Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/148: differenze tra le versioni

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Calmo, elegante, non vien a conflitto col pensiero, vuol dare copia, splendore, efficace linguaggio alla filosofia, ma accetta gli asserti delle varie scuole; sol pretendendo eliminare le parti vere e certe dalle false; onde è contemplatore coi Platonici e sperimentale cogli Aristotelici; si piace alla morale degli Stoici, ma ne ripudia l’esagerazione; dubita cogli Accademici, ma ritiene probabili alcune cose: fin dagli Epicurei toglie a prestanza alcuni concetti sull’amicizia: da {{Wl|Q913|Socrate}} riceve il testimonio della coscienza, l’evidenza interiore, ma non pronunzia mai assoluto sopra quel che discusse, mai non rivela la personalità umana. Con Posidonio e Panerzio egli crede al diritto e alla giustizia; pure gli si affacciano i dubbj degli Accademici, speculatori sempre, non pratici mai, perturbatori d’ogni principio<ref>«Turbatricem omnium rerum Academiam. . . . Si invaserit in hæc, nimias edei urinas, quam ego placare cupio, submovere non audeo». ''De leg''. I, 13.</ref>.
ILLUSTRI ITALIANI

Calmo, elegante, non vien a conflitto col pensiero, vuol dare copia,,
È notevole come i Romani avessero idea confusa e incompleta della divinità, e quindi della morale. Sentendosi chiamati a dominare il mondo, ''suprema legge'' era per essi la grandezza del popolo: altri profeti non riconoscevano che i legislatori; nel diritto consisteva il fine e la ragione storica della loro missione. Non voleasi abbandonare il solido terreno della vita positiva per correre negli spazj incogniti della speculazione, nelle regioni del pensiero: ammettevano lo spirito, ma come una cosa estranea, cercando piuttosto rimoverlo che conoscerlo: uomini di Stato operosi, intrepidi guerrieri, profondi giureconsulti, non li vediam mai nè devoti nè metafisici: alla scienza divina non s’applicarono se non quando era già perduta la fede.
splendore, efficace linguaggio alla filosofia, ma accetta gli asserti

delle varie scuole; sol pretendendo eliminare le parti vere e certe
Non sappiamo che altri scrivesse di teosofia prima che Cicerone nei tre libri ''de Natura Deorum'' avvertisse questa negativa conoscenza del soprasensibile; ed egli stesso vacilla fra la materialità degli Epicurei e le indeterminate aspirazioni degli Stoici: quelli che negavano ogni provvidenza, questi che Dio confondevano col mondo. Effetto inevitabile in una credenza mancante di base, e che dal panteismo o dalla fatalità non la deriva che illogicamente: laonde i dogmi più venerati e universali Cicerone non può recarli che come probabilità, dove il sentimento prevale quand’anche l’argomentazione sia stringente. Trova debolissimi gli argomenti con cui gli Stoici provano esister Dio; tiene che uno deva credere alla religione de’ suoi padri, ma la
dalle false; onde è contemplatore coi Platonici e sperimentale cogli
Aristotelici; si piace alla morale degli Stoici, ma ne ripudia l'esage-
razione; dubita cogli Accademici, ma ritiene probabili alcune cose:
fin dagli Epicurei toglie a prestanza alcuni concetti sull'amicizia: da
Socrate riceve il testimonio della coscienza, l'evidenza interiore, ma
non pronunzia mai assoluto sopra quel che discusse, mai non rivela
la personalità umana. Con Posidonio e Panerzio egli crede al diritto
e alla giustizia ; pure gli si affacciano i dubbj degli Accademici, spe-
culatori sempre, non pratici mai, perturbatori d'ogni principio (67).
È notevole come i Romani avessero idea confusa e incompleta
della divinità, e quindi della morale. Sentendosi chiamati a domi-
nare il mondo, suprema legge era per essi la grandezza del po-
polo: altri profeti non riconoscevano che i legislatori; nel diritto
consisteva il fine e la ragione storica della loro missione. Non vo-
leasi abbandonare il solido terreno della vita positiva per correre
negli spazj incogniti della speculazione, nelle regioni del pensiero:
ammettevano lo spirito, ma come una cosa estranea, cercando piut-
tosto rimoverlo che conoscerlo: uomini di Stato operosi, intrepidi
guerrieri, profondi giureconsulti, non li vediam mai nè devoti nè
metafisici: alla scienza divina non s'applicarono se non quando era
già perduta la fede.
Non sappiamo che altri scrivesse di teosofia prima che Cicerone nei
tre libri de Natura Deorim avvertisse questa negativa conoscenza del
soprasensibile; ed egli stesso vacilla fra la materialità degli Epicurei
e le indeterminate aspirazioni degli Stoici: quelli che negavano ogni
provvidenza, questi che Dio confondevano col mondo. Effetto inevita-
bile in una credenza mancante di base, e che dal panteismo o dalla
fatalità non la deriva che illogicamente: laonde i dogmi più venerati
e universali Cicerone non può recarli che come probabilità, dove
il sentimento prevale quand'anche l'argomentazione sia stringente.
Trova debolissimi gli argomenti con cui gli Stoici provano esister
Dio; tiene che uno deva credere alla religione de' suoi padri, ma la
(67) « Turbatricem omnium rerum Academiam. . . . Si invaserit in hsec, nimias edei
urinas, quam ego placare cupio, submovere non audeo ». De leg, l, 13.