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III.
Mi gettai la pelliccia sulle spalle, ed uscii dalla stanza col rettore, il quale correva innanzi svelto, senza neanche aspettare che il servo gli facesse lume. S’andò in fondo alla loggia lunghissima, e poi si scese da una scaletta a chiocciola, rispondente alla sagrestia. Il prete andò a prendere in un angolo un grosso cero, e lo accese alla lanterna di Pasquale. Qua e là nelle cappelle luccicavano i lumini delle lampade. Il tempio era deserto, il silenzio sepolcrale. Innanzi alla immagine del Tabernacolo solenne ardevano due candele; ma la figura non si vedeva affatto, solo scintillavano su di essa le pietre preziose e brillavano gli ori, posti, s’indovinava, in forma di diadema, di pendenti, di monili, di spilloni, di catenelle, di braccialetti, e ammonticchiati alla base. Poichè il rettore ebbe detto, in tre minuti al più, fervorosissimamente, le sue giaculatorie, si principiò in fretta la visita dei voti: quadri grandi, mezzani e piccoli, innumerevoli, nei quali appena si distinguevano al fioco lume le pietose istorie di bimbi malati in cuna, di operai precipitati dal tetto, di viandanti assassinati, di carrozze rovesciate, di case fulminate, di navi naufragate, di terribili massacri in battaglia; cuori d’argento con la loro fiamma; corone, croci, grucce, stampelle; ghirlande e mazzi di fiori artificiali; nastri di seta con frange inargentate; bambole e altri ninnoli da ragazzi: in somma, una farragine di roba, che copriva dall’alto al basso le pareti delle navi e del presbiterio, le facce dei pilastri e i fusti delle colonne.
Il vento, soffiando, scuoteva i vetri delle finestre, e vi schiacciava sopra violentemente i larghi fiocchi di neve; ma nella chiesa si sentiva un tepore grave e umido, con un odore stagnante, nauseabondo d’incenso.
Nell’uscire si passò a lato di un confessionale, dove, ritto, al posto del confessore, stava immerso nell’oscurità un fantasima. Era la fanciulla bionda, immobile come una morta. Il rettore le parlò sottovoce, poi la affidò a Pasquale, che la menò pian piano al fondo del portico, dove l’aveva condotta quando la incontrammo nell’atrio. Il rettore bisbigliava:
— Poveretta, poveretta! —
Il momento mi parve buono per tornare alle domande; ma il prete si contentò di rispondere:
— Non fa male a nessuno; gira da sè dappertutto, quieta, trasognata. Non dorme quasi mai. Il medico dice che bisogna lasciarla fare tutto quel che le garba. Dio la protegga!
La tristezza non s’addiceva al corpo, alla faccia, alla voce del reverendo: aveva bisogno di agitare le braccia, di scattare, di ciarlare, di ridere. Quando pigliava un’aria addolorata, il lungo naso mutava contorno, il profilo non era più lo stesso, e, se non fosse stato il corpo a pertica e il collo da struzzo, tali da farlo riconoscere tra un milione di preti, la mestizia avrebbe potuto servirgli di maschera. Il cordoglio, del resto, lo annebbiava per poco. Un sospiro da mantice, uno sguardo al cielo, una scrollatina di testa, ed ecco era tornata, come per incanto, la bontà chiassosa ed arzilla dell’uomo ingenuo. Si bevette un altro bicchiere, si parlò ancora una mezz’oretta, o, per meglio dire, egli parlava ed io fantasticavo; poi, alle undici, m’accompagnò in camera: niente meno che la camera destinata a monsignor vescovo, quando, ogni cinque anni, si reca a visitare il Santuario.
— Buona notte.
— Buona notte, e veda di principiare bene il nuovo anno con una santa dormita. Io domattina non potrò venire a salutarla: devo uscire per tempo. Si figuri che morì iersera il barbiere, un ciarlone, un burlone, che Dio l’abbia in gloria; ma un fior di galantuomo, e gli volevo bene come a un fratello — e il prete sospirò, mandando dai denti, che aveva radi e cavallini, un fischietto acuto. — Pasquale verrà a portarle il caffè; faremo colazione assieme un’ora prima ch’ella parta, giacchè vuole proprio partire; intanto dorma tranquillo, e felice notte.
— Felice notte. —