «Kò ne se osveti, onse ne posveti», «Chi non si vendica, non si santifica». E notabile cosa che in lingua illirica osveta significhi egualmente vendetta e santificazione; e così il verbo derivato osvetiti. Le inimicizie antiche delle famiglie e le vendette personali fanno scorrere il sangue dopo molti anni; e in Albania, per quanto mi vien detto, sono ancora più atroci gli effetti loro e più difficilmente riconciliabili gli animi esacerbati. L’uomo del più dolce carattere è in quelle contrade capace della più barbara vendetta, credendo sempre di far il proprio dovere nell’eseguirla, e preferendo questa pazza chimera di falso onore alla violazione delle più sacre leggi, ed alle pene che va ad incontrare con risoluzione pensata.
 
Pell’ordinario l’uccisore d’un Morlacco che abbia parentado forte è in necessità d’andarsene profugo di paese in paese, nascondendosi pel corso di parecchi anni. S’egli è stato assai destro, o assai fortunato per isfuggire alle ricerche de’ suoi persecutori, e si trova d’aver ammassato qualche denaro, cerca d’ottenere il perdono e la pace, dopo un ragionevole tempo; per trattare delle condizioni di essa, dimanda ed ottiene un salvocondotto, che gli viene fedelmente mantenuto sulla parola. Egli trova de’ mediatori, che in un determinato giorno uniscono i due parentadi nemici. Il reo, dopo alcuni preliminari, è introdotto nel luogo dell’assemblea strascinandosi per terra a quattro zampe, e tenendo appeso al collo l’archibugio, pistolla, o coltello, con cui eseguì l’omicidio. Mentr’egli stà in così umile positura, si recita da uno o da più parenti l’elogio del morto, che spesso riaccende gli animi alla vendetta e mette a un brutto rischio l’uomo quadrupede. È di rito, in qualche luogo, che gli uomini del partito offeso
 
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minacciando gli mettano alla gola armi da fuoco oda taglio, e dopo molta resistenza consentano finalmente a ricevere in denaro il prezzo del sangue sparso. Queste paci sogliono costare assai fra gli Albanesi; fra i Morlacchi alcuna volta s’accomodano senza molto dispendio, e in ogni luogo poi si conchiudono con una buona corpacciata a spese del reo.
 
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La svegliatezza d’ingegno e un certo spirito naturale d’intraprendenza rendono i Morlacchi atti a riuscire in ogni sorte d’impiego. Nel mestiere dell’armi, quando siano ben diretti, prestano un ottimo servigio e sul finire del passato secolo furono adoperati utilmente per granatieri dal valoroso generale Delfino, che conquistò un importante tratto di paese soggetto alla Porta75, spezialmente servendosi di queste truppe in vari usi. Riescono a meraviglia nella direzione degli affari mercantili, ed anche adulti imparano agevolmente a leggere e scrivere e conteggiare. Dicesi che nel principio di questo secolo i Morlacchi pastori usavano molto occuparsi nella lettura d’un grosso libro di dottrina cristiana, morale e storico, compilato da un certo P. Divcovich76, e stampato più volte in Venezia nel loro carattere cirilliano bosnese, ch’è in qualche parte differente dal russo. Accadeva sovente che il parroco, più pio che dotto, raccontando dall’altare qualche fatto della Scrittura, lo storpiasse o ne alterasse le circostanze, ne’ quali casi s’alzava dall’uditorio la voce d’alcuno degli astanti a dire «Nie tako», «la non è così». Pretendesi che per evitare questo scandalo sia stata usata dell’attenzione in raccogliere tutti que’ libri, di modo che pochissimi se ne ritrovano in Moriacchia. La prontezza di spirito di questa nazione si dimostra benespesso nel dar risposte
 
75 La sublime Porta designa il governo dell’impero ottomano. Fortis qui ricorda la vittoria del generale Daniele Dolfin a Metellino, contro i Turchi nel 1690.
76 Matia Divkovič fu il massimo rappresentante in Bosnia di quell’opera di istruzione ed edificazione cattolica, propugnata nella cultura serbo-croata dalla Controriforma. Scrisse una Dottrina cristiana per il popolo slavo (1611), rifacendosi a Bellarmino, e la raccolta, in lingua paleoslava, Discorsi e omelie sullo scopo del Vangelo domenicale, pubblicata a Venezia nel 1616, che ebbe enorme diffusione e fortuna, Da un suo sermone derivò persino un racconto popolare.
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piccanti. Un Morlacco di Scign trovavasi presente, dopo l’ultima guerra della Serenissima Repubblica col Turco, al cambio de’ prigionieri. Davansi parecchi soldati ottomani per riscattare un uffiziale de’ nostri. Uno dei deputati turchi disse con ischerno, che gli sembrava i Veneziani facessero un mal mercato. «Sappi, rispose il Morlacco, che il mio Principe dà sempre volontieri parecchi asini in cambio d’un buon cavallo».
Ad onta delle ottime disposizioni naturali ad apprendere ogni cosa, i Morlacchi hanno imperfettissime nozioni di georgica77georgica e di veterinaria. La tenacità degli usi antichi singolarmente propria della nazione, e la poca cura che s’è avuto sino ad ora di vincerla coi mostrar loro ad evidenza l’utilità de’ nuovi metodi, deve condurre necessariamente questa conseguenza. I loro animali bovini e pecorini soffrono sovente la fame e il freddo allo scoperto. Gli aratri de’ quali si servono, e gli altri stromenti rurali sembrano essere della primissima invenzione, e sono tanto dissimili dai nostri, quanto lo sarebbono le altre mode dei tempi di Trittolemo dalle usate nell’età presente. Fanno del burro, del cacio, della giuncata fra il bene e il male; e forse non vi si troverebbe che dire, se manipolassero queste preparazioni di latte un po’ meno sporcamente. L’arte del sarto vi è circoscritta agli antichi e inalterabili tagli d’abiti, che si formano sempre delle medesime stoffe. Una tela più alta o più bassa dell’usato disorienta il sarto morlacco. Hanno qualche idea di semplice tintura, e i loro colori non sono per verun conto dispregevoli. Fanno il nero della corteccia di frassino, da loro chiamato jassen, messa in fusione per otto giorni colle scorie squamose di ferro, che raccolgonsi intorno all’incudini dei fabbri; mettono quest’acqua a raffreddare, poi tingono con essa. Così ottengono un bel colore turchino coll’infusione del guado secco all’ombra nel ranno ben puro; bolle anche questa mistura parecchie ore, e si lascia poi raffreddare prima di mettervi i panni a tingere. Traggono anche dallo
 
77 Agronomia.
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scòdano78, da loro detto ruj, il giallo e il bruno; e per ottenere il primo colore, usano talvolta dell’evonimo, da loro conosciuto sotto il nome di puzzàlina.
scòdano, da loro detto ruj, il giallo e il bruno; e per ottenere il primo colore, usano talvolta dell’evonimo, da loro conosciuto sotto il nome di puzzàlina.
 
Le donne morlacche quasi tutte sanno lavorare di ricamo e di maglia. I loro ricami sono assai curiosi, e perfettamente simili dal dritto e dal rovescio. Hanno una sorte di lavoro di maglia, cui non sanno imitare le nostre italiane, e l’usano principalmente per quella spezie di coturno, cui portano nelle pappuzze e nelle opanche, chiamato nazuvka. Non sono colassù rari i telai da rascia79 e da grosso telame: poco però vi lavorano le femmine, perché i loro uffjzj fra’ Morlacchi non sono combinabili con lavori sedentari.In qualche villa della Morlacchia v’è l’arte del pentolaio, come a Verlika; i vasi che vi si fabbricano grossolanamente e vi si cuociono in fornaci rustiche scavate nel terreno, riescono di gran lunga più durevoli che i nostrali.
 
