La Beatrice di Dante: differenze tra le versioni

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E se egli, malgrado l'ingegno peregrino ed arguto, ci fa pietosamente sorridere quando vuol convalidare questo sentimento con le prove che apprestavano allora le scuole, non può non toccar l'anima di chicchessia, quando, poste da banda le sottigliezze metafisiche e le dommatiche asserzioni della fede, ingenuamente conclude: « Ed io così credo, così affermo, e così certo sono; ad altra vita migliore dopo questa passare, la dove quella gloriosa donna vive, della quale fu l'anima mia innamorata» ''(Conv., II, VIII)''.
 
La vita avvenire non è altro per lui che amore.
Questo, che nella terra è desiderio, brama, passione, diventa nel cielo beatitudine, val quanto dire godimento di ogni bene, di ogni bellezza, di ogni verità.
L'anima umana, che dipende da Dio e per Dio si conserva, vuole naturalmente essere a lui unita. E, perciocchè nella bontà della natura umana si mostra la ragione della divina, segue per natura che l'anima umana si unisce con quella per via spirituale, e tanto più forte e più tosto quanto
L'anima umana, che dipende da Dio e per Dio si conserva, vuole naturalmente essere a lui unita. E, perciocchè nella bontà della natura umana si mostra la ragione della divina, segue per natura che l'anima umana si unisce con quella per via spirituale, e tanto più forte e più tosto quanto quelle appaiono più perfette.
Ora è appunto questa unione spirituale che costituisce l'amore, per cui si può conoscere qual è l'anima intimamente.
Questo amore appunto, cioè l'unione dell'anima del Poeta con quella della sua donna gloriosa, è quello che gli ragiona dentro, allor ch'ei canta
 
Amor che nella mente mi ragiona; ''(Ivi III, 1)''
 
e, siccome egli e la donna sua sono già divenuti un cosa sola, così il sentimento e la ragione si sono in lui unificati. E appunto in questa unione spirituale, in questo connubio mistico che egli presènte la beatitudine.
 
La beatitudine, che implica perfezione dell'animo, esclude logicamente ogni attività, la quale altro non è che l'esercizio più o meno ordinato delle nostre forze per raggiungere un qualunque scopo.
 
Or, qual è il motore di ogni nostra azione, se non il bisogno?
 
E qual fine e destino hanno mai le nostre anime, se non di rivolgersi incessantemente a quel segno luminoso, che altri chiama in un modo o in un altro, ma che costituisce fermamente l'ideale della nostra esistenza?
 
E che cosa è mai la perfezione, se non il raggiungimento di questo ideale?
 
E perchè gli uomini si chiamano perfettibili, se non perchè essi tendono a traverso tutte le difficoltà a divenire perfetti?
le difficoltà sono appunto i motori delle nostre forze; quando esse cessano, cessa naturalmente ogni attività.
Coloro adunque che vivono in beatitudine non possono, secondo ragione, essere attivi ed operosi, ma soltanto contemplativi.
Or, siccome noi non possiamo concepire una vita qualunque sia, senza la condizione necessaria del moto e dell'attività, tutte quelle così dette sostanze o intelligenze perfette, che appunto perchè tali, devono vivere in perfetta calma, sono la negazione di ogni idea che noi abbiamo della vita.
 
Ciò non ostante, la vita contemplativa fu dichiarata la più perfetta e quasi beatitudine sulla terra, la quale non fu per i credenti del medio evo, e non è per i sonnambuli d'oggigiorno, che un luogo d'espiazione e d'esilio.
Da questo principio funesto, generato dal platonismo concubinato alla fede cristiana, e applicato largamente dalla Chiesa cattolica, nacque il monachesimo e la vita claustrale, cancrena della società; nacque l'ozio e l'ignoranza e l'ignavia delle plebi trafficate agevolmente da sacerdoti e da re; nacque, in una parola, quello strano spostamento di vita, per cui gli uomini si contentavano di essere automi nel mondo per esser beati nel paradiso.
 
Questa dottrina stagnante non entrò tutta e senza modificazioni nel cervello dell'Alighieri, nato fatto per operare e combattere.
 
Egli afferma che gli angeli, che altro non sono che intelligenze superiori, nature universali, o idee, come li chiama Platone, quantunque beati e perfetti, pure non cessano mai di operare, perocchè, essendo fra gli uomini la vita contemplativa e l'attiva, non puo non essere fra gli angeli, che son perfetti.
 
E fu vera fortuna che il Poeta nostro, pure esaltando la eccellenza del vivere contemplativo, non potè mai dividersi dalla vita operosa; anzi la contemplazione e le opere alternò e contemperò in guisa, che ben possiamo, secondo la sua dottrina, chiamarlo perfetto, anche più di quelle famose sostanze divise da materia, che non sono mai altrove esistite che nell'immaginazione scrofolosa dei creduli e nei sempiterni sofismi dei filosofanti.
 
Ben poteano le dottrine e i pregiudizj del tempo implicare l'ingegno sottilissimo di lui fra i labirinti e le ambagi della scuola; ben potea la religione, congiurata alla sorgente scienza, esigere dall'anima di lui un tributo di riverenza e di ossequio; ma nè la scolastica, nè la fede valsero mai a sviare talmente il suo pensiero da fargli smarrire o dimenticare la via che sola potea condurlo a grandezza.
Il filo misterioso d'Arianna, che salva il poeta dai tortuosi avvolgimenti della metafisica, è quell'istinto continuo, potente, irresistibile che lo spinge a vivere e ad operare nella realtà.
E tale istinto non solo e principalmente ci si rivela in tutte le azioni del vivere suo, non solo fra le assurde utopie della ''Monarchia'' e nelle epiche rappresentazioni del gran poema, ma è in questo libro del ''Convito'', dove le più astratte speculazioni non sono mai scompagnate da un certo senso di pratica utilità, che dà loro talvolta quel valore che forse intimamente non hanno.
 
La filosofia infatti, non essendo, per lui, che amoroso culto di sapienza, è per natura nemica dei neghittosi e dei pusillani-