Senilità/XI
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XI.
Era proprio stabilito dal destino che il Balli dovesse sempre intervenire a rendere più dolorosa la situazione di Emilio in faccia ad Angiolina. Erano da lungo tempo d’accordo che l’amante di Emilio avrebbe dovuto posare allo scultore. Per incominciare il lavoro mancava solo che una buona volta Emilio si ricordasse d’avvisarne Angiolina.
Poichè era facile capire il motivo di tanta smemoratezza, Stefano si propose di non parlarne più. Per il momento gli sembrava di non poter fare altro, tranne la figura immaginata con Angiolina e, solo per passare il tempo, compiacendosi unicamente di quell’idea, impiantò i puntelli e li coperse d’argilla segnando la figura nuda. Avvolse il tutto in stracci bagnati, e pensò: — Un lenzuolo mortuario. — Ogni giorno guardava quel nudo, lo sognava vestito, lo ricopriva poi dei suoi stracci e lo bagnava con cura.
I due amici non si spiegarono in proposito. Tentando d’arrivare al suo scopo senza fare una domanda formale, una sera il Balli disse ad Emilio: — Non so più lavorare. Dispererei, se non avessi nella mente quella figura.
— Mi sono dimenticato di nuovo di parlarne ad Angiolina, disse Emilio senza però curarsi di fingere la sorpresa di chi s’accorge di un’involontaria mancanza. — Sai che fare? Quando la vedi, parlagliene tu; vedrai come s’affretterà a compiacerti.
C’era tanta amarezza in quest’ultima frase che al Balli fece compassione, e per allora non ne parlò più. Egli stesso sapeva che il suo intervento fra i due amanti non era stato molto felice e non voleva più ingerirsi nelle loro faccende. Non poteva cacciarsi fra di loro come aveva fatto ingenuamente alcuni mesi prima per il bene dell’amico, e la guarigione d’Emilio doveva essere opera del tempo. La sua bella immagine sognata tanto, l’unica che per il momento avrebbe potuto spingerlo al lavoro, veniva ammazzata dall’incurabile bestialità d’Emilio.
Tentò di compiere l’opera con un’altra modella, ma dopo alcune sedute, disgustatosene, lasciò il lavoro in asso. Veramente questi abbandoni bruschi d’idee vagheggiate a lungo s’erano verificati spesso nella sua carriera. Questa volta, e nessuno avrebbe potuto dire se a torto o a ragione, egli ne dava la colpa ad Emilio. Non v’era alcun dubbio che se avesse avuta la modella sognata, avrebbe potuto riprendere con tutta lena il lavoro fosse pure per distruggerlo qualche settimana dopo.
Si trattenne dal raccontare tutto ciò all’amico e fu l’ultimo riguardo che gli usò. Non bisognava far capire ad Emilio quanto importante fosse divenuta anche per lui Angiolina; sarebbe equivalso ad inasprire la malattia del disgraziato. Chi avrebbe potuto far capire ad Emilio che la fantasia dell’artista s’era fermata su quell’oggetto, proprio perchè in tanta purezza di linee ci aveva scoperta un’espressione indefinibile, non creata da quelle linee, qualche cosa di volgare e di goffo, che un Raffaello avrebbe soppresso e ch’egli tanto volentieri avrebbe copiato, rilevato?
Quando camminavano insieme per le vie egli non parlava del proprio desiderio, ma Emilio non aveva alcun vantaggio del riguardo usatogli perchè quel desiderio, che l’amico non osava esprimere, gli pareva anche più grande di quanto fosse e ne era geloso, dolorosamente. Oramai il Balli desiderava Angiolina quanto egli stesso. Come si sarebbe difeso da un nemico simile?
Non potè difendersene! Aveva già rivelato la propria gelosia, ma non voleva parlarne; sarebbe stato troppo sciocco mostrarsi geloso del Balli dopo di aver sopportata la concorrenza dell’ombrellaio. Questo pudore lo rese inerme. Un giorno Stefano andò a prenderlo in ufficio, come faceva di spesso, per accompagnarlo a casa. Camminavano lungo la riva del mare, quando videro avanzarsi verso di loro Angiolina tutta illuminata dal sole meridiano che le giocava nei riccioli biondi, e sulla faccia un po’ contratta dallo sforzo di tener aperti gli occhi in tanta luce. Così il Balli si trovava a faccia a faccia col suo capolavoro ch’egli, dimenticando il contorno, vide in tutti i dettagli. Ella s’avanzava con quel suo passo fermo che non toglieva niente della sua grazia alla figura eretta. La gioventù incarnata e vestita si sarebbe mossa così alla luce del sole.