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Sieno della communione romana, o della greca que’ popoli hanno stranissime idee in proposito di religione; e l’ignoranza di coloro che dovrebbono illuminarli, fa che divenghino ogni giorno più mostruosamente complicate. I Morlacchi credono alle streghe, ai folletti, agl’incantesirni, alle apparizioni notturne, a’ sortilegi così pervicacemente, come se ne avessero veduto l’effetto in pratica le mille volte. Credono anche verissima l’esistenza de’ vampiri; e loro attribuiscono, come in Transilvania, il succhiamento del sangue de’ fanciulli. Allor che muore un uomo sospetto di poter divenire vampiro, o vukodlak, com’essi dicono, usano di tagliargli i garetti e pungerlo tutto colle spille. pretendendo che dopo queste due operazioni egli non possa più andar girando. Accade talvolta che prima di morire qualche Morlacco preghi gli eredi suoi, e gli obblighi a trattarlo come vampiro,
 
78 Il guado è una pianta erbacea dalle cui foglie si estrae un colorante analogo all’indaco; lo scodano, o scotano, è un arbusto impiegato anche per la concia.
79 Stoffa leggera ottenuta dalla lana della Serbia, prodotta soprattutto a Ragusa e impiegata per la confezione degli abiti da Ragusei e Montenegrini.
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prima che sia posto in sepoltura il suo cadavere, prevedendo di dover avere gran sete di sangue fanciullesco.
Il più audace Haiduco fuggrebbe a tutte gambe dall’apparizione di qualche spettro, anima, fantasima o altra sì fatta versiera80, cui non mancano mai di vedere le fantasie bollenti degli uomini creduli e prevenuti. Essi non si vergognano di questo terrore, e rispondono a un di presso col detto di Pindaro: «la paura che viene dagli spiriti, fa fuggire anche i figliuoli degli Dei». Le donne morlacche sono, com’è ben naturale, cento volte più paurose e visionarie de’ maschi, e alcune di esse a forza di sentirselo dire si credono veramente streghe. Molti incantesimi sanno fare le vecchie streghe in Morlacchia, ma uno de’ più comuni si è quello di togliere il latte alle vacche altrui per far che n’abbiano in maggior quantità le proprie. Ma ne fanno anche di più belle. Io so d’un giovane, a cui mentre dormiva fu tratto il cuore da due streghe, che lo si voleano mangiar arrosto; il poveruomo non s’avvide della sua perdita, com’è ben naturale, perché stava immerso nel sonno, ma destatosi incominciò a dolersi e sentì che avea vuoto il luogo del cuore. Un zoccolante81zoccolante, che stava a giacere nel medesimo luogo ma non dormiva, avea veduto bensì l’operazione anatomica delle streghe, ma non avea potuto impedirle, perché lo aveano ammaliato. La malia perdé la forza allo svegliarsi del giovane scuorato, ed entrambi vollero castigare le due ree femmine: ma queste s’unsero in fretta con certo unguento d’un loro pignattino, e volarono via. Il frate andò al camino, e trasse dalle bragie il cuore di già cotto, e lo diè da mangiare al giovane, che com’è ben ragionevole, guarì tosto che l’ebbe trangugiato. Sua Riverenza faceva e fa forse ancora questo racconto, giurandone la verità sul suo petto; né la buona gente si credeva o si crede permesso di sospettare, che il vino l’avesse fatta travedere, o che le due femmine, una delle quali non era vecchia, fossero volate via per tutt’altra ragione che per essere streghe. Come v’hanno le maliarde, chiamate vjèstize, così vicino al male trovasi il rimedio, e vi
 
80 Spirito infernale femminile.
 
81 Voce popolare per indicare i frati minori osservanti.
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sono frequenti le bahòrnize, peritissime nel disfare le malie. E di queste due opposte podestà guai all’incredulo che dubitasse!
Fra le due communioni latina e greca passa, secondo il solito, una perfettissima disarmonia; e i rispettivi ministri delle Chiese non mancano di fomentarla: i due partiti raccontano mille storielle scandalose l’uno dell’altro. Le chiese de’ Latini sono povere, ma non assai sporche; quelle de’ Greci sono egualmente povere, e sudice vergognosamente. Io ho veduto il curato d’una villa morlacca seduto in terra sul piazzale della chiesa ascoltare le confessioni delle femmine inginocchiateglisi di fianco; strana positura per certo, ma che prova l’innocenza del costume di que’ buoni popoli. La venerazione che hanno pe’ ministri del Signore, è profondissima, e la dipendenza loro e fiducia in essi totale. Non di raro i Morlacchi sono trattati alla militare da’ pastori delle loro anime, che correggono i corpi col bastone. Forse v’è dell’abuso in questo particolare, come ve n’è in quello delle penitenze pubbliche, cui danno sull’esempio dell’antica Chiesa. Della fiducia credula dei poveri montagnai v’è chi abusa anche pur troppo, traendo illeciti profitti da brevetti superstiziosi, ed altre dannevoli mercatanzie di questo genere. Ne’ brevetti82 chiamati zapiz scrivono in capriccioso modo nomi santi, co’ quali non si dee scherzare, e talora ricopiandone da’ più antichi vi mescolano delle male cose. A questi zapiz attribuiscono a un di presso le virtù medesime, che alle loro pietre mostruosamente incise attribuivano i Basilidiani83. I Morlacchi sogliono portarli cuciti sul berretto per guarire o per preservarsi da qualche malattia; sovente li legano, coll’oggetto medesimo, alle corna de’ loro buoi. li profitto cui ritraggono i compositori di queste cartuccie, fa che prendano le misure più opportune per mantenerle in riputazione, ad onta delle frequenti prove dell’inutilità loro, cui deggiono pur avere quei che se ne servono. E cosa degna d’essere notata, che anche i Turchi de’ vicini luoghi ricorrono a farsi fare de’
 
82Da «breve», nel significato di concisa iscrizione. Gli alterati (brevicino, brevicello ecc.) indicano oggetti scaramantici o di predizione, comunque legati a forme di superstizione.
83Eretici seguaci di Basilide, gnostico siriano del II sec, d.C., ai quali la tradizione popolare attribuiva pratiche magiche e teurgiche.
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zapiz dai sacerdoti cristiani; il che dee non poco contribuire ad accrescere il concetto di questa merce. Un’altra divozione de’ Morlacchi (la quale non è tanto propria loro, che anche fra ‘l popolo nostro minuto non abbia luogo) si è quella delle monete di rame e d’argento del basso-Impero, o veneziane contemporanee, che passano per medaglie di sant’Elena, alle quali attribuiscono grandissime virtù contro l’epilessia ed altri malori. Le medesime perfezioni sono attribuite a quelle monete d’Ungheria chiamate petizze, quando nel rovescio abbiano l’immagine della Vergine col bambino Gesù sostenuto dal braccio diritto. Il dono d’una di queste monete è carissimo sì agli uomini che alle donne di Morlacchia.
I Turchi del vicinato, che portano con divozione i zapiz superstiziosi, e che arrecano sovente regali, e fanno celebrar delle messe alle immagini della Vergine (cosa ch’è per certo in contraddizione coll’Alcorano84) per un’altra contraddizione opposta, non rispondono al saluto fatto col santo nome di Gesù. Quindi lungo il confine loro, quando s’incontrano, i viandanti non usano dire, come ne’ luoghi men lontani dal mare, «buaglian Issus», sia lodato Gesù, ma, «buaglian Bog», sia lodato Iddio.
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L’innocenza e la libertà naturale de’ secoli pastorali mantiensi ancora in Morlacchia; o almeno ve ne rimangono grandissimi vestigi ne’ luoghi più rimoti dai nostri stabilimenti, La pura cordialità del sentimento non vi è trattenuta da’ riguardi, e dà di sé chiari segni esteriori senza distinzione di circostanze. Una bella fanciulla morlacca trova un uomo del suo paese per la strada, e lo bacia affettuosamente, senza pensare a malizia. Io ho veduto tutte le donne, e le fanciulle, e i giovani, e i vecchi di più d’una villa baciarsi fra loro, a misura che giungevano su’ piazzali delle chiese, ne’ giorni di festa. Sembrava che quella gente fosse tutta d’una sola famiglia. Ho poi osservato cento volte la medesima cosa
 
