Sopra le immagini
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XXXVIII.
SOPRA LE IMMAGINI.
Polistrato e Licino.
Polistrato. Ella dice così: Io in te, o Licino, ho scorta molta benevolenza verso di me, e desiderio di onorarmi col tuo scritto: perchè non si danno sì gran lodi se non si scrive con benevolenza. Ma sappi che io sono così fatta io, che gli adulatori non mi piacciono, anzi mi sembrano impostori, e di non libero animo: e quand’uno mi dà lodi troppo grandi e smisurate, io arrossisco, e quasi mi turo le orecchie, e mi tengo piuttosto beffata che lodata. Fino ad un certo punto si può comportare la lode, fino a che il lodato riconosca di avere in sè le cose che gli son dette: al di là di questo è sconveniente e manifesta adulazione. Eppure io conosco molti, ella dice, a cui piace se uno lodandoli, appicchi loro in parole le qualità che non hanno, per esempio, vanti di freschezza i vecchi, o ai deformi dia la bellezza di Nireo e di Faone. Credono che per lodi mutano forma e ringiovaniscono, come credeva Pelia. Ma non è così: e sarebbe assai preziosa la lode, se in fatti qualcosa potesse rimanerci della sua esagerazione. Parmi, dic’ella, che a costoro avvenga come ad un uomo brutto che si mettesse una maschera bella, e andasse superbo di tale bellezza, che ognuno gli potria strappare e stracciare, ed allora ei sarebbe più ridicolo, veduto con la faccia sua, che ei nascondeva: come ad un uomo piccoletto, che calzato i coturni, contendesse di statura con chi stando di terra lo sorpassa di tutto un cubito. Ricordava ella un fatto, e diceva che una donna di nobile stirpe, e per tutt’altro bella ed ornata, ma assai piccoletta della persona, era lodata da un poeta, il quale in una canzone fra le altre cose le cantava che ella era bella e grande, e come un pioppo alta e diritta: ed ella ringalluzziva alle lodi, come se i versi la facessero crescere, e agitava la mano. Il poeta vedendo che le piaceva la lode, gliela ricantava spesso, fintantochè uno gli si fece all’orecchio, e dissegli: Cessa, o caro; se no, la farai anche levare in piè. Simile a costei, anzi più ridicola, fu Stratonica moglie di Selenco, la quale propose a certi poeti il premio d’un talento, a chi di loro lodasse meglio la sua chioma, benchè ella fosse calva, e non avesse in testa neanche un capello de’ suoi: eppure avendo il capo così, e sapendo tutti che una lunga malattia l’aveva renduta a quel modo, ella udiva quei maledetti poeti che dicevano come ella aveva i capelli biondi, e li arricciavano a ciocche, e li paragonavano all’appio; ed ella non ne aveva uno. Di tutti costoro adunque che si lasciano dar la soia dagli adulatori ella si rideva: ed aggiungeva ancora che parecchi altri non pure nell’essere lodati, ma nel farsi dipingere vogliono l’adulazione e l’inganno. Amano, diceva ella, quei pittori specialmente che li dipingono più belli: anzi alcuni impongono all’artefice di acconciare un po’ il naso, di colorire gli occhi più neri, o qualche altra cosa che vorrebbero avere; e così senza avvedersene abbelliscono un’altra immagine, che non rassomiglia a loro. Queste e simiglianti cose ella diceva, lodando per tutt’altro la tua scrittura; ma non poteva tollerare che tu l’hai paragonata alle dee Venere e Giunone. Questo è troppo per me, diceva, anzi è troppo per la natura umana. Io non ti passo neppure di avermi paragonata a quelle eroine, a Penelope, ad Arete, a Teano, molto meno alle maggiori tra le dee; che gli dei, diceva ella, io li venero assai e li rispetto. Temo adunque che non mi accada come a Cassiopea, se accetto questa lode: benchè ella si agguagliava soltanto alle Nereidi, e rispettava Giunone e Venere. Onde, o Licino, ella comanda che tu cassi quel tratto, se no ella se ne scagionerà con le dee che tu l’hai scritto suo malgrado; e vuole che tu sappia come a lei dispiace che il libro vada intorno così, come ora sta, senza rispetto e timor delle dee: perchè crede che parrà ella un’empia, e sarà sua la colpa a permettere di essere paragonata alla Venere di Cnido, ed a quella degli orti. Ricordati le parole che in fine del libro hai dette di lei, come ella è modesta, senza superbia, non si leva su la condizione umana, ma vola