— Oh, senti! — esclamò Stefano deciso. — Per una tua insulsa gelosia non impedirmi di fare un capolavoro. — Angiolina rispose al loro saluto, come da qualche tempo usava, molto seria; tutta la sua serietà si concentrava nel saluto e anche quella manifestazione di serietà doveva esserle stata insegnata da poco. Il Balli s’era fermato e aspettava un segno di consenso dall’altro. — Sia pure — disse Emilio, macchinalmente, esitante e sempre sperando che Stefano s’accorgesse con quanto dolore egli acconsentiva. Ma il Balli non vedeva altro che il suo modello il quale stava sfuggendogli; lo rincorse subito non appena Emilio ebbe detto la parola di consenso.
Così il Balli e Angiolina si ritrovarono. Quando Emilio li raggiunse li trovò già perfettamente d’accordo. Il Balli non aveva fatto complimenti e Angiolina, rossa dal piacere, aveva subito chiesto quando dovesse venire. L’indomani alle nove. Ella assentì con l’osservazione che, per fortuna, il giorno appresso non aveva da andare dai Deluigi. — Sarò puntuale — promise congedandosi. Ella aveva l’abitudine di dire molte parole, quelle che prima le venivano alle labbra, e non pensò che quella promessa d’essere puntuale, poteva dispiacere ad Emilio perchè con essa contrapponeva gli appuntamenti col Balli a quelli con Emilio.
Commessa la colpa, il Balli tornò col pensiero all’amico. Fu subito conscio di avergli fatto torto, e ne domandò affettuosamente scusa ad Emilio: — Non potevo farne a meno, quantunque sapessi di farti dispiacere. Io non voglio approfittare del fatto che tu fingi indifferenza. So che soffri. Hai torto, torto, ma so che neppure io non ho avuto ragione.
Con un sorriso forzato Emilio rispose: — Allora non ho proprio niente da dirti.
Il Balli trovò ch’Emilio era con lui anche più duro di quanto egli sapesse di meritare: — Così per farmi scusare da te non mi resta altro che avvertire Angiolina di non venire? Ebbene, se lo desideri faccio anche questo.
La proposta non era da accettare perchè quella povera donna — Emilio la conosceva come se l’avesse fatta lui — amava molto chi la respingeva ed egli non voleva le fossero date nuove ragioni d’amare il Balli. — No — dichiarò più mitemente. — Lasciamo le cose come stanno. Io m’affido in te, anzi — aggiunse ridendo — soltanto in te.
Con grande calore Stefano assicurò che egli meritava quella fiducia. Promise, giurò che il giorno in cui si fosse accorto d’aver dimenticata, nelle sedute con Angiolina, anche per un solo istante, l’arte, avrebbe messa la fanciulla alla porta. Emilio ebbe la debolezza di accettare la promessa, anzi di farsela ripetere.
Il giorno appresso il Balli venne da Emilio a fargli il rapporto della prima seduta. Aveva lavorato da indemoniato e non poteva lagnarsi d’Angiolina, la quale nella sua posa non troppo comoda, aveva resistito quanto aveva potuto. Le mancava ancora di comprendere la posa, ma il Balli non disperava di riuscirci. Era più innamorato che mai del proprio concetto. Per otto o nove sedute non avrebbe avuto neppure il tempo di scambiare una parola con Angiolina. — Quando avrò delle esitazioni per cui mi toccherà arrestarmi, ti prometto che non si ciarlerà che di te; scommetto che finirà coll’amarti di cuore.
— Tutt’al più, e non sarà male, parlandole di me l’annoierai tanto, che non amerà neppur te.
Per quei due giorni egli non potè vedere Angiolina e perciò si trovò con lei soltanto il pomeriggio della domenica, nello studio del Balli. Li trovò in pieno lavoro.
Lo studio non era altro che un vasto magazzino. Gli era stata lasciata tutta la ruvidezza della sua antica destinazione perchè il Balli non lo voleva elegante. Il pavimento lastricato era rimasto sconnesso come quando ci venivano deposte le balle di merci; soltanto nel mezzo, d’inverno, un grande tappeto salvava i piedi dello scultore dal contatto del suolo. Le pareti erano rozzamente imbiancate e qua e là, su dei sostegni, riposavano delle figurine di argilla o di gesso, non certo per esservi ammirate, chè erano accatastate piuttosto che aggruppate. Le comodità non v’erano però trascurate. La temperatura v’era resa mite da una stufa piramidale. Una grande quantità di sedie e poltrone di varia forma e grandezza toglievano allo studio, con le loro forme eleganti, il suo carattere di magazzino. Erano differenti l’una dall’altra perchè il Balli diceva di aver sempre bisogno di riposare in conformità al sogno che gli occupava la mente. Anzi trovava sempre che gli mancavano ancora delle forme di sedie di cui sentiva talvolta d’aver bisogno. Angiolina posava su un trespolo munito di soffici cuscini bianchi; in piedi, su una sedia, accanto ad un altro trespolo girevole, il Balli lavorava alla sua figura appena abbozzata.