84Corano.
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pelle strade, e pe’ mercati delle città maritime, dove i Morlacchi vengono a vendere le loro derrate. Ne’ tempi di feste e chiasso, oltre al bacio corre qualche altra libertatuccia di mani, che noi troveressimo poco decente, ma presso di loro non passa per tale; se ne vengano ripresi, dicono «ch’egli è uno scherzare, che a nulla monta». Da questi scherzi però hanno principio sovente i loro amori, che frequentemente finiscono in ratti, quando i due amanti si trovino d’accordo. E raro caso (e non avviene certamente ne’ luoghi più rimoti dal commercio) che il Morlacco rapisca una fanciulla non consenziente, o la disonori. Se questo accadesse, la giovane farebbe per certo buona difesa; da che la robustezza delle donne di que’ paesi di poco la cede a’ maschi pell’ordinario. Quasi sempre la fanciulla rapita fissa ella medesima l’ora e ‘1 luogo del ratto; e lo fa per liberarsi dal numero dei pretendenti, ai quali forse ha dato buone parole, e da’ quali ha ricevuto qualche regaluccio in pegno d’amore, come d’anella d’ottone, di coltellini, o d’altra tal cosa di lieve prezzo. Le Morlacche si tengono un poco in assetto prima d’andare a marito: ma dopo che ne hanno fatto l’acquisto, si abbandonano totalmente ai sudiciume, quasi volessero giustificare il disprezzo con cui sono trattate. Non è però che le fanciulle mandino buoni effluvi, imperocché usano d’ungersi i capelli col burro, che irrancidisce facilmente, ed esala anche di lontano il più disaggradevole puzzo che possa ferire il naso d’un galantuomo.
 
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L’abito delle Morlacche è vario ne’ vari distretti, ma sempr’egualmente strano agli occhi italiani; quello delle fanciulle è più composto e bizzarro pegli ornamenti che portano sul capo, a differenza delle maritate alle quali non è permesso di portare altro che un fazzoletto aggruppato, bianco o di colore. Le fanciulle portano una berretta di scarlatto, da cui pell’ordinario pende un velo scendendo giù per le spalle, e questa è il segnale della loro verginità; molte file di monete d’argento, fra le quali benespesso ve n’hanno d’antiche e pregevoli, la rendono adorna alle più
 
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riguardevoli, che sogliono appendervi anche de’ lavori a filigrana fatti in foggia d’orrecchini, e delle catenelle d’argento, con mezze-lune attaccate all’estremità. In alcune si veggono collocate varie paste di vetri coloriti legate in argento. Le povere hanno la berretta spoglia d’ogni ornamento, o talvolta adornata soltanto di conchigliette esotiche, di pallottoline di vetro infilzate o di lavori circolari di stagno. Uno dei principali meriti delle berrette, che costituisce il buon gusto delle giovani morlacche più sfarzose, si è il fermar l’occhio colla varietà degli ornati e il far romore al minimo scuotimento del capo. Quindi catenelle, cuoricini, mezze-lune d’argento o di latta, pietre false, e chiocciolette e sì fatte altre cianfrusaglie vi trovano luogo. In alcuni distretti piantansi sulla berretta de’ fiocchi di penne colorite, che rassomigliano a due corna; in alcuni altri vi mettono de’ pennacchi tremolanti di vetro, in altri de’ fiori finti che comprano alle marine; e fa d’uopo confessare che, fra la varietà di que’ capricciosi e barbari ornamenti, vedesi qualche volta spiegata una sorte di genio. Le camicie dei dì solenni sono ricamate di seta rossa e talvolta d’oro; sogliono lavorarle elleno stesse seguendo le loro greggie al pascolo, ed è meraviglia che trapuntino così bene i loro ricami, senza verun sostegno del lavoro, e vagando. Queste camicie sono chiuse al collo da due fermagli, cui chiamano matte, e aperte lungo il petto come quelle de’ maschi. E donne e fanciulle portano al collo grossi fili di pallottole di vetro di varia grandezza e color barbaricamente confusi; alle mani quantità d’anella di stagno, d’ottone e d’argento; ai polsi smaniglie di cuoio coperte di lavori di stagno, o d’argento se sieno assai ricche. Usano anche pettine85 ricamate, o adorne di vetro infilato e di conchiglie: ma non conoscono gl’imbusti, né alle pettine mettono ferri od ossa di balena. Una larga cintola tessuta di lana colorita, o marchettata di stagno sul cuoio, attraversa quella veste e gonnella, che lungo gli orli è talvolta anch’essa fregiata di conchiglie, cui dal color modro, o turchino, che vi predomina, chiamano modrina. La sopravvesta di rascia come la gonnella arriva loro sino alla metà della gamba, è listata lungo gli orli di scarlatto e chiamasi sadak. In tempo
riguardevoli, che sogliono appendervi anche de’ lavori a filigrana fatti in foggia d’orrecchini, e delle catenelle d’argento, con mezze-lune attaccate all’estremità. In alcune si veggono collocate varie paste di vetri coloriti legate in argento. Le povere hanno la berretta spoglia d’ogni ornamento, o talvolta adornata soltanto di conchigliette esotiche, di pallottoline di vetro infilzate o di lavori circolari di stagno. Uno dei principali meriti delle berrette, che costituisce il buon gusto delle giovani morlacche più sfarzose, si è il fermar l’occhio colla varietà degli ornati e il far romore al minimo scuotimento del capo. Quindi catenelle, cuoricini, mezze-lune d’argento o di latta, pietre false, e chiocciolette e sì fatte altre cianfrusaglie vi trovano luogo. In alcuni distretti piantansi sulla berretta de’ fiocchi di penne colorite, che rassomigliano a due corna; in alcuni altri vi mettono de’ pennacchi tremolanti di vetro, in altri de’ fiori finti che comprano alle marine; e fa d’uopo confessare che, fra la varietà di que’ capricciosi e barbari ornamenti, vedesi qualche volta spiegata una sorte di genio. Le camicie dei dì solenni sono ricamate di seta rossa e talvolta d’oro; sogliono lavorarle elleno stesse seguendo le loro greggie al pascolo, ed è meraviglia che trapuntino così bene i loro ricami, senza verun sostegno del lavoro, e vagando. Queste camicie sono chiuse al collo da due fermagli, cui chiamano matte, e aperte lungo il petto come quelle de’ maschi. E donne e fanciulle portano al collo grossi fili di pallottole di vetro di varia grandezza e color barbaricamente confusi; alle mani quantità d’anella di stagno, d’ottone e d’argento; ai polsi smaniglie di cuoio coperte di lavori di stagno, o d’argento se sieno assai ricche. Usano anche pettine ricamate, o adorne di vetro infilato e di conchiglie: ma non conoscono gl’imbusti, né alle pettine mettono ferri od ossa di balena. Una larga cintola tessuta di lana colorita, o marchettata di stagno sul cuoio, attraversa quella veste e gonnella, che lungo gli orli è talvolta anch’essa fregiata di conchiglie, cui dal color modro, o turchino, che vi predomina, chiamano modrina. La sopravvesta di rascia come la gonnella arriva loro sino alla metà della gamba, è listata lungo gli orli di scarlatto e chiamasi sadak. In tempo
85Parte dell’abito, talvolta staccata dal resto, che copre il petto.
 
