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{{Pt|elle|ch’elle}} siano perite, ma lo pensa. Chi ha se medesimo, non può dir d’aver perduta cosa alcuna. Ma quanto avvien ch’altri sia patron di se stesso? Sta sano.
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{{Ct|f=180%|L=.4em|v=2|LETTERA VII}}
{{Ct|''Moleste fers decessisse Flaccum etc.'' Ep. LXIII.}}



{{Xx-larger|T}}i rincresce che Flacco Amico tuo sia morto; ma non vorrei però che tu te ne rammaricassi più del dovere. Io non ti dico già che non ti dogli di questa perdita, che appena avrei tanto ardire di richiedertene; e so ben che sarebbe il meglio. Ma chi sarà mai che abbia tanta costanza d’animo, se non forse un che signoreggi la Fortuna? E questo tale ancora sarà punto da questa passione; ma non più oltre che punto. A noi si può perdonare il dar nelle lagrime, purchè non sian soverchie, e purchè con la prudenza le conteniamo. Gli occhi nostri nella perdita dell’Amico non devono essere asciutti del tutto, nè sì molli, che a guisa di fiume corrano. Si deve lagrimar, non piangere. Ti parerà forse ch’io ti ponga una dura legge in questa cosa: poichè il gran poeta Greco par che conceda, che per un sol giorno sia lecito il piangere, dicendo che ancora Niobe pensò al mangiare. Mi dimanderai donde procedano questi lamenti, e questi smisurati pianti? Ti rispondo, che per il mezzo delle lagrime cerchiam di mostrare segni del {{Pt|de-|}}<section end=s2/>