Vedendo Emilio saltò giù per salutarlo vivacemente. Anche Angiolina abbandonò la posa e sedette sui cuscini candidi; pareva riposasse in un nido. Salutò Emilio con grande gentilezza. Da tanto tempo non si vedevano. Lo trovava un po’ pallido. Era forse indisposto? Il Brentani non seppe esserle grato di tante manifestazioni d’affetto. Ella voleva probabilmente dimostrargli gratitudine perchè la lasciava tanto sola col Balli.
Stefano s’era soffermato dinanzi al proprio lavoro. — Ti piace? — Emilio guardò. Su una base informe poggiava inginocchiata una figura quasi umana, le due spalle vestite, evidentemente quelle d’Angiolina nella forma e nell’atteggiamento. Fatta fino a quel punto la figura aveva qualche cosa di tragico. Pareva fosse sepolta nell’argilla, facesse degli sforzi immani per liberarsene. Anche la testa su cui qualche colpo di pollice aveva incavate le tempie e lisciata la fronte, appariva come un teschio coperto accuratamente di terra acciocchè non gridasse. — Vedi come la cosa sorge — disse lo scultore, gettando una occhiata, una carezza su tutto il lavoro. — L’idea c’è già tutta; è la forma che manca. — Ma l’idea non la vedeva che lui. Qualche cosa di fine, quasi inafferrabile. Doveva sorgere da quell’argilla una prece, la prece di una persona che per un istante crede e che forse non avrebbe creduto mai più. Il Balli spiegò anche la forma che voleva. La base sarebbe rimasta grezza e la figura sarebbe andata affinandosi in su fino ai capelli, che dovevano essere disposti con la civetteria del parrucchiere più modernamente raffinato. I capelli erano destinati a negare la preghiera che la faccia avrebbe espressa.
Angiolina ritornò alla posa e il Balli al lavoro. Per una mezz’ora ella posò con tutta coscienziosità, figurandosi di pregare, come le aveva ordinato lo scultore, per avere un’espressione di supplice nella faccia. A Stefano quell’espressione non piaceva, e non visto che da Emilio, ebbe un gesto di esecrazione. Quella beghina non sapeva pregare. Piuttosto che rivolgerli piamente, ella lanciava con impertinenza gli occhi in alto. Civettava col signor Iddio.
La stanchezza d’Angiolina cominciò a tradirsi nel respiro affannoso. Il Balli non se ne accorgeva affatto, essendo giunto a un punto importante del suo lavoro: piegava quella povera testa sulla spalla destra, senza pietà. — Molto stanca? — chiese Emilio ad Angiolina e, poichè il Balli non lo vedeva, le accarezzò e sorresse il mento. Ella mosse le labbra per baciare quella mano, ma non mutò di posizione. — Posso resistere ancora per un poco. — Oh, come era ammirabile, sacrificandosi a quel modo per un’opera d’arte. Se egli fosse stato l’artista, avrebbe considerato quel sacrificio come una prova d’amore.
Poco dopo, il Balli concesse un breve riposo. Egli stesso non ne sentiva certo il bisogno e nel frattempo si diede da fare intorno alla base. Nel suo lungo mantello di tela egli aveva un aspetto sacerdotale. Angiolina, seduta accanto ad Emilio, guardava lo scultore con malcontenuta ammirazione. Era un bell’uomo, con quella sua barba elegante, brizzolata, ma dai riflessi d’oro; agile e forte saltava dal bilico e vi risaliva senza che la statua si scuotesse, ed era la personificazione del lavoro intelligente, in quella sua rude veste da cui sporgeva l’elegante solino. Anche Emilio lo ammirava, soffrendone.
Si ritornò presto al lavoro. Lo scultore schiacciò ancora un poco la testa, senza curarsi se così le faceva perdere quel po’ di forma che aveva avuta. Aggiunse dell’argilla da una parte, ne tolse dall’altra. Si doveva supporre che copiasse, visto che guardava spesso il modello, ma ad Emilio non parve che l’argilla riproducesse alcun tratto della faccia d’Angiolina. Quando Stefano finì di lavorare, glielo disse, e lo scultore gl’insegnò a guardare. Per il momento la somiglianza non esisteva, che quando si guardava quella testa da un solo punto. Angiolina non si riconobbe e le dispiacque anzi che il Balli credesse di aver ritratta la sua faccia in quella cosa informe. Emilio vide quella somiglianza evidentissima. La faccia pareva addormentata, immobilizzata da una fasciatura aderente, gli occhi, non fatti, sembravano chiusi, ma si capiva che l’alito vitale stava per animare quel loto.