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di state depongono la modrina e portano il sadak solo senza maniche, sopra d’una gonnella o camiciotto bianco. Le calzette d’una fanciulla sono sempre rosse; le sue scarpe simili a quelle degli uomini chiamansi opanke, hanno la suola di cuoio crudo di bue, la parte superiore di cordicelle annodate, che son fatte di cuoio di montone, queste chiamano opùte, e girandole attorno le si stringono al disopra de’ malleoli ad uso di coturno antico. Per quanto ricche sieno le loro famiglie, non si permette alle fanciulle di portare altra spezie di scarpe. Quando vanno a marito, possono deporre le opanke, e prendere le papuzze alla turca. Le treccie delle fanciulle stanno nascose sotto la berretta; le spose se le lasciano cadere sul petto e talvolta le annodano sotto la gola, v’attaccano poi sempre, e v’intrecciano medaglie, vetri o monete forate all’usanza tartara e americana. Una giovane che si fosse guadagnato concetto di poco buon costume, arrischierebbe di vedersi strappare pubblicamente nella chiesa la berretta rossa dal curato, e d’aver poi i capelli recisi da qualche suo parente in segno d’infamia. Quindi è che se alcuna di esse ha commesso qualche fallo amoroso, depone da per se stessa le insegne verginali e cerca di cangiar paese.
 
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È frequentissima cosa anche fra i Moriacchi che una fanciulla sia chiesta in isposa per un qualche giovane che abita molte miglia lontano; sì fatti matrimoni si trattano dai vecchiardi delle rispettive famiglie, senza che gli sposi futuri si siano mai veduti. La ragione di queste ricerche lontane suol essere, più che la mancanza di fanciulle nel villaggio o ne’ contorni, il desiderio d’imparentarsi con famiglie assai diramate e celebri per aver prodotto uomini valorosi. Il padre dello sposo, o altro di lui parente d’età matura, va a chiedere la giovane, o per meglio dire una giovane della tal famiglia, non avendo pell’ordinario scelta determinata. Gli vengono mostrate tutte le fanciulle di casa ed egli sceglie a piacere, rispettando per lo più il diritto della primogenita. Di raro vengono negate le fanciulle richieste; né si suoi molto badare alle circostanze di chi le chiede.
 
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Sovente avviene che un ricco morlacco dia una delle figliuole al proprio servo o al colono, come usavasi ne’ tempi patriarcali; così poco si fa conto delle donne in quelle contrade. In queste occasioni però esse hanno un diritto, cui le nostre desidererebbero d’avere e giustizia vorrebbe che avessero. Colui che ha chiesto la giovane come procuratore, ottenuta che l’abbia, va pelo sposo e ritorna con esso, onde si veggano l’un l’altro. Quando non si dispiacciano reciprocamente, il matrimonio è concluso. In qualche paese si usa che la giovane vada a vedere la casa e la famiglia dello sposo propostole, prima di pronunziare un sì definitivo; ella è in libertà di sciogliere il trattato ogniqualvolta il luogo o le persone avessero di che disgustarla. S’ella n’è contenta, ritorna alla casa paterna scortata dai futuro suo sposo, dai cognati e amorevoli della famiglia. Si fissa il tempo delle nozze, giunto il quale lo sposo unisce i più distinti del parentado, che così raccolti chiamansi svati, e tutti montati a cavallo e ben adorni se ne vanno alla casa della fanciulla. Uno degli ornamenti distintivi de’ chiamati a nozze si è il pennacchio di pavone su la berretta. La compagnia è ben armata per rispingere qualunque aggressione o imboscata che tendesse a turbare la festa. Ditali improvvisate accadevano spesso ne’ tempi andati, allorché (per quanto dalle canzoni eroiche della nazione raccogliesi) era in uso che i vari pretendenti alla mano d’una fanciulla si meritassero la preferenza con azioni valorose, o con prove d’agilità e destrezza di corpo e prontezza d’ingegno. In una canzone antica sopra le nozze del vojvoda Janco di Sebigne (che fu contemporaneo del celebre Giorgio Castriotich, detto Scanderbegh)86 i fratelli di Jagna da Temesvvar, ch’egli avea chiesta per moglie, poco ben disposti verso di lui, dopo d’averlo fatto bere più del bisogno, gli propongono de’ giuochi, coll’alternativa di ottenere la sposa se sapea trarsene con onore, o di restare ucciso se non riusciva nell’eseguirli.
<poem>
E primamente fuor trassero un’asta,
Che un pomo su la cima avea confitto,
 
86 Difensore dell’indipendenza albanese contro i Turchi, visse tra il 1403 e il 1468.
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E sì parlaro umanamente: «Janco,
Col dardo pungi su quell’asta il pomo,
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Né di quì partirai, né ornai la testa
Più porterai, né condurrai con teco
La giovane vezzosa»a87a.
</poem>
 
Un altro giuoco proposto fu il varcare d’un salto nove cavalli, posti l’uno accanto l’altro; il terzo, di conoscere la sua futura sposa fra nove fanciulle coperte da’ loro veli. Janco era ben un valoroso soldato, ma non sapea far di queste galanterie; un suo nipote le fece per lui, e non vi fu che ridire poiché l’usanza lo permetteva, come permette in codesta Vostra isola, regina dell’Oceano, il pagar un uomo che faccia alle pugna in cambio dello sfidato. La maniera con cui Zéculo, il nipote di Janco, indovinò qual fosse la sposa promessa allo zio fra le nove altre giovani, merita d’essere riferita e d’allungare la mia digressione. Egli distese sul pavimento il manto che si trasse di dosso, e così in farsetto, dice il poeta,
A par del sole
 
a Questa canzone non passa per esattamente storica, ma sempre serve a far conoscere le usanze di que’ tempi e il carattere della nazione.
 
87 Questi versi e i successivi sono tratti dalla poesia di Andrea Kačić Slide pisme vojvoda Janka, pubblicata nel 1756 nella raccolta Razgovor ugodni naroda sloviskoga, vedi poi nota 6, lettera a Federico Hervey.
 
