Sofonisba (Alfieri, 1946)/Atto primo

Atto primo

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Personaggi Atto secondo

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ATTO PRIMO

SCENA PRIMA

Siface fra Centurioni Romani.

Finché rieda Scipione, almen lasciarmi

con me stesso potreste. — Il piè, la destra,
gravi ha di ferro; al roman campo in mezzo
Siface stassi; ogni fuggir gli è tolto:
gli sia concesso il non vedervi, almeno.


SCENA SECONDA

Siface.

Duro a soffrirsi il soldatesco orgoglio!

Se il lor duce in superbia anco gli avanza,
come in vero valor... Ma no; mi è noto
Scipione: in Cirta, entro mia reggia, io l’ebbi
ospite giá: molto era umano, e mite...
Stolto Siface! or, che favelli? Allora
Scipione a te, per mendicare ajuti,
venía; né allor, tuo vincitore egli era. —
Ahi, vinto re! preso in battaglia, e tratto
ferito in ceppi entro al nemico campo,
ancor tu vivi?... Oh Sofonisba! a quali
strette mi traggi? Or, che piú omai non debbo,

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né viver voglio, a tal son io, che morte

dar non mi possa?... Ma il fragor di trombe
giá mi annunzia Scipione. Eccolo. Oh vista!


SCENA TERZA

Scipione, Siface.

Scip. Resti ogni uomo in disparte. All’infelice

re fora insulto ogni corteggio mio. —
Siface, ove pur mai duol si potesse
allevíar di vinto re, mi udresti
parole or muover di pietá: ma nota
m’è del tuo cor l’altezza, a cui novella
piaga sarebbe ogni pietoso detto.
Quind’io non altro omai farò, che trarti
con la mia mano stessa i mal portati
ferri: sgravar questa tua destra, io ’l deggio.
Memore ancor son io, che questa destra,
e d’amistade e d’alleanza in pegno,
tu mi porgevi in Cirta. — Ma, che veggo?
Sdegni il mio ufficio? e torvo immoto il ciglio
nel suolo affiggi? Ah! se in battaglia preso
Scipion ti avesse, ei d’altri lacci avvinto
non ti avria, che de’ tuoi, col rimembrarti
la tua giurata fede. Or dunque, cedi
(ten priego) il ferreo pondo di te indegno;
cedilo a me; lo sconsolato viso
innalza; e in un, mira Scipione in volto.
Siface Scipione in volto? io ’l rimirai da presso,
con fermo viso, piú volte in battaglia:
arbitra d’ogni cosa or vuol fortuna,
ch’io piú mirar non l’osi. In questo campo
sol di Siface il morto corpo addursi
dai Romani dovea: ma, non è sempre
dato ai forti il morire; ed io quí prova

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trista ne sono; ahi misero! — Dovute

quindi a me son queste catene; e quindi
son nel limo dannati ora i miei sguardi;
ch’io agli occhi mai del vincitor nemico
ergerli non potrei.
Scip.   Non è dei vinti
Scipion nemico; e benché a lui fortuna
solo finor l’aspetto lieto aprisse,
non per prosperi eventi ei va superbo,
come non mai vil per gli avversi ei fora. —
Cortese forza io far ti vo’. Disciolti
ecco i tuoi ceppi indegni: a solo a solo,
pari con pari, or con Scipion favella.
Siface Umano parli, e il sei. Se l’esser vinto
soffribil fosse a un re, dall’armi tue
esserlo, il fora. Ma, che posso io dirti,
che della prisca mia grandezza, e a un tempo
della presente mia miseria, degno
parer ti possa? E a te, che resta a dirmi,
ch’io giá nol sappia?
Scip.   Io? ti dirò, che grande,
che magnanimo tanto ancor ti estimo,
ch’io non dubito chiedere a te stesso
del tuo cangiarti la cagion verace.
Siface Fuor che a fedele esperto amico, il cuore
non suolsi aprir; ma o radi molto, o nulli,
dei tali ai re ne tocca. Indegno io forse
di amici veri, abbenché re, non era:
e, in prova, aprirti ora il mio core io voglio.
A te, nemico generoso, io ’l posso,
meglio che a finto amico. Odimi dunque. —
Roma è tua culla, ed Affricano io nasco:
tu cittadin d’alta cittade sei;
di numerosa nazíon possente
io giá fui re. Frapposto mare il tuo
dal mio terren partiva: io mai non posi