terra terra: e dopo quelle parole la porti in cielo, e l’agguagli alle dee? Voleva che tu non le dessi manco senno di Alessandro, il quale, quando un architetto gli offerì di trasformare il monte Ato, e di figurarlo a somiglianza di esso Alessandro, per modo che tutta la montagna diventasse una statua del re, tenente due città nelle mani, non accettò quella offerta prodigiosa; ma stimando che era un ardire maggiore delle sue forze, acchetò quell’architettore di poco probabili colossi, e comandò che monte Ato restasse al posto suo, e non fosse rappicciolito rassomigliando a un corpiciattolo. Lodava la magnanimità di Alessandro, e diceva che egli s’era fatta una statua maggiore di monte Ato nelle menti di coloro che ricorderan sempre di lui: non essendo indizio di piccolo animo lo spregiare sì straordinario onore. Ella adunque loda anch’ella il tuo componimento, e quella invenzione delle immagini, ma non ne riconosce la somiglianza; perchè non è degna di tanto ella neppur da lontano, e nessun’altra che è donna. Però lascia a te quell’onoranza, e adora quei tuoi modelli: tu loda ciò che ella ha di umano; e non farmi, ti dice, la scarpa maggiore del piede, acciocché non mi rompa il muso camminando. E m’impose dirti un’altra cosa. Molti mi han detto che in Olimpia (se è vero, voi altri uomini il sapete)1 non si permette ai vincitori di avere rizzate statue maggiori della loro persona; che i soprintendenti stanno attentissimi che non si trapassi il vero, e che l’esamina delle statue si fa con più cura che il ricevimento degli atleti. Or bada, dic’ella, che non siamo trovati bugiardi nella misura, e i Soprintendenti non ci scartino l’immagine. Queste cose ella mi ha detto. Vedi dunque, Licino, di racconciare il libro, di toglierne quella parte, di non offendere i numi, perchè ella se ne scandalezzò assai, e raccapricciavasi leggendo, e si raccomandava alle dee, che non gliene volessero male: e la va compatita, se sentiva come donna. Quantunque, a dirti il vero, anche a me parve da dirci qualcosa. In prima, come io udii leggere lo scritto, non ci vidi peccato; ma poi che ella me lo ha indicato, comincio ad avere anch’io questa opinione: e mi è avvenuto come quando vediamo un oggetto troppo da presso e sotto gli occhi, che noi non lo discerniamo bene, ma se l’allontaniamo a giusta distanza, ci comparisce tutto nelle sue parti buone e cattive. Paragonare una creatura umana a Giunone e a Venere, che altro è se non menomare quelle dee? In questo caso non tanto il piccolo ingrandisce col paragone, quanto il grande impiccolisce essendo sforzato ad abbassarsi. Così se camminassero insieme un uomo alto ed uno di bassa statura, e dovessero parere eguali, quest’uguaglianza non ci sarebbe mai ancorchè il bassetto si stendesse e camminasse su le punte dei piè; ma, se debbono parere eguali, è forza che l’alto si chini e paia basso. Allo stesso modo in cotesto immagini non tanto l’uomo si fa grande se è paragonato ad un Dio, quanto la divinità deve abbassarsi e piegarsi alla fralezza umana. Eppure se per manco di paragoni terrestri uno pigliasse i celesti, la necessità diminuirebbe il peccato: ma tu avendo tante belle donne, ardisti di paragonarla a Giunone e a Venere senza una necessità. Onde questo è troppo, e fa male, e toglilo, o Licino; perchè non è secondo tua natura, che una volta non eri tanto facile e corrivo a dar lodi, ed ora non so come m’esci fuor del manico, e d’avaro che n’eri, ne se’ diventato prodigo, e ne sborri tante. Nè ti vergognare di correggere lo scritto già pubblicato, che anche Fidia si dice aver fatto così quando lavorò il Giove per gli Elei. Stando dietro la porta, che egli apri quando la prima volta mostrò la sua opera, udiva la gente che riprendeva qualcosa o lodava: chi diceva il naso troppo grosso, chi la faccia alquanto lunga, e chi una cosa e chi un’altra. Poi che tutti furono partiti, Fidia si rinchiuse, e corresse e racconciò la statua secondo il parere della gente: perchè credeva non fosse da dispregiare il consiglio di tanto popolò, e che di necessità veggono meglio molti che uno, e sia anche un Fidia. Queste cose ti dico da parte di lei, e te ne prego anch’io, che ti sono amico e ti voglio bene.