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Zéculo risplendè folgoreggiante.
Quindi gettovvi sopra una manata d’anella d’oro, e rivoltosi alle giovani velate:
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Che l’auree anela si raccolse, e adorna
Ne feo la bianca man.
</poem>
Fa d’uopo accordare a Zéculo un talento particolare per conoscere le maschere. Colui che dopo questa sorte di prove si trovava escluso dalla pretesa, o posposto ad altri, e non credeva d’esserlo giustamente, cercava di risarcirsi colla violenza, dal che ne seguivano sanguinosi combattimenti. Su le sepolture degli antichi
 
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Slavi, che trovansi pe’ boschi e luoghi deserti della Morlacchia, veggonsi di frequente scolpite a rozzo bassorilievo queste zuffea.
 
Condotta alla chiesa la sposa velata e coronata fra gli svati a cavallo, e compiute le sagre cerimonie, fra gli spari di pistolle, d’archibugi e urli barbarici e grida romorose d’allegrezza viene accompagnata alla casa paterna o a quella dello sposo se sia poco lontana. Ognuno degli svati ha qualche particolare ispezione, tanto nel tempo della marcia che in quello del convito, a cui si dà mano subito dopo finite le funzioni della chiesa. Il parvinaz precede gli altri tutti, cantando in qualche distanza; il bariactar va sventolando una bandiera di seta attaccata a una lancia, su la di cui punta è conficcata una mela; i bariactari sono due, e quattro negli sposalizi più nobili. Lo stari-svat è il principale personaggio della brigata, e suoi essere rivestito di questa dignità il più orrevole uomo del parentado. Lo stacheo è destinato a ricevere gli ordini dello stari-svat. I due diveri, che quando ve n’abbiano deggiono essere i fratelli dello sposo, servono la giovane. Il kuum è il compare al nostro modo d’intendere; komorgia, o seksana, è il deputato alla custodia della cassa dotale. Ciaus porta una mazza e tien in ordine la marcia come maestro di ceremonie; egli va cantando ad alta voce «Breberi, Davori, Dobra-srichia, Jara, Pico», nomi di antiche deità propizie. Buklia è il coppiere della brigata, così per viaggio come a tavola. Questi ufizi sono duplicati e triplicati a tenore del bisogno nelle compagnie numerose.
 
Il pranzo del primo giorno si fa talora in casa della sposa, ma per lo più dallo sposo, all’albergo del quale s’avviano gli svati dopo la benedizione nuziale. Tre o quattro uomini a piedi precedono la comitiva correndo, e il più veloce di essi ha per premio una mahrama, spezie d’asciuttamani ricamato alle due estremità. Il domachin, o sia capo di casa, va incontro alla nuora; prima ch’ella scenda di sella le vien dato un bambino da accarezzare, che si prende ad imprestito dai vicini se
a Ve n’hanno spezialmente nel bosco fra Gliubuski e Vergoraz, su le sponde del Trebisat, lungo la via militare che da Salona conduceva a Narona. A Lovrech, a Cista, a Mramor, fra Scign e Imoski, se ne veggono pur molte, Ve n’ha una isolata a Dervenich in Primorje, detta Costagnichia-greb, così a Zakuçaz, dove dicesi eretta sul luogo del combatti mento.
 
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non ve ne fossero in famiglia. Scesa ch’ella è, prima d’entrare in casa s’inginocchia e bacia la soglia della porta. La suocera, o in mancanza di questa, qualche altra femmina del parentado, le presenta un vaglio pieno di varie spezie di grani e frutta minori, come nocciuole e mandorle, ch’essa dee spargere sopra gli svati, gettandosene a manate dietro le spalle. In quel giorno la sposa non pranza alla tavola de’ parenti, ma ad una mensa appartata co’ due diveri e lo stacheo. Lo sposo siede alla tavola degli svati: ma egli non dee per tutto quel dì unicamente consagrato all’unione matrimoniale, sciogliere né tagliare cos’alcuna. Il kuum trincia per lui le carni e ‘l pane. Tocca al domachin il far le disfide del bere; il primo a rispondervi è pella dignità sua lo stari-svat. Pell’ordinario il giro della bukkàra, ch’è un gran bicchiere di legno capacissimo, incomincia religiosamente da un brindisi al Santo protettore della famiglia, alla prosperità della santa Fede o d’altro nome ancora più d’ogni altro sublime e venerabile. L’abbondanza più strabocchevole regna in questi conviti, ai quali però ciascuno degli svati contribuisce mandando per la parte sua provvigioni. Le frutta e ‘l cacio aprono il pranzo; la zuppa lo chiude, precisamente all’opposto dell’usanza nostra. Fra le vivande prodigamente imbandite v’hanno tutte le spezie d’uccelli domestici, carni di capretti, di agnelli e selvaggine talvolta: ma di raro vi si trova vitello, e forse mai fra’ Morlacchi non guasti dalla società forastiera. Questo abborrimento dalla carne vitulina è antichissimo presso la nazione; e ne fa cenno anche san Girolamo, contro Giovinianoa88. Il Tomco Marnavich, scrittore originario di Bosna89Bosna, che visse nel principio del secolo passato, dice che sino a’ suoi tempi i Dalmati non corrotti dai vizi de’ forastieri si astenevano dal mangiar carne di
 
a «At in nostra Provincia scelus putant vitulos devorare», D. Hier., Contra Jovin.
 
88 La provenienza dalmatina dell’autore della Volgata, s. Gerolamo nacque a Stridone nel 347, lo rende una fonte particolarmente attendibile anche per notizie relative alle consuetudini e usanze locali.
89 Gesuita nato a Sebenico (1580- 1639), ricoprì importanti cariche nelle gerarchie ecclesiastiche e partecipò attivamente alla diffusione del cattolicesimo nella cultura serbo-croata. Tradusse inquesta lingua la Doctrina Christiana di Bellarmino (1627) e lasciò svariate opere di carattere storico e religioso, più volte citate da Fortis, in particolare Dialogi de Illyrico et rebus Dalmatiis, Regiae sanctitatis illyricanae faecunditas, e la discussa Vita Petri Berislavi. Su Tomco Marnavich tornerà diffusamente Fortis nella quarta lettera.
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vitello, come da un cibo immondob. Le donne del parentado, se sono invitate, non pranzano già alla mensa de’ maschi, essendo usanza stabilita che mangino sempre in disparte. Il dopo pranzo si passa, al solito delle solennità, in danze, in canti antichi e in giuochi di destrezza o d’acutezza d’ingegno. La sera all’ora conveniente, dopo la cena, fatte le tre rituali disfide del bere, il kuum accompagna il nuovo sposo all’appartamento matrimoniale, che suoi essere la cantina o la stalla degli animali, dove appena è arrivato che fa uscire i diveri e lo stacheo, restando egli Solo co’ due coniugati. Se v’è preparato un letto migliore che la paglia, egli ve li conduce; e dopo d’avere sciolto la cintola alla giovane, fa che lo sposo ed essa reciprocamente si spoglino. Non è molto tempo che sussisteva ancora in tutto il suo vigore, l’usanza che obbligava il kuum a spogliare intieramente la nuova sposa; ed è una conseguenza di essa il privilegio, che rimane ancora a questo parente spirituale, di baciarla quantunque volte e in qualunque luogo la incontri; privilegio che potrà forse esser piacevole su le prime, ma che dev’essere disgustoso in progresso. Quando gli sposi sono in camicia, il kuum si ritira e sta coll’orecchio alla porta, se pur v’è porta. A lui tocca dar l’annunzio dell’esito de’ primi abbracciamenti, e lo fa con uno sparo di pistolla, a cui fanno eco parecchi degli svati; ma se lo sposo trova qualche facilità non aspettata (quando sia bastevolmente smaliziato per avvedersene), la festa è turbata. Non si fa però il romore cui fanno in simili casi gli Ukrainesi, da’ quali i Morlacchi nostri sono in questo caso un po’ differenti, quantunque in pieno abbiano con essi una grandissima conformità di vestito, di costumi, di dialetto e persino d’ortografia. Colà usano di portare in trionfo la camicia della nuova sposa il giorno dopo le nozze con molta solennità; e maltrattano bruttamente la madre, se la verginità della giovane si trovasse sospetta. Uno degli schemi, cui usano di fare alla custode poco attenta, si è il versarle da bere in un vaso forato nel fondoa.
 
b«Ad hanc diem Dalmatae, quos peregrina vitia non infecere, ab esu vitulorum non secus ac ab immunda esca abhorrents, Jo. Tomc. Marn., in Op. ined. De Illyrico, Caesaribusque Illyricis.
 
a Queste usanze sono comuni a tutto il paese russo.
 
