Settimo, seppellì li morti
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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1833
SETTIMO, SEPPELLÌ LI MORTI.1
Bbast’a vvede2 sto bboja de Curato
Si3 ccome seppellì Bbonaventura!
Che ffussi puro4 stato scopatura,
L’averebbe ppiù mmejjo bben trattato.
Ma cquanno che ccrep’io, per dio sagrato,
Vojjo fà stenne5 una bbrava scrittura,
Che bbuttànnome drento in zepportura
Me sce mettino bbello arissettato.
Bbisogn’èsse ggiudii6 pe’ nnun capilla7
Che ffa ppiù ccosa8 er zeppellicce9 bbene,
Che de cantacce10 in culo una diasilla.
Perch’io sentivo dì ssempre da nonno,
Che ll’anima arimane in de le pene
Come ch’er corpo suo casca a sto monno.11
19 ottobre 1833.
Note
- ↑ La settima opera di misericordia corporale.
- ↑ A vedere.
- ↑ Se.
- ↑ Fosse pure.
- ↑ Voglio fare stendere.
- ↑ Essere giudei.
- ↑ Per non capirla.
- ↑ Fa più cosa: rileva più; influisce più.
- ↑ Il seppellirci.
- ↑ Di cantarci.
- ↑ La Chiesa grida che il dannato aut ad austrum, aut ad aquilonem, in quo loco ceciderit, ibi erit. Il volgo porta più in là la credenza, dappoichè moltissimi hanno per articolo di fede, che come il corpo si avviene a cadere nel sepolcro, così l’anima cade e resta per sempre nell’inferno. Che se la cosa va realmente così, pare prenderne consistenza la opinione di qualche dotto scrittore che pensa i dannati giacere resupini e a strati come le acciughe in barile; e il fuoco eterno, compenetrando quei suoli, fare le veci del sale per la conservazione della materia che strugge.