Licino. Sei un orator sì valente, o Polistrato, ed io nol sapevo! Sì lunga diceria, e tale un’accusa hai sfoderata contro il mio scritto, che non m’hai lasciata neppure la speranza di difenderlo: ma una cosa avete fatta contro la legge, specialmente tu, a condannare il libro in contumacia, non presente il suo avvocato. Chi corre solo vince il palio, dice il proverbio: onde non è maraviglia se io ho persa la lite, non assegnatimi termini, non concedutami difesa. Ed il più nuovo è che voi siete accusatori e giudici. Che vuoi dunque che io faccia? accettar la sentenza e cagliare? o come il poeta d’Imera2 scrivere una palinodia? o pure mi concederete di difendermi in appello?
Polistrato. Oh, se hai ragioni a dire, di’; chè non tra avversari, come l’intendi tu, ma tra amici si farà tua difesa. Ed io stesso son pronto ad aiutarti in questa causa.
Licino. Una cosa mi dispiace, o Polistrato, che ella non è presente al mio discorso, che saria meglio per me se fosse qui. Ora debbo fare una difesa per mandato. Ma se tu riferirai a lei le mie parole, come a me hai riferite le sue, io m’arrischierò su questo dado.
Polistrato. Per questo non dubitare, o Licino. Io non le rappresenterò male la tua difesa, se tu la farai breve, per ricordarmela meglio.
Licino. Eppure ci vorria discorso lungo contro un’accusa sì grave. Ma io lo stringerò per cagion tua. Adunque da parte mia riferiscile queste cose.
Polistrato. Non così, o Licino: ma recita il discorso come se ella fosse qui presente: io poi l’imiterò innanzi a lei.
Licino. Dunque giacchè così vuoi, o Polistrato, poniamo che ella sia qui presente, e che abbia detto ciò che tu mi hai riferito: tocca ora a me rispondere. Benchè, debbo dirti quel che sento, io non so come tu m’hai messo in un grande impaccio, e come vedi, sono tutto sudato e smarrito, e mi pare proprio di vederla, e sono tutto sossopra. Pure comincerò, perchè già sono innanzi a lei, e non posso più ritirarmi.
Polistrato. Sì: ed ella ti si mostra tutta benigna in viso: vedila come è lieta e graziosa! Onde incomincia pure franco ed ardito.