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I due diveri e lo stacheo, licenziati dal luogo destinato al rusticano imeneo, in pena d’avere abbandonata la giovane alla loro custodia affidata, sono obbligati a rispondere ad una disfida lustrale, se vogliono essere riammessi fra gli svati. La rakia, o acquavite, si consuma prodigamente in sì fatte occasioni. Il dì seguente la sposa, deposto il velo e la berretta verginale, col capo scoperto assiste alla tavola degli svati, ed è costretta ad ascoltare gli equivoci più grossolani e le brutalità più ubbriachevoli dai convitati, che si credono in questi casi liberi dai ceppi della decenza loro abituale su certi propositi.
 
Queste feste nuziali, dette zdrave dagli antichi Unni, sono chiamate zdravize da’ nostri Morlacchi, d’onde certamente è derivata la voce italiana stravizzo; elleno durano tre, sei, otto e più giorni secondo il potere o l’indole prodiga della famiglia che dee farle. La novella sposa ritrae de’ profitti considerabili in que’ giorni d’allegria, e quindi si forma il suo picciolo peculio, da che in dote non suol portare che le proprie robbe e una vacca: spesso accadendo che i parenti di essa, invece di darne, ritraggano denaro dallo sposo. Ella porta ogni mattina l’acqua alle mani degli ospiti, ciascuno de’ quali dopo d’essersi lavate dee gettare qualche moneta nel catino; ed è ben giusto che paghino qualche cosa, allorché si lavano, coloro che stanno talvolta de’ mesi interi senza mai farlo. L’uso accorda alle spose la libertà di far delle burle agli svati, nascondendo loro le opanke, i berretti, i coltelli o altre simili cose di prima necessità, cui deggiono riscattare con una somma di denaro tassata dalla compagnia. Oltre alle sopraccennate contribuzioni volontarie e all’estorte, deve per rito ciascuno di essi far un regalo alla sposa, che dal canto suo corrisponde con presentuzzi l’ultimo giorno delle zdravize. Il kuum e lo sposo portanli sopra sciable sguainate dinanzi al domachin, che li distribuisce per ordine a tutti gli svati; consistono pell’ordinario in camicie, moccichini, mahrame, berretti e altre tali coserelle di poco valore.
I riti nuziali sono quasi precisamente gli stessi per tutto il vasto paese abitato dai Morlacchi, né di gran lunga dissimili si praticano anche da’ contadini isolani, e da’ litorali dell’Istria e della Dalmazia. Fra i tratti di varietà che vi s’incontrano è
 
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notabile quello dell’isola di Zlarine, nelle acque di Sebenico, dove lo stari-svat (che può essere, ed è sovente difatti briaco), nel momento in cui la sposa si dispone ad andare col marito, le deve levar dal capo la corona di fiori con un colpo di sciabla nuda. Sull’isola di Pago, in Quarnaro, nel villaggio di Novaglia (dov’era probabilmente la Gissa degli antichi geografi) v’è un’usanza più comica e meno pericolosa, bench’egualmente selvaggia e brutale. Quando un nuovo sposo è per condurre seco la fanciulla, a cui dee legarsi indissolubilmente, il padre o la madre di essa, nell’atto di consegnargliela, gli fanno con molta caricatura l’enumerazione delle di lei male qualità! «Giacché tu la vuoi, sappi ch’ella è dappoco, caparbia, ostinata, ec.», Lo sposo allora rivolgendosi alla giovane in atto sdegnoso: «Oh! dacch’ella è così, le dice, io ti farò ben mettere il cervello a partito!» e fra queste parole le sciorina qualche buona ceffata, un pugno, un calcio o tal altra gentilezza, che non manca talvolta di coglierla, perché il rito non sia di sola figura. In generale sembra, per quanto dicono, che le donne morlacche e le isolane ancora, trattone le abitanti delle città, non disamino qualche bastonata da’ loro mariti, e sovente anche dagli amanti.
Nei contorni di Dernish le nuove spose, durante il primo anno del matrimonio, sono in dovere di baciar tutti i conoscenti nazionali che giungono alla loro casa; dopo questo termine, l’uso le dispensa da tal complimento, come se l’intollerabile sporchezza a cui s’abbandonano pell’ordinario, le rendesse indegne di praticano. Fors’è ad un tempo causa ed effetto questo br sudiciume, della maniera umiliante con cui vengono trattate dai mariti e da’ parenti. Essi non le nominano giammai, parlando con persona rispettabile, senza premettere l’escusatoria «con vostra sopportazione»; il più colto Morlacco, dovendo far menzione della moglie sua, dice sempre «da prostite, moia xena», «vogliate perdonarmi, mia moglie». Que’ pochi che hanno una lettiera su cui dormire nella paglia, non vi soffrono già la moglie, che dee dormire sul pavimento e ubbidire soltanto quando è chiamata. Io ho dormito più volte in casa di Morlacchi, e sono stato a portata di veder quasi universalmente praticato questo disprezzo al sesso femminino, che se lo merita
 
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colassù, dove non è punto amabile o gentile, anzi deforma e guasta i doni della natura.
 
Le gravidanze e i parti di queste femmine sarebbero cosa nuova fra noi, dove le signore patiscono tanti languori e sì lunghe debolezze prima di sgravarsi, ed hanno d’uopo di tante circospezioni dopo la grand’operazione. Una Morlacca non cangia cibo, non intermette fatica o viaggio per esser gravida, e spesso accade ch’ella partorisca nel campo o lungo la via da per se sola, che raccolga il bambino e lo lavi alla prim’acqua che trova, se lo porti in casa e ritorni il dì seguente a’ consueti lavori o al pascolo delle sue greggie. Anche se nascono in casa, i bambini sono per inveterato costume della nazione lavati nell’acqua fredda; e posson ben dire di sé i Morlacchi ciò che gli antichi abitatori d’Italia:
<poem>
Durum a stirpe genus natos ad flumina primum
Deferimus, saevoque gelu duramus, et undis90undis.
</poem>
Né il bagno freddo produce que’ cattivi effetti ne’ bambini che si dié a credere dovessero venirne il signor Mochard, che l’uso degli Scozzesi e Irlandesi de’ giorni nostri disapprova come pregiudicevole ai nervi, e le immersioni degli antichi Germani taccia di superstiziose e figlie d’ignoranzaa.
Né il bagno freddo produce que’ cattivi effetti ne’ bambini che si dié a credere dovessero venirne il signor Mochard, che l’uso degli Scozzesi e Irlandesi de’ giorni nostri disapprova come pregiudicevole ai nervi, e le immersioni degli antichi Germani taccia di superstiziose e figlie d’ignoranza a.
 