Il Balli avvolse la figura con un lenzuolo bagnato. Era soddisfatto del proprio lavoro, e ne era agitato.
Uscirono insieme. L’arte del Balli era veramente l’unico punto di contatto fra i due amici; parlando dell’idea dello scultore, si sentirono riavvicinati e, per quel pomeriggio, i loro rapporti ebbero una dolcezza, quale non avevano avuta da gran tempo. Perciò chi fra i tre si divertì meno fu Angiolina, la quale si sentiva quasi il terzo incomodo. Il Balli, cui non piaceva di farsi vedere in quella compagnia nelle vie ancora chiare, volle ch’ella li precedesse, ciò ch’ella fece, ritta sdegnosamente, il nasino all’aria. Il Balli parlò sempre della statua, mentre Emilio seguiva con gli occhi i movimenti della fanciulla. In tutte quelle ore non ci fu posto per la gelosia. Il Balli sognava, e quando s’occupava d’Angiolina, era solo per tenersela lontana senza scherzare e senza maltrattarla.
Faceva freddo e lo scultore propose di entrare in un’osteria a bere del vino caldo. Visto che nel locale v’era molta gente e un acre sentore di cibo e di tabacco, decisero di restare nel cortile. Dapprima Angiolina, spaventata dal freddo, protestava, ma poi, quando il Balli disse che la cosa era molto originale, ella s’avvolse nel mantiglione e si divertì a vedersi ammirata dalla gente che usciva dalla stanza calda e dal servitore che li serviva correndo. Il Balli non s’accorgeva del freddo e guardava nel bicchiere come se ci avesse scoperta la propria idea; Emilio era occupato a scaldare le mani che Angiolina gli abbandonava. Era la prima volta ch’ella gli permettesse di accarezzarla in presenza del Balli ed egli ne godeva intensamente. — Dolce creatura! — mormorò e giunse fino a baciarla sulla guancia ch’ella premette contro le sue labbra.
Era una serata chiara, azzurra; il vento sibilava sopra l’alta casa da cui essi ne erano difesi. Aiutati dalla bevanda calda, aromatica, ch’essi ingoiarono in copia, resistettero per quasi un’ora a quella rigida temperatura. Fu per Emilio un altro episodio indimenticabile del suo amore. Quel cortile fosco, azzurro, e il loro gruppo ad un’estremità del lungo tavolo di legno Angiolina abbandonata definitivamente a lui dal Balli, e più che docile, amante.
Al ritorno il Balli raccontò che quella sera doveva andare al veglione; ne era seccatissimo, ma ne aveva preso impegno con un amico, un dottore in medicina, che per divertirsi al veglione diceva d’aver bisogno della compagnia rispettabile di un uomo come lo scultore, acciocchè i suoi clienti scusassero più facilmente la sua presenza in quel luogo.
Stefano avrebbe preferito di coricarsi di buon’ora per ritornare il giorno appresso al lavoro con la mente fresca. Gli venivano brividi al pensiero di dover passare tutte quelle ore in mezzo al baccanale.
Angiolina chiese se egli avesse il palco per tutta la stagione e volle poi sapere esattamente in quale posizione. — Spero bene — disse il Balli ridendo — che se ti mascheri mi verrai a trovare.
— Non sono mai stata ad un veglione — assicurò Angiolina con grande vigore. Poi aggiunse, dopo averci pensato come se avesse scoperto allora che c’erano dei veglioni: — Mi piacerebbe tanto di andarci. — Fu stabilito subito, subito: sarebbero andati al veglione che si dava la settimana ventura a scopo di beneficenza. Angiolina spiccava dei salti dalla gioia, e parve tanto sincera che persino il Balli le sorrise con affabilità, come a un bambino cui si è lieti di aver dato con piccolo sforzo un grande piacere.
Allorchè i due uomini rimasero soli, Emilio riconobbe che la seduta non gli era dispiaciuta. Il Balli, congedandosi, convertì in fiele la dolcezza goduta quel giorno, dicendogli: — Sei stato contento di noi. Riconoscerai che ho fatto del mio meglio per soddisfarti.
Egli doveva dunque l’affabilità d’Angiolina alle raccomandazioni del Balli, e ciò lo umiliò. Era una nuova, forte ragione di gelosia. Si propose di far capire al Balli ch’egli non amava di dover l’affetto di Angiolina all’ascendente altrui. Con quest’ultima, poi, alla prima occasione, si sarebbe dimostrato meno grato di quelle manifestazioni d’affetto che l’avevano beato poco prima. Era dunque chiaro perchè si fosse lasciata tanto docilmente accarezzare in presenza del Balli. Come era sottomessa allo scultore! Per lui sapeva rinunziare alle sue affettazioni d’onestà e a tutte quelle menzogne da cui Emilio non sapeva liberarsi. Col Balli ella era tutt’altra. Col Balli che non la possedeva, ella si smascherava, con lui no!