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in vostra Italia il piede; a mano armata

stai nell’Affrica tu. Cartagin pria,
poscia l’Affrica intera, è in voi lusinga
di soggiogare. A me vicina, e quindi
ora a vicenda amica, ora nemica,
Cartagin era: e benché abborra anch’ella,
al par che Roma, i re; di orgoglio e possa
men soverchiante il popol suo, che il vostro,
men da me pure era abborrito. Offeso
è il cuor d’un re tacitamente sempre
da ogni libero popolo; qual ira
destar gli de’ quel ch’è con lui superbo? —
Eccoti piano il tutto: odiarvi a morte,
come insolenti predator stranieri,
era il mio cor: fede, amistá giurarvi,
dopo le ispane alte vittorie vostre,
era il mio senno.
Scip.   Ma il valor dell’armi
Romane a prova conosciuto avevi;
perché tua fede non serbar tu a Roma?
Siface — E che dirá Scipion, se il ver gli narro?
Scipion, quel grande, il di cui core, albergo
d’amistá, di pietá, d’ogni sublime
umano affetto, al solo amore ognora
impenetrabil fu. — Lusinghe, amore,
irresistibil possa di beltade,
quí m’han condotto; a te il confesso; e in dirlo,
non io nel volto di rossor sfavillo.
Te cittadino, amor di gloria sprona
a superare i cittadin tuoi pari;
quindi all’altro sei sordo: a un re, che in trono
eguali a se non ha, tal sprone manca;
quindi alla gloria sordo il rende ogni altra
sua passíone. A un re infelice il credi;
ch’ei verace esser può. Tu, da quel grande
che sei, piú ch’odio o spregio, pietá tranne;
ch’io da Scipion soltanto non la sdegno.

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Scip. D’amor le fiamme io non provai, ma immensa

la sua possa rispetto, e temo anch’io.
Spesso il fuggii; che antiveder suoi strali
si den, cui tardo ogni rimedio è poscia.
Di Sofonisba diffidar dovevi,
pria di vederla, tu: di Asdrubal figlia
ell’era in somma, entro a Cartagin nata,
d’odio imbevuta in un col latte, e d’ira,
contro a Roma: e se a noi dall’util tuo
eri allacciato allor, ben chiaro il danno,
che tornar ten dovea nel darne il tergo,
tu preveder potevi.
Siface   E nulla conti
quella, che l’uom si spesso inganna e regge;
la speme? Io l’ebbi, che ad Asdrubal stretto
di tai legami, entro a Cartagin nullo
piú di me vi potria: veduta poscia
di Sofonisba la bellezza, io vinto,
io preso, io servo allor, piú che nol sono
or nel tuo campo, d’uno error nell’altro
cadendo andai. Per Sofonisba il regno
or perdo io, sí; la fama, e di me stesso
la stima io perdo: e, il crederesti? in vita
pur non mi duol di rimaner brev’ora,
fin ch’io lei sappia in securtá. Non temo
per lei l’infamia; è d’alto core anch’ella;
né viva mai dietro al tuo carro avvinta,
piú che Siface, irne potrebbe: or odi,
non i sensi di un re, di stolto amante
odi or le smanie. Una gelosa rabbia
m’arde e consuma, e la mia morte allunga.
Nella mia reggia, in Cirta, omai giá forse
dalle armi vostre vinta Sofonisba,
in preda ell’è del mio mortal nemico,
di Massinissa. A lui promessa pria
sposa, che a me; forse pur ei ne ardea...
A un tal pensiero, inesplicabil sento

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disperato furor, che in me s’indonna.

Morire io bramo, e morir deggio; e mille
vie del morire, ancor che inerme, io tengo:
ma, lasso me! morir non so, né posso,
fin ch’io non odo il suo destino. In preda
a Massinissa, deh! (se a te pur cale
il mio pregar) deh! non conceder mai,
ch’ella in preda a lui cada... Oh cielo!... Avvampo
d’ira... — Ma fuor del mio regal decoro,
dove mi tragge il furor mio? — Null’altro
mi resta a dirti. Alla mia tenda intanto
soffri ch’io mi ritragga: il duolo indegno
nasconder vo’. Fuorché Scipion, non debbe
null’uom vedermi entro il romano campo
in men che regio conturbato aspetto.


SCENA QUARTA

Scipione.

Misero re! Pari a pietá mi desta

maraviglia il suo dir. — Ma, forte duolmi
ciò, ch’ei mi accenna. A Massinissa in Cirta,
espugnata oramai, per certo occorsa
Sofonisba sará: s’ei pur ne’ lacci
d’amor cadesse? e se in sua fe per Roma
ei vacillasse?... O guerrier prode, e caro
a me, non men che necessario a Roma,
io per te tremo. — Oh quali cure acerbe
ti sovrastan, Scipione! Oh! quanto costa
a umano cor l’usar la forza ai vinti
nemici stessi! E s’io mai deggio un giorno
contro l’amico usarla?... Ah! questo, in vero,
è il sol dover di capitan, ch’io abborra.