Le creaturine così diligentemente raccolte, e morbidamente ripulite, sono poscia involte in miserabili cenci, da’ quali stanno riparate alla peggio pelo spazio di tre o quattro mesi; dopo di questo termine si lasciano andare a quattro gambe per la capanna e pe’ campi, dove acquistano insieme coll’arte di camminare in due piedi quella robustezza e sanità invidiabile, onde sono dotati i Morlacchi, e che li rende atti ad incontrare le nevi e i ghiacci più acuti a petto scoperto. I fanciulli succhiano il latte materno sino a tanto che una nuova gravidanza lo faccia mancare; e se il ringravidamento tardasse quattro e sei anni, per tutto
 
90 Virgilio, Eneide, IX, 603-4.
a Memoires de la Soc. Oecon. de Berne, an. 1764, III partie.
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questo tempo eglino ricevono nutrimento dal seno della madre. Non dee dopo tutto questo esser creduto favola, ciò che si racconta della prodigiosa lunghezza delle zinne morlacche, le quali possono dar latte ai bambini per di dietro alle spalle, non che per di sotto alle braccia.
 
Tardi usano di mettere le brache ai fanciulli, che vanno talvolta coi loro camiciotto lungo sino al ginocchio nell’età di tredici e quattordici anni, spezialmente verso il confine della Bossina, seguendo l’usanza comune del paese soggetto alla Porta, dove i sudditi non pagano il haraz, o capitazione91, se non quando portano calzoni, essendo prima di quel tempo considerati come ragazzi incapaci di lavorare e di guadagnarsi il vitto.
 
Nell’occasione de’ parti, e particolarmente de’ primi, tutti i parenti ed amici mandano regali di cose da mangiare alla puerpera, e di questi si fa poi una cena detta bàbine. Le puerpere non entrano in chiesa se non dopo quaranta giorni, previa la benedizione lustrale.
 
La prima età dei fanciulli morlacchi si passa fra’ boschi a guardia delle mandre o delle greggie. Ogni sorta di lavori escono lor dalle mani, e in quell’ozio s’addestrano a farne con un semplice coltello. V’hanno delle tazze di legno e degli zufoli adornati di bassorilievi capricciosi, che non mancano di aver un merito e provano abbastanza la disposizione di quella gente a cose più perfette.
 
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Il latte in vari modi rappreso è il nudrimento più comune de’ Morlacchi, eglino usano di farlo agro coll’infondervi dell’aceto, e ne riesce una spezie di ricotta oltremodo rinfrescante; il siero di questa è bevanda graditissima da loro, e non disgustosa anche a un palato straniero. Il cacio fresco fritto nel burro è il miglior piatto cui sappiano preparare all’improvviso per un ospite. Di pane cotto alla
 
91 Tributo, imposta riferita alla persona.
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nostra foggia non hanno grand’uso; ma sogliono farsi delle stiacciatea di miglio, d’orzo, di gran turco, di saggina e di frumento ancora se siano benestanti; queste stiacciate cuociono di giorno in giorno su la pietra del focolare, ma quelle di frumento rare volte si mangiano nelle capanne de’ poveri. I cavoli cabusi92 inaciditi, de’ quali fanno la maggior possibile provvigione, le radiche ed erbe esculente93 che trovansi pe’ boschi o pelle campagne, servono loro sovente di companatico poco costoso e salubre: ma l’aglio e le scalogne sono il cibo più universalmente gradito dalla nazione, dopo le carni arroste, pelle quali hanno trasporto; ogni Morlacco caccia molti passi dinanzi a se gli effluvi di questo suo alimento ordinario, e s’annunzia di lontano alle narici non avvezze. Mi ricordo d’aver letto, non so dove, che Stilpone rimproverato d’esser andato al tempio di Cerere dopo d’aver mangiato dell’aglio, il che era vietato, rispose: «dammi qualche altra miglior cosa, e io lascierò di mangiarne». I Morlacchi non farebbero questo patto, e se lo facessero potrebb’essere che se n’avessero da pentire. È probabile che l’uso di questi erbaggi corregga in parte la mala qualità dell’acque de’ serbatoi fangosi, o de’ fiumi impaludati, da’ quali molte popolazioni della Morlacchia sono in necessità d’attingere nel tempo di state, e contribuisca a mantener lungamente robusti e vegeti gl’individui. V’hanno difatto vecchi fortissimi e verdi in quelle contrade, e io penderei a darne una parte di merito anche all’aglio, checché ne possano dire i partigiani d’Orazio94. M’è sembrato stranissimo che facendo i Morlacchi tanto consumo di cipolle, scalogne ed agli, non ne mettano nelle loro vaste e pingui campagne, e si trovino costretti d’acquistarne d’anno in anno per molte migliaia di ducati dagli Anconitani e Riminesi. Sarebbe per certo una salutare violenza o, per megljo dire, un tratto di paterna carità quello che li
a Le chiamano pogaccie, probabilmente dalla nostra voce focaccia, pronunciando la lettera f alla slavonica antica.
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luogo a un cornetto tutto marchettato di stagno, in cui tengono del grasso per difendere l’armi dalla pioggia, ed ungere se medesimi, se camminando si scorticano in alcun luogo. Così pende dalla fascia una picciola patrona100, nella quale tengono l’acciarino e il denaro, se ne hanno; il tabacco da fumare è anch’egli raccomandato alla fascia, chiuso in una borsa fatta di vescica secca. La pippa tengono dietro alle spalle, cacciandone la canna fra la camicia e la pelle, col camminetto all’in fuori. Lo schioppo è sempre su la spalla del Morlacco allorch’egli esce di casa.
I capi della nazione sono più riccamente vestiti, e si può giudicare del buon gusto de’ loro abiti dalla Tavola IV, che rappresenta nella figura il mio buon ospite di Coccorich.
 