Licino. O la migliore delle donne, le lodi che ti ho date, e che tu dici troppo grandi e smisurate, io non vedo che sono tanto grandi quanto l’elogio che tu stessa hai fatto di te, mostrandoti così timorata degli Dei. Questa virtù è maggiore di quasi tutte le altre che ho dette di te; e tu dèi perdonarmi se io non te ne ho dipinta l’immagine, sfuggitami per ignoranza, e che avrei dovuto dipingere innanzi a tutte le altre. Onde per questa parte non mi pare di aver trasmodato nelle lodi, ma di aver detto assai meno del tuo merito. Vedi infatti che gran cosa ho tralasciata, e quanto ella importa a dimostrare la bontà dei costumi e la rettitudine dell’animo, che i più rispettosi con gli Dei sono i migliori verso gli uomini. Onde se pur bisognasse correggere lo scritto, e ritoccare il ritratto, io non ardirei togliervi niente, ma si aggiungervi questo come capo e cima di tutta l’opera. Per un’altra cagione ancora io ti so grado assai: perchè avendo io lodata la moderazione dell’animo tuo, è che l’altezza in cui sei non ti fa superbire nè gonfiare, tu riprendendo questa parte dello scritto, confermasti la verità della lode. Il non pigliarsi queste lodi, ma vergognarsi, e dire che le son troppe per te, è indizia di animo modesto e civile. Ma di quanto tu sei più schiva d’essere lodata, di tanto più degna ti mostri di maggiori lodi. Questo il caso del detto di Diogene, il quale dimandato: come uno può divenir glorioso? rispose: se disprezza la gloria. E se uno dimandasse a me: chi sono i più degni di lode? risponderei: quelli che lìpn vogliono essere lodati. Ma questo forse non c’entra, e mi dilunga dalla quistione. Il punto sul quale io debbo difendermi è, che io figurando le tue forme, ti ho paragonata alla Venere di Cnido, a quella degli Orti, a Giunone, a Minerva. Questo t’è paruto eccessivo e smisurato: e di questo appunto io parlerò. Antico è il detto che non danno malleveria nè poeti nè pittori; molto meno i lodatori, credo io, ancorchè tengano un linguaggio basso e pedestre come il nostro, e non si innalzino su i versi. Perchè la lode è cosa libera; nessuna legge ne assegna la grandezza o la brevità; ella non mira ad altro che a fare ammirare ed imitare il lodato. Ma io non voglio seguitar questa via, acciocchè tu non creda che io, per non aver che dire, m’appigli alle funi del cielo. E dico che tu devi sapere come noi tra gli altri luoghi di questi discorsi laudativi abbiamo che il lodatore deve usare d’immagini e di paragoni. Il forte sta nel paragonare bene, e questo bene si discerne specialmente così: non se accozzi fra loro cose simili, non se fai un paragone con una cosa inferiore, ma se innalzi, quanto conviene, ad una cosa superiore quella che tu lodi. Così, se uno lodando un cane, lo dicesse maggiore d’una volpe o d’una gatta, diresti tu che costui sappia lodare? Certo che no. E se lo dicesse eguale ad un lupo neppur gli darebbe gran lode. Dove dunque sta la perfezion della lode? Se si dicesse che il cane agguaglia il leone per grandezza e per forza, come il poeta lodando il cane d’Orione lo disse domaleone; questa sarebbe la perfetta lode d’un cane. Così ancora se uno volesse lodare Milone crotoniate, o Glauco di Caristo,3 o Polidamante, e dicesse che ciascuno di questi fu più forte d’una donna, non saria egli ridicolo per sì sciocca lode? e se lo dicesse più gagliardo d’un altro uomo, neppur basterebbe questo a lodarlo. Ma come il gran poeta lodò Glauco? dicendo: Neppure la forza di Polluce gli protenderebbe le mani contro, nè il ferreo figliuolo d’Alcmena. Vedi a quali iddii lo paragonò, anzi lo mostrò superiore? Nè Glauco si scandalezzò di esser lodato più degl’iddii protettori degli atleti, nè quegl’iddii si vendicarono con Glauco, col poeta, che l’aveva empiamente lodato; ma tutti e due vennero in fama ed onoranza fra i Greci, Glauco per la forza, ed il poeta per altre sue canzoni, e per questa ancora. Non ti maravigliare adunque se anch’io volendo fare un paragone, che era necessario per lodare, mi sono servito d’un esempio un po’ alto, che la ragione stessa mi suggeriva. Ma giacchè toccasti dell’adulazione, e che aborrisci gli adulatori, io ti lodo, nè potrei altramente: ma ti voglio distinguere e definire l’opera del lodatore, e la disorbitanza dell’adulatore. L’adulatore adunque, essendochè loda per utile proprio e sicura poco della verità, crede dover soprallodare ogni cosa, spacciando bugie e aggiungendo molto del suo; sicchè sarà pronto a dire che Tersile era più bello d’Achille; e Nestore il più giovane di quanti combatterono a Troia: giurerà ancora che il figliuolo di Creso aveva l’udito più fine di Melampo, e Fineo la vista più acuta di Linceo, se spererà di guadagnar pure qualcosa con questa bugia. Il lodatore loda sì, ma non mentisce mai, non inventerà di suo capo cose che non sono affatto, ma trovando qualità naturalmente buone, ancorchè non molto grandi, egli le accrescerà e le farà parere più grandi. Ed ardirà dire, volendo lodare un cavallo, animale che tutti sappiamo naturalmente leggero e corridore, che
Correa su per le cime ctelle ariste
Senza piegarle;
e non avrà scrupolo a dire: il procelloso corso de’ cavalli. E se loda una bella casa e ben costruita, dice
Tale per fermo dell’olimpio Giove
Dentro è il palagio.
