Archimede (Favaro)/III: differenze tra le versioni

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Dei due trattati di Archimede che vedemmo testè menzionati da Galileo, il primo da lui citato, quello cioè intorno ai galleggianti, ha corso strane vicende.
 
Ancora nei primi anni della seconda metà del secolo decimoterzo si conservava il testo greco di tutti i trattati d’Archimede allora conosciuti, e nel 1269 esso pervenne nelle mani d’uno studioso il quale al tempo dell’effimero impero latino di Costantinopoli era stato lungamente a Tebe; tornato di là in Italia, e precisamente a Viterbo, curò di quel testo una versione latina servilmente fedele non meno nella sostanza che nella forma: dopo di che la scrittura originale sui galleggianti scomparve e la memoria ne fu affidata alla traduzione che fu certamente nota a Leonardo da Vinci, e che, pervenuta nelle mani del Tartaglia, fu da lui usata nella pubblicazione che per il primo ne curò. Fortunatamente di quella medesima versione latina venne a conoscenza uno studioso assai più perito nello studio degli antichi autori, cioè il {{AutoreCitato|Federico Commandino|Commandino}}, il quale ne fece una trascrizione chiara e corretta, sebbene abbia talvolta sostituito del proprio là dove gli pareva d’incontrare lacune od oscurità. E questi testi, ove se ne tolga un frammento greco edito dal Mai, ma che molto probabilmente è una ritraduzione dal latino, servirono agli studii ed alle traduzioni posteriori, fino a quando volle la fortuna che in questi ultimi anni s’incontrasse novamente quell’antica versione latina, del 1269, nella quale apparve tanto fedelmente conservato il carattere greco dell’originale che l’Heiberg, così famigliare con la lingua usata da Archimede, si sentì tentato di darne la restituzione del primo libro nell’idioma originale, e la diede. La scoperta in seguito da lui fatta del testo greco quasi completo di tale scrittura lo avrà messo in grado di apprezzare il valore della sua divinazione.
 
Due sole ipotesi pone Archimede a fondamento del suo trattato, cioè che in ogni liquido la parte meno compressa cede a quella che lo è maggiormente e che ogni parte è premuta dalle circostanti; l’altra dice che la spinta verso l’alto ricevuta da un solido immerso in un liquido ha come linea d’azione la verticale passante per il centro di gravità del solido. Premette poi due proposizioni dalle quali risulta dimostrato che la superficie di livello d’un liquido stagnante appartiene ad una sfera concentrica alla terra, di dove risulta immediatamente il fatto ingiustamente disconosciuto più tardi, e soltanto quasi ai nostri giorni confermato, cioè che su tutti i punti della terra il livello del mare è lo stesso, vale a dire dista ugualmente dal centro. Stabilite poi le condizioni d’equilibrio d’un solido immerso in un liquido, in capo alle quali è formulata in termini espliciti, e tali da non lasciare dubbio alcuno, la nozione del peso specifico, del quale nessuno prima di lui aveva avuta la minima idea, Archimede dimostra che se si immerge un solido in un liquido più pesante, esso tenderà ad uscirne con uno slancio proporzionale alla differenza di densità dei due corpi, ed arriva finalmente a quella proposizione nella quale consiste il cosiddetto «principio d’Archimede», e che testualmente dice: «Un corpo più pesante del liquido nel quale lo si immerge, discenderà al fondo, ed il suo peso, nel liquido, diminuirà d’una quantità misurata da ciò che pesa un volume di liquido uguale a quello del corpo».