§. 14. Musica e poesia, danze e giuochi
 
Nelle rustiche conversazioni, che si raccolgono particolarmente nelle case dove v’hanno di molte fanciulle, si perpetua la memoria delle storie nazionali de’ tempi antichi. V’è sempre qualche cantore, il quale accompagnandosi con uno stromento detto guzia, che ha una sola corda composta di molti crini di cavallo, si fa ascoltare ripetendo e spesso impasticciando di nuovo le vecchie pisme o canzoni. Il canto eroico de’ Morlacchi è flebile al maggior segno e monotono: usano anche di cantare un poco nel naso, il che s’accorda benissimo collo stromento cui suonano; i versi delle più antiche loro canzoni tradizionali sono di dieci sillabe, non rimati. Queste poesie hanno de’ tratti forti d’espressione, ma appena qualche lampo di fuoco d’immaginazione, né quello ancora è sempre felice. Esse fanno però un grand’effetto sull’anima degli ascoltanti, che a poco a poco le imparano a memoria; io ne ho veduto alcuno piagnere e sospirare per qualche tratto, che a me non risvegliava veruna commozione. E probabile che il valore
100 Generalmente indica una giberna o una tasca di cuoio, appesa alla bandoliera, che cade sul dorso.
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accompagnandosi sempre su la guzla; né vi manca del tutto la poesia scritta, quando le occasioni di conservar la memoria di qualche avvenimento si presentino. Lo zufolo e le sampogne pastorali da più canne ed un otre, cui suonano coi fiato accompagnandosi colle strette del braccio, sotto del quale lo tengono, sono anche rustici stromenti musicali comunissimi in Morlacchia.
Le canzoni tradizionali contribuiscono moltissimo a mantenere le usanze antiche; quindi come i loro riti, anche i loro giuochi e le danze sono di rimotissimi tempi. I giuochi consistono quasi tutti in prove di forza o di destrezza, com’è quello di fare a chi salta più alto, a chi corre più veloce, a chi scaglia più da lontano una grossa pietra, che può a gran fatica esser alzata di terra. Al canto delle canzoni e al suono dell’otre, che non mal rassomiglia a quelli cui portano in giro i maestri dell’orso, fanno i Morlacchi la loro danza favorita, che chiamasi kolo o cerchio, la quale poi degenera in skoççi-gori, cioè salti alti. Tutti i danzanti, uomini e donne, prendendosi per mano formano un circolo, e incominciano prima a girare lentamente ondeggiando, su le rozze e monotone note dello stromento che suonasi da un valente nel mestiere. Il circolo va cangiando forme e diviene ora ellissi, or quadrato, a misura che la danza si anima; e alfine trasformasi in salti sperticatissimi, a’ quali si prestano anche le femmine, con una rivoluzione totale della loro macchina e delle vesti. Il trasporto che hanno i Morlacchi per questa danza selvaggia è incredibile. Eglino l’intraprendono sovente ad onta dell’essere stanchi pel lavoro o per lungo cammino e mal pasciuti; e sogliono impiegare con picciole interruzioni molte ore in così violento esercizio.
 
§. 15. Medicina
 
Non è rara cosa che malattie infiammatorie succedano alle danze de’ Morlacchi. In questo, come in tutti gli altri casi, essi non chiamano medici, da che per buona fortuna loro non ne hanno, ma si curano da per se stessi. Una generosa bibita di
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marini calcinati; e su di quest’argilla riposano gran massi di breccia marmorea, caduti dall’alto.
La bella ed ampia campagna di Cettina, o di Scign, è, come ho detto, soggetta alle inondazioni del fiume, che le serve di confine scorrendo appié delle colline di Rude e di Trigl; ella è anche resa insalubre dall’acqua di Sutina, che vi si perde impaludando, e che forse dié motivo ai geografi di creare un lago in quel luogo. I vari rivi e torrentelli, che senza veruna regola od incassamento scendono da quella parte ad unir le loro torbide colla Cettina, vi producono per dire il vero de’ ristagni: ma questi non sono assai considerabili né pell’estensione, né pella durata. Le acque che fannovi il maggior danno sono quelle di Rude, che si spandono vicino a Trigl, ne’ di cui contorni molti residui di romani monumenti si trovano, e forse altre volte sorgeva Tilurium. L’angustie nelle quali internasi colà il fiume per portarsi al mare, fendendo la gran montagna che ne tien separato il Contado di Cettina, sono forse anche una delle principali cagioni della tardanza e impaludamento. Sarebbe utile e degna cosa il cercare un rimedio a questo male, che porta seco l’infecondità e l’insalubrità d’una bella provincia; né si cercherebbe forse inutilmente nell’arginare, come ho accennato, il principal alveo del fiume, nell’impedirlo dal vagare in diramazioni pella pianura, nel regolare le acque che vi concorrono. I Morlacchi del distretto di Scign intendono benissimo l’utilità cui trarrebbe il pubblico e ‘l privato interesse da questa operazione, che dovrebb’esser fatta da essi medesimi a forza di braccia, e vi si presterebbero volontieri. Questo frugale e robusto popolo, ch’è pur troppo sovente distratto dal lavoro delle proprie terre con apparenza di servizio, e colla sostanza di vero detrimento pubblico, esulterebbe trovandosi impiegato alla gloria e al vantaggio reale del Principe ch’egli adora, quando però anche in questa fatta d’opere non trovasse il segreto d’avvelenargli ogni contentezza la malizia e avidità di pochi.
 
§. 7. Corso della Cettina fra’ precipizi; sue cateratte
 
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Da Trigl sino a Duare precipita la Cettina di balza in balza scorrendo sedici buone miglia, per un alveo quasi sempre scavato a piombo nelle profonde viscere della montagna. Ella incontra un tratto di campagna sotto Novasella, che sarebbe men orrido del resto, se le acque abbandonate all’impeto loro non lo tenessero pressoché sempre allagato. Un breve miglio lontano dalla rocca di Duare (importantissimo posto, che trae seco il destino di tutto il paese aggiacente al mare da Almissa sino a Narenta), la Cettina fa una cascata magnifica, detta Velika Gubaviza dagli abitanti, per distinguerla da una minore ch’è un po’ più sotto. Io ho voluto andar a vederla di buon mattino, e vi discesi da Duare, dove avea passato la notte accolto con ospitale cordialità dal signor Furiosi, gentiluomo d’Almissa, che n’è il sopraintendente, i di cui valorosi antenati ne agevolarono la conquista sopra il Turco.
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rendendo il nome di Vrullia (ch’è la Berullia del Porfirogenito) analogo a quello di Peguntium, da che πηγή e vril sono sinonimi, mi conduce a credere che in questo luogo, non già alle foci della Cettina, fosse il castello Pegunzio degli antichi geografi. Vestigi riguardevoli d’antichità non sussistono in que’ contorni: ma ben si conosce dalla quantità di frantumi di vasi e tegole, e dalle lapide sepolcrali che tratto tratto vi scappano fuori, essere stato quel lido a’ tempi romani ben abitato. La principal ragione per cui non si veggono intorno alla Vrullia molti vestigi di abitazioni antiche, si è la ripidezza del monte superiore, e la quantità di sassi che ne scendono insieme colle acque. La bocca del vallone della Vrullia è temuta da’ naviganti pell’impetuosa subitaneità de’ venti che talvolta vi soffiano, e in un momento mettono a soqquadro quel canal di mare ch’è fra il Primorje e l’isola della Brazza, con grandissimo pericolo delle barche sorprese.
Poco lontano da questo luogo il Cantelio238, la di cui carta della Dalmazia è adottata come una delle migliori, mette le foci d’un fiume cui fa derivare dal lago di Prolosaz, da lui chiamato Brestolaz. Chi conosce la continuità e l’altezza della montagna Dinara non può ammettere nemmeno la possibilità d’un tal fiume. Molti scrittori di cose illiriche e vari geografi ricopiarono questo errore, come anche la pretesa isola del fiume Cettina verso le foci, e innumerabili altre storpiature di nomi e distanze.
 
§. 12. Della paklara, o remora de Latini
 
Io chiuderò questa mia lettera coi raccontarvi un fatto, al quale darete il valore che merita. Voi avrete più e più volte letto negli antichi naturalisti qualche miracolo della remora, o echeneide; e non senza scandalezzarvene un poco, vi sarete incontrato nel racconto di Plinio, che dopo d’aver riferito sull’altrui fede un ritardo per questo pesce accaduto ad Antonio, positivamente asserisce una nave montata da Caligola, equipaggiata di quattrocento rematori, essere stata fermata,
238Giacomo Cantelli (1643-1695), cartografo e geografo del duca di Modena, non originale ma operosissimo, produsse descrizioni di quasi tutta la terra, tra le quali anche quelle della Dalmazia, Bosnia e Albania.
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NOTA AL TESTO .................................................................................................................... XXXI
VIAGGIO IN DALMAZIA ........................................................................................................ 1