Ma l’adulatore dirà questo verso anche al tugurio d’un porcaio, purchè speri di acchiappar qualche cosa dal porcaio: come Cineto, l’adulatore di Demetrio Poliorcete, avendo votato tutto il sacco delle adulazioni, mentre Demetrio era molestato dalla tosse, ei lodavalo che armoniosamente spurgava. Ma non pure questo è il carattere degli uni e degli altri, che gli adulatori sono pronti a mentire per ingraziarsi coi lodati, ed i lodatori tentano pur di rialzare le qualità buone che altri possiede; ma v’è ancora un’altra differenza non piccola; che gli adulatori usano delle iperboli quanto più possono; e i lodatori, se l’usano, sono sobrii, e si rimangono fra certi termini. A questi pochi segni tra i molti puoi riconoscere l’adulazione e la lode vera, acciocchè non sospetti di tutti quei che lodano, ma sappi distinguere e misurare ciascuno con la misura sua. Queste sono due squadre, con le quali puoi squadrare le cose che io ho dette, e vedere se si adattano a questa o a quella. Se io avessi detto d’una brutta che la è simile alla statua di Cnido, eh, via, sarei a ragione un impostore, un adulator più feccioso di Cineto; ma di una che tutti sanno chi è, non è stato poi un ardire sì smisurato. Forse mi dirai, anzi mi hai già detto: bene, loda pure la bellezza, ma senza quella lode scandalosa di assomigliare alle dee una donna. Ma io, la verità vuole esser detta, io non alle dee ti ho assomigliata, leggiadrissima donna, ma alle opere di valenti artefici, fatte di pietra, di bronzo, d’avorio. Non parmi empietà paragonare uomini a cose fatte da uomini: salvo se tu non istimi che sia Pallade la fattura di Fidia, o sia Venere celeste la statua che Prassi tele fece in Guido non ha molti anni. Ma bada che non sia un’irreverenza avere questo concetto degl’iddii, le cui vere immagini io credo che ingegno umano non possa ritrarre. Se poi io ti ho agguagliata a quelle dee, non è colpa mia sola, se v’è colpa, nè io primo ho tenuto questa via, ma molti e bravi poeti, e massimamente il tuo cittadino Omero, il quale ora io chiamerò per mio avvocato, o pure dovrà anch’egli essere condannato con me. Dimanderò dunque a lui, più che a lui, a te, che si bene ricordi tutti i suoi versi più belli: che ti pare quando egli dice della cattiva Briseide, che simile all’aurea Venere piangeva Patroclo? E poco appresso, come se fosse stato poco l’averla assomigliata a Venere, soggiunge:
Sì dicea lagriinando la donzella
Pari alle dive.