La mattina di buon’ora egli corse da Angiolina, ansioso di vedere come sarebbe stato trattato quando Stefano non c’era. Ottimamente! Ella stessa, dopo essersi accertata ch’era lui, gli aperse la porta. Di mattina era più bella. Il riposo di una sola notte bastava a darle l’aspetto sereno di vergine sana. La vestaglia bianca di lana, rigata di turchino, un po’ consunta, secondava docile le forme precise del suo corpo e le lasciava nudo il bianco collo.
— Disturbo? — chiese lui, fosco, trattenendosi dal baciarla per non togliersi la possibilità di trovare uno sfogo nel litigio che meditava.
Ella neppure s’accorse di tutta quella musoneria. Lo fece entrare nella sua stanza: — Vado a vestirmi perchè alle nove debbo trovarmi dalla signora Deluigi. Tu intanto leggi questa lettera — e nervosamente levò una carta da un canestro — leggila attentamente e poi mi consiglierai. — Si rattristò e le si empirono gli occhi di lagrime: — Vedrai cosa avviene. A te racconterò tutto. Sei il solo che mi possa consigliare. Ho raccontato tutto anche a mamma, ma essa, poveretta, non ha che gli occhi per piangere. — Uscì, ma rientrò subito: — Bada per il caso che mamma venga qui e ti parli, ch’ella sa tutto tranne che io mi sia data al Volpini. — Gli gettò un bacio colla mano e se ne andò.
La lettera era del Volpini, una formale lettera di congedo. Incominciava col dirle che egli s’era comportato sempre onestamente, mentre ella — ora lo sapeva — l’aveva tradita fin dal principio. Emilio si mise a leggere con maggior premura quella scrittura quasi illeggibile, temendo di trovar motivato quell’abbandono col suo nome. In quella lettera non si parlava di lui. Al Volpini era stato assicurato ch’ella non era stata la fidanzata ma l’amante del Merighi. Egli non aveva voluto crederci, ma, alcuni giorni prima, aveva risaputo con piena sicurezza ch’ella era stata a parecchi veglioni in compagnia di vari zerbinotti. Seguivano poi delle grosse frasi che, malamente connesse, davano l’impressione della perfetta sincerità del buon uomo e facevano ridere solo per qualche parolona, che doveva essere stata presa di peso da un vocabolario.
Entrò la vecchia Zarri. Le mani al solito posto sotto al grembiale, s’appoggiò al letto e aspettò pazientemente ch’egli avesse terminato di leggere quella lettera. — Cosa le sembra? — chiese con la sua voce nasale. — Angiolina dice di no, ma a me sembra che la sia finita col Volpini.
Emilio era stato meravigliato da una sola delle asserzioni del Volpini. — È vero — chiese — che Angiolina sia stata tanto spesso a veglioni? — Tutto il resto, ch’ella cioè fosse stata l’amante del Merighi e di molti altri, era per lui assolutamente vero e gli pareva anzi che per il fatto che un altro era stato ingannato come e meglio di lui, egli dovesse risentirsi meno di quelle menzogne che gli erano apparse sempre offensive. Ma la lettera apprendeva anche a lui qualche cosa di nuovo. Ella sapeva fingere meglio di quanto egli avesse sospettato. Il giorno prima ella aveva ingannato persino il Balli con l’espressione di gioia che aveva avuto al pensiero di andare per la prima volta ad un veglione.
— Son tutte bugie — disse la vecchia Zarri con la calma con cui si dice cosa che si suppone già creduta da chi la ode. — Angiolina viene ogni sera a casa direttamente dal lavoro, e si corica subito. La vedo io andare a letto. — L’abile vecchia! Ella certo non era stata ingannata e non ammettava si credesse ch’ella ingannasse.
La madre uscì non appena entrò la figlia. — Hai letto? — chiese Angiolina sedendoglisi accanto. — Che te ne sembra?
Con tanto di muso, Emilio disse rudemente che il Volpini aveva ragione, perchè ad una promessa sposa non era permesso di andare ai veglioni.
Angiolina protestò. Lei ai veglioni? Non aveva visto la gioia ch’ella aveva provato la sera prima, all’idea di andare ad un veglione, il primo in vita sua?
Citato in quel modo, l’argomento perdeva ogni vigore. Quella gioia, ricordata come una prova, doveva esserle costata una grande fatica se poi s’era impressa tanto bene nella memoria. Ella portò anche molte altre prove: era stata con lui tutte le sere che non aveva dovuto andare dalla Deluigi; non possedeva un solo straccio che potesse servire a mascherarsi, ed anzi contava sul suo aiuto per provvedersi del necessario per la mascherata che avevano progettata. Non convinse Emilio, ormai sicuro ch’ella era stata tutto quel carnevale frequentatrice assidua dei veglioni, ma dalle tante prove portate con un calore seducente, egli fu rabbonito. Ella non s’offendeva dell’offesa fattale d’aver dubitato di lei. Ella s’attaccava a lui, cercava di convincerlo e di commuoverlo, e il Balli non c’era!
