Senilità/VII
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VII.
Si svegliò dopo poche ore, in pieno giorno, ed ebbe immediata coscienza degli avvenimenti della sera prima. Ma non di tutto il dolore, ed egli si lusingò gli avesse dato tanto affanno l’impossibilità di poter vendicarsi subito, non il tradimento stesso di quella donna. Presto, presto ella avrebbe conosciuta la sua ira e poi il suo abbandono. Sfogato il suo rancore sarebbe scomparso quello ch’era ormai il maggior legame.
Uscì senza salutare la sorella. Fra poco egli sarebbe ritornato a lei per guarirla dei sogni che aveva spiati.
Soffiava un po’ di vento e, accanto al giardino pubblico, egli faticò contro il vento e nella salita; ma quella fatica non aveva nulla a vedere con quella affannosa e dolorosa della notte. Nella chiara, fresca mattina, egli pareva lieto di fare dell’esercizio muscolare all’aria aperta.
Non pensava alle parole che avrebbe dirette ad Angiolina. Era troppo sicuro del fatto suo per aver bisogno di preparazione, troppo sicuro di saperla ferire e abbandonare.
Venne ad aprirgli la madre di Angiolina. Lo condusse nella stanza della figlia che stava vestendosi in quella accanto, e poi, come al solito, si offerse di fargli compagnia.
Questa nuova dilazione, sia pure di pochi minuti, lo fece soffrire. — Angiolina è venuta tardi a casa questa notte? — chiese con un vago proposito di fare delle indagini.
— È stata col Volpini in caffè fino alla mezzanotte — rispose la vecchia d’un fiato e la frase parve conglutinata in quella voce nasale.
— Ma Volpini non è partito ieri? — chiese Emilio sorpreso dell’accordo fra madre e figlia.
— Aveva da partire, ma perdette il treno e dovrebb’essere partito adesso adesso.
Egli non volle far capire alla vecchia di non crederle, e stette zitto. La cosa era divenuta molto chiara e non c’era la possibilità d’ingannarlo o di renderlo dubbioso. La menzogna che avevano inventata era stata prevista dal Balli.
Dinanzi alla madre gli fu anche facile di accogliere Angiolina con la faccia dell’amante soddisfatto. Provava una vera soddisfazione. L’aveva finalmente afferrata, ed ora non voleva cedere al suo impeto solito di chiarire e semplificar subito le cose. Era lei che doveva parlare. L’avrebbe lasciata sciorinare le sue bugie per poterla cogliere proprio in flagrante.
Rimasti soli, ella si mise dinanzi allo specchio a comporsi i ricci e, senza guardarlo, gli raccontò della serata passata in caffè e dello spionaggio del Balli. Ne rideva allegramente ed era così rosea e fresca ch’Emilio se ne indignò più che per le bugie.
Gli raccontò che l’improvviso ritorno del Volpini le aveva fatto un grande dispetto. La frase con cui l’aveva salutato rivedendolo, sarebbe stata formulata così: — Non sei dunque ancora stanco di seccarmi?
Ella parlava così per fargli molto piacere. Invece egli sentiva che fra lui e il Volpini era lui il più deriso. Per ingannare lui doveva esserci stato maggior sforzo: furberie e inganni ch’egli probabilmente solo in parte aveva scoperti. L’altro s’era lasciato ingannare bonariamente, e c’era voluto poco a truffarlo. Se i fasti di Angiolina, come pareva, servivano a divertire anche la madre, era molto probabile che lui fosse l’oggetto di risa, mentre il Volpini tuttavia doveva essere temuto.
Lo prese una di quelle violenti crisi che lo facevano sbiancare e tremare. Ma ella parlava, parlava, quasi avesse voluto stordirlo, e gli diede il tempo di rimettersi.
Perchè disperarsi, perchè indignarsi di leggi di natura? Angiolina era stata perduta già nel ventre della madre. L’accordo con la madre era in lei la cosa più odiosa. Perciò essa non meritava rimbrotti, vittima essa stessa di una legge universale. Rinasceva finalmente in lui l’antico naturalista convinto. Non seppe però rinunziare alla vendetta.
Angiolina s’era dovuta finalmente accorgere del suo strano contegno. Si volse a lui: — Non m’hai dato neppure un bacio disse con aria di rimprovero.
— Io non ti bacerò mai più! — rispose egli calmo, guardando quelle labbra rosse, cui rinunziava. Non trovava altro e si alzò. Non aveva neppur lontanamente l’idea di andarsene perchè quella breve frase non poteva esser tutto, non era ancora un giusto compenso a tante sofferenze. Voleva però far credere che con quella frase egli volesse abbandonarla. Infatti sarebbe stato un atto dignitosissimo che avrebbe chiusa quella bassa relazione.