Quando egli dice così, forse abborrisci anche lui, e getti il libro, gli concedi di spaziarsi libero nella lode? E se anche non glielo concedi tu, gliel’hanno conceduto tante età, nelle quali non si è trovato uno che l’abbia incolpato di questo, neppure colui che osò flagellarne la statua, nè colui che ne postillò i versi bastardi.4 Ed a lui sarà permesso di paragonare all’aurea Venere una donna barbara che piange, ed io (non dirò della tua bellezza, che non vuoi udirne) io non potrò paragonare a statue d’iddii una donna di lieto volto e di facile sorriso, cose che gli uomini hanno simili agli Dei? Nel figurare Agamennone vedi quanto risparmiò gli Dei, e come ne distribuì le immagini con simmetria, dicendolo negli occhi e nel capo simile a Giove, nel cinto a Marte, nel petto a Nettuno, dando a ciascun membro dell’uomo un’immagine d’un gran dio. E più appresso lo dice simile all’omicida Marte, ed assomiglia altri ad altri dei: il frigio Priamo ha l’aspetto d’un dio; pari ad un dio è il Pelide. Ma ritorniamo agli esempi femminili, ed eccoti che egli dice:
Somigliante a Diana, o all’aurea Venere.
e
Quale Diana va pei monti.
E non pure gli uomini ei paragona agli Dei, ma anche la chioma di Euforbo, benchè lorda di sangue, paragonò a quella delle Grazie. Insomma questi esempi sono tanti che non c’è parte di quel poema che non sia ornata di similitudini agli Dei: onde bisogna cancellarli tutti, o concedere anche a me di potere lo stesso. E tanto non c’è peccato in queste immagini e similitudini che Omero, lodando le stesse dee, non dubitò di usare di paragoni bassi. Paragonò gli occhi di Giunone a quelli del bove. Un altro poeta disse che Venere ha le palpebre screziate di color di viola. E la ditirosata chi non la conosce, anche essendo poco pratico d’Omero? Eppure non è gran cosa se si dice che uno all’aspetto rassomiglia ad un dio; ma quantici sono che hanno i nomi stessi degl’iddii, e chiamansi e Dionisii, ed Efestioni, e Zenoni, e Posidonii, ed Ermeti?5 Ci fu una donna detta Latona, moglie di Evagora re di Cipro; e pur la dea non se ne sdegnò, e avria potuto trasmutarla in sasso, come Niobe. Non parlo poi degli Egiziani che sono timoratissimi, e fanno un abuso de’ nomi degli dei, e danno a quasi tutte le cose loro nomi celesti. Onde lascia stare tanto scandalo per questa lode: se nello scritto è qualche peccato contro la divinità, tu non ci hai colpa affatto, salvo se non ti credi in colpa per averlo udito; gli Dei castighino me, come prima di me castigarono Omero e gli altri poeti. Ma essi non hanno ancora castigato il principe de’ filosofi che dice l’uomo essere immagine di Dio. Avrei molte altre cose a dirti, ma finisco per cagione di questo Polistrato, acciocchè possa ricordarsi di quelle che ho dette.
Polistrato. Non so se posso, o Licino, che hai parlato a lungo, e più del tempo che t’assegnava l’ampollina; pur tenterò di ricordarmi. Ed ecco che men vo difilato da lei, e con le orecchie turate, affinchè qualche accidente per via non mi sconfonda l’ordine delle cose, e poi non m’accada di esser fischiato dagli spettatori.
Licino. Questo tocca a te, o Licino, come rappresentar bene la parte tua: io per me t’ho dato il dramma, e subito mi ritiro: quando il banditore pubblicherà il voto dei giudici, allora mi presenterò anch’io per vedere quale sarà il fine di questa contesa.
Note
- ↑ Le donne non intervenivano ai giuochi olimpici.
- ↑ Stesicoro d’Intiera scrisse vituperii di Elena, e ne fu punito con la perdita degli occhi: ne ricantò la palinodia, e rivide lume.
- ↑ Questo Glauco, di Carisio, città di Negroponte, era un contadino di sì dure forze che un dì, uscitogli dell’aratolo il vomere, vel conficcò con un pugno. Il padre, vedendo tanta gagliardia, lo fece ammaestrare nella lotta o nel cesto; e lo menò in Olimpia, dove abbattè tutti gli avversari, e riuscì un terribile atleta. Pindaro ne cantò in un’ode che è andata perduta, ed alla quale si accenna appresso.
- ↑ Il primo fu Zoilo, o, come vuole lo scoliaste, Zenodoto: il secondo Aristarco.
- ↑ Da Bacco, Vulcano, Giove, Nettuno, Mercurio.