Poi capì ch’ella aveva bisogno di lui. Ella non voleva ancora lasciar libero il Volpini e, per tenerlo, contava sui consigli d’Emilio, nel quale aveva l’enorme fiducia che hanno gli incolti per i letterati. Quest’osservazione non tolse ad Emilio la soddisfazione per l’affetto che gli era offerto, perchè era sempre meglio che doverlo al Balli. Volle anche meritarsi quelle espansioni e si mise a studiare con tutta serietà la questione che gli era sottoposta.
Dovette subito accorgersi ch’ella la comprendeva meglio di lui. Con grande accortezza ella osservò che per sapere come si dovesse comportarsi, bisognava prima di tutto sapere se il Volpini credesse nelle notizie ch’egli dava per sicure o se avesse scritta quella lettera tentando con essa di appurare vaghe voci raccolte; e poi, l’aveva scritta con la ferma intenzione di prendere congedo, oppure per minaccia e pronto a cedere al primo passo che Angiolina avrebbe fatto verso di lui? Emilio dovette rileggere quello scritto e gli fu forza ammettere che il Volpini affastellava troppi argomenti per averne uno solo di assolutamente buono. Di nomi non citava che quello del Merighi. — Quanto a questo so ben io come rispondere, — disse Angiolina con grande ira. — Egli dovrà pur riconoscere d’avermi posseduta per primo.
Messo su quella via, Emilio fece un’osservazione che corroborò il modo di vedere di Angiolina. Nella chiusa magniloquente, il Volpini dichiarava che la lasciava, prima di tutto perchè lo tradiva, e poi perchè la trovava freddissima con lui e sentiva ch’ella non lo amava. Era quello il momento di lagnarsi di un difetto, ch’era forse il solo di carattere, se gli altri rimproveri avevano quella serietà che lo scrivente aveva voluto far credere? Ella gli fu gratissima di quell’appunto che confermava all’evidenza la giustezza della propria interpretazione e non ricordò ch’era stata lei ad avviarlo a quella ricerca. Oh, ella non era una letterata nè ci teneva ad essere lodata. Si trovava nella lotta e impugnava con la stessa energia ogni arme che le sembrasse efficace, senza curarsi di vedere chi l’avesse costruita.
Ella non volle scrivere subito al Volpini perchè aveva da correre via essendo attesa dalla signora Deluigi; ma a mezzodì si sarebbe trovata in casa e pregava Emilio di venirci anche lui. Lo aspettava, e fino a quell’ora, tanto lui quanto lei dovevano pensare unicamente a quell’oggetto. Anzi egli doveva portare con sè in ufficio quella lettera per studiarla con comodità.
Uscirono insieme, ma ella lo prevenne che si dovevano dividere prima d’entrare in città. Ella non aveva più alcun dubbio che a Trieste vi fossero delle persone incaricate di spiarla per conto del Volpini: — Infame! — esclamò con enfasi. — M’ha rovinata! — Odiava il suo antico promesso, come se fosse stato veramente lui a rovinarla. — Ora naturalmente, egli sarebbe lieto di liberarsi del suo impegno, ma avrà da fare con me. — Confessò ch’ella l’odiava profondamente. Le faceva fastidio come una sucida bestia. — Sei stato tu la colpa che mi sono data a lui — Vedendolo sorpreso di quell’incolpazione, fatta per la prima volta con violenza, ella si corresse: — Se non per tua colpa, certo per amor tuo.
Con queste dolci parole lo lasciò ed egli restò convinto che l’incolpazione non era stata fatta per altro motivo che per indurlo ad appoggiarla con tutte le forze in quella lotta ch’ella stava per imprendere contro il Volpini.
Egli la seguì per un pezzo e vedendola in mezzo alla via, offrirsi sfacciatamente con l’occhio ad ogni passante, fu ripreso dalla sua malattia che dominò ogni altro suo sentimento. Dimenticando la paura che ella s’aggrappasse a lui, egli ebbe una gioia intensa dell’accaduto. L’abbandono del Volpini le faceva sentire bisogno di lui e a mezzodì, per un’altra ora intera egli avrebbe potuto tenerla tutta per sè e sentirla intimamente sua.
Nella città laboriosa, in cui a quell’ora nessuno camminava per diporto, la figura di Angiolina, morbida e colorita, con quel passo calmo e quell’occhio attento a tutt’altra cosa che alla propria strada, attirava l’attenzione di tutti. Ed egli sentì che, vedendola, si doveva immediatamente pensare all’alcova per cui ella era fatta. Non uscì per tutta la mattina dall’eccitazione che aveva prodotta in lui quell’immagine.
Si propose di far sentire a mezzodì ad Angiolina il valore del proprio aiuto, e di fruire di tutti i vantaggi che quella posizione eccezionale gli offriva. Fu ricevuto dalla vecchia Zarri, che con grande gentilezza lo invitò ad accomodarsi in stanza della figlia. Egli, stanco della salita che aveva fatta rapidamente, si assise, sicuro di veder comparire Angiolina. — Non c’è ancora — disse la vecchia guardando verso il corridoio come se anche lei si fosse attesa di veder capitare la figlia.
— Non c’è? — chiese Emilio provando una delusione tanto dolorosa da indurlo persino a non credere alle proprie orecchie.
— Non capisco perchè ritardi — continuò la vecchia, sempre guardando fuori della porta. — Sarà stata trattenuta dalla signora Deluigi.
— Fino a che ora potrebbe tardare? — domandò egli.
— Non so, — rispose l’altra con una grande ingenuità. — Potrebbe essere qui subito, ma se ha pranzato dalla signora Deluigi, allora potrebbe tardare anche fino a questa sera. — Stette zitta per un istante, molto pensierosa e poi, più sicura, soggiunse: — Non credo però che resti a pranzo fuori di casa, perchè il suo pranzo è pronto di là.
Acuto osservatore, Emilio s’accorse benissimo che tutti quei dubbi erano finti, e che la vecchia doveva sapere che Angiolina non sarebbe venuta tanto presto. Ma, come sempre, la sua forza d’osservazione gli fu di piccola utilità. Trattenuto dal desiderio, attese lungamente, mentre la madre di Angiolina gli faceva compagnia, silenziosa, seria tanto, che poi nel ricordo Emilio la scoperse ironica. La più piccola delle figlie era venuta a porsi accanto alla madre e si soffregava sul fianco di costei come un gattino sullo stipite di una porta.
Egli se ne andò sconfortato, congedato dai saluti gentilissimi della vecchia e della fanciulla. Egli accarezzò i capelli di quest’ultima, che avevano il colore di quelli dell’Angiolina. In genere, salvo la rosea salute, ella andava somigliando alla sorella.
Pensò che forse sarebbe stato saggio partito vendicarsi di quel tiro d’Angiolina, non andando da lei finchè ella non l’avesse chiamato. Ora che ne aveva bisogno sarebbe venuta ben presto in cerca di lui. Ma la sera, subito dopo l’ufficio, egli rifece la strada proponendosi intanto d’indagare la causa di quell’inesplicabile assenza. Era possibilissimo che si fosse trattato di un caso di forza maggiore.
Trovò Angiolina ancora vestita come quando l’aveva accompagnata la mattina. Era rientrata in quell’istante. Ella si lasciò baciare ed abbracciare con la dolcezza che usava quando aveva bisogno di ottenere un perdono. Le sue guance erano in fiamme e la sua bocca puzzava di vino.
— Infatti ho bevuto molto — disse ella subito ridendo. — Il signor Deluigi, un vecchio cinquantenne, s’era proposto di farmi prendere una sbornia; ma non c’è riuscito mica, veh! — Eppure doveva esserci riuscito meglio di quanto ella credesse, e ne faceva fede la sua smodata allegria. Si contorceva dalle risa. Era bellissima, con quell’insolito rossore alle guance e gli occhi lucenti. Egli la baciò nella bocca spalancata, sulle gengive rosse, ed ella lo lasciò fare, passiva come se il caso non fosse suo. Continuava a ridere, e raccontava, a frasi smozzicate, che non soltanto il vecchio, ma tutta la famiglia aveva preso l’impegno di farle perdere la testa e che sebbene fossero in tanti, non c’erano riusciti. Egli tentò di renderla ragionevole parlandole del Volpini. — Lasciami in pace con quella roba! — gridò Angiolina e, visto ch’egli insisteva, ella senza rispondere, lo baciò e abbracciò come egli aveva fatto sino allora con lei nella bocca e sul collo, aggressiva come non era stata mai e finirono sul letto, ella col cappellino ancora in testa e col soprabito indosso. La porta era rimasta spalancata, ed era difficile che i suoni di quella battaglia non fossero arrivati sino alla cucina ove si trovavano il padre, la madre e la sorella d’Angiolina.
L’avevano ubbriacata davvero. Strana casa quella di quei signori Deluigi. Egli non portò con sè alcun rancore contro Angiolina perchè la sua soddisfazione, quella sera, era stata proprio perfetta.
Il giorno dopo si ritrovarono a mezzodì ambedue di umore eccellente. Angiolina assicurò che la madre non s’era accorta di nulla. Poi disse che deplorava d’essersi lasciata cogliere in quello stato. La colpa non era sua: — Quel maledetto vecchio Deluigi!
Egli la tranquillò, assicurandola che se fosse dipeso da lui ella si sarebbe ubbriacata una volta al giorno. Poi composero la lettera al Volpini con un’accuratezza di cui non sarebbero sembrati capaci nello stato d’animo in cui si trovavano.
Angiolina era potuta sembrare superiore nell’interpretazione della lettera del Volpini; la risposta colò intera dalla penna esperta di Emilio.
Ella avrebbe voluto scrivere una lettera d’insolenze; voleva sfogare in essa soltanto l’indignazione di una ragazza onesta, sospettata a torto. — Anzi — osservò con un’ira magnanima — se il Volpini fosse qui, gli darei uno schiaffo, senz’addurre alcuna giustificazione. Sarebbe subito convinto d’aver avuto torto.
Non c’era male, ma Emilio voleva procedere con maggior cautela. Con grande ingenuità e senza che ella pensasse d’offendersene, le raccontò ch’egli, per studiare con più facilità il problema, s’era posta la domanda: Nei panni d’Angiolina come si sarebbe comportata una ragazza onesta? Non raccontò che aveva concretata la donna onesta in Amalia e s’era chiesto come la sorella si sarebbe comportata nel caso in cui avesse avuto da rispondere alla lettera del Volpini; le comunicò i risultati ottenuti. La donna onesta avrebbe provato da prima una grande, enorme sorpresa; poi il dubbio che si trattasse di un malinteso e in fine, ma appena in fine, il sospetto orribile che tutta la lettera fosse da attribuirsi al desiderio dell’amante di sottrarsi ai suoi impegni. Angiolina fu incantata di tutta quella ricostruzione di un processo psicologico, ed egli si mise subito al lavoro.
Ella gli sedette accanto zitta zitta. Si lavorava per lei e, appoggiata con una mano sul suo ginocchio, la testa vicinissima alla sua per poter leggere subito quello ch’egli via via scriveva, gli si faceva sentire senza incomodarlo punto nello scrivere. Quella vicinanza tolse alla lettera l’aspetto di rigida preparazione e — se non fosse stata destinata ad un uomo come il Volpini — anche l’efficacia, perchè perdette la misura dignitosa ch’egli aveva pensato di dover darle. Perciò penetrò in quelle frasi qualche cosa di Angiolina. Gli venivano alla penna dei grossi paroloni ed egli li lasciava correre beato di vederla estatica dall’ammirazione, con la stessa espressione con la quale giorni prima aveva guardato, nello studio, il Balli.
Poi, senza rileggerla, ella si mise a copiare quella prosa, soddisfattissima di potervi apporre la propria firma. Ella era apparsa ben più intelligente quando aveva ragionato sul modo di comportarsi, che non ora nella sua incondizionata approvazione. Copiando non seppe dare alla lettera la sua attenzione, perchè la calligrafia le dava molto da fare.
Guardando l’esterno della busta chiusa, ella chiese improvvisamente se il Balli non avesse più parlato del veglione cui aveva promesso di condurla. Il moralista che sonnecchiava in Emilio non si destò, ma egli sconsigliò di andare a quel veglione per la paura che il Volpini lo risapesse. Ella però aveva delle risposte che toglievano qualunque dubbio. — Adesso poi ci vado al veglione. Finora, per rispetto a quell’infame, non ci ero andata, ma adesso! Magari lo risapesse.
Emilio insistette per vederla quella sera. Nel pomeriggio ella doveva posare al Balli, poi doveva correre un istante dalla signora Deluigi; perciò non potevano trovarsi che tardi. Ella accordò l’appuntamento visto che — come dichiarò — per il momento, non sapeva negargli nulla; ma non nella stanza della Paracci, perchè voleva essere a casa di buon’ora. Come nei tempi migliori del loro amore, avrebbero passeggiato insieme a Sant’Andrea, e poi egli l’avrebbe accompagnata a casa. Ella era ancora abbattuta — aveva bevuto tanto vino il giorno prima — e aveva bisogno di riposo. A lui la proposta non dispiacque affatto. Era una delle sue caratteristiche essenziali quella di compiacersi nella rievocazione sentimentale del passato. Quella sera avrebbe analizzato di nuovo il colore del mare e del cielo e dei capelli d’Angiolina.
Ella lo congedò e, per ultimo saluto, lo pregò di imbucare la lettera al Volpini. Così egli si trovò in mezzo alla via con quella lettera in mano, segno palpabile dell’azione più bassa ch’egli avesse compiuto in vita sua, ma di cui aveva coscienza soltanto allora che Angiolina non era più seduta accanto a lui.