Ella indovinò tutto e, credendo ch’egli non volesse darle tempo alla difesa, soggiunse seccamente: — Infatti ho fatto male a dirti che quell’uomo fosse Volpini. Non era lui! Fu Giulia che mi pregò si dicesse così. Quell’uomo era in nostra compagnia per lei. Ella fece compagnia a noi, ed era perciò giusto che per una volta non le rifiutassi di accompagnarla io. Non si crederebbe. Egli è tanto innamorato! Più ancora che non tu di me.
S’interruppe. Aveva capito dall’espressione della sua faccia quanto egli fosse lontano dal crederle e tacque mortificata di aver detto due patenti bugie. Poggiò le mani sullo schienale di una sedia vicina e vi esercitò uno sforzo violento. Aveva sulla faccia una mancanza assoluta di espressione, e guardava con ostinazione una macchia grigia sulla parete. Doveva essere quello il suo aspetto quando soffriva.
Allora egli provò una strana compiacenza a provarle che sapeva proprio tutto e che ai suoi occhi ella era definitivamente perduta. Poco prima si sarebbe quasi accontentato di poche parole: il triste imbarazzo di Angiolina lo rese ciarliero. Ebbe la piena coscienza di un grande godimento. Dal lato sentimentale era la prima volta che Angiolina lo soddisfacesse perfettamente. Così, senza parole, ella era proprio una donna amante convinta di tradimento.
Poco dopo ci fu però un istante in cui la conversazione minacciò di divenire allegra, allegra. Per ferirla, egli ricordò le cose ch’ella aveva prese al caffè a spese dell’ombrellaio. — Giulia un bicchierino di un liquore trasparente, tu una tazza di cioccolata con una batteria di focaccie.
Allora — oh, dolore! — ella si difese energicamente, e il suo volto si colorò per qualche cosa che doveva somigliare la virtù calunniata. Finalmente le era attribuita una colpa che non aveva, ed Emilio capì che il Balli doveva essersi ingannato su quel punto.
— Cioccolata! Io che non la posso soffrire! Cioccolata io! Presi un bicchierino di non so che cosa e neanche lo bevetti. — Ella metteva in questa dichiarazione tale energia che non avrebbe potuto impiegarne di più per asserire la propria perfetta innocenza. Era però visibile un certo suo tono di rammarico, quasi avesse deplorato di non aver mangiato di più giacchè quella rinunzia non era bastata a salvarla agli occhi di Emilio. Era proprio a lui ch’ella aveva fatto quel sacrificio.
Egli fece un violento sforzo per annullare quella nota falsa che gli guastava gli ultimi addii. — Basta! Basta! — disse con disprezzo. — Io non le dirò altro che questo: — le dava del lei per aggiungere solennità a quel momento — io le ho voluto bene e per questo solo fatto avevo il diritto di essere trattato altrimenti. Quando una ragazza permette ad un giovine di dirle d’amarla, ella è già sua e non più libera. — Questa frase era alquanto debole ma molto esatta, in un rimprovero amoroso anche troppo. Infatti egli non aveva altro diritto al quale appellarsi che il fatto di averle detto d’amarla.
Sentendo che la parola, causa il proprio spirito analitico, in quella situazione lo tradiva, ricorse immediatamente a quello ch’egli sapeva essere la sua forza principale: l’abbandono. Fino a poco prima, godendo della tristezza di Angiolina, aveva pensato di non lasciarla che molto più tardi. Aveva sperato in una scena ben diversa. Ora sentiva una minaccia. Egli stesso aveva alluso alla propria mancanza di diritti, ed era possibilissimo ch’ella, essendo a corto d’argomenti, accettasse il suggerimento e gli chiedesse: — E tu che cosa hai fatto per me per esigere ch’io mi conformi al tuo volere? — Fuggì questo pericolo: — Io la saluto — disse gravemente. — Quando avrò riacquistata la mia calma potremo anche rivederci. Ma per lungo tempo è meglio che restiamo divisi.
Uscì, ma non senza averla ammirata per un’ultima volta pallida com’era, gli occhi sbarrati quasi per spavento, e forse indecisa se dirgli ancora qualche bugia per tentare di fermarlo. Lo slancio con cui uscì da quella casa lo portò lontano. Ma, sempre camminando con lo stesso aspetto di risolutezza, egli rimpiangeva amaramente di non poter vederla più a lungo nel dolore. Nelle orecchie gli si ripercoteva il suono d’angoscia ch’ella aveva emesso al vederlo allontanarsi, ed egli l’ascoltava per imprimerselo sempre meglio nella memoria. Bisognava conservarlo. Era stato il maggior dono ch’ella gli avesse fatto.
Il ridicolo non poteva più colpirlo. Non di fronte ad Angiolina stessa, almeno. Ella poteva essere quale si voleva, ma per lunghi anni si sarebbe ricordata di un uomo che l’aveva amata non col solo scopo di baciarla, bensì con tutta l’anima, tanto che una prima offesa fatta al suo amore l’aveva ferito in modo da rinunziare a lei. Chissà? Sarebbe bastato forse un ricordo simile per nobilitarla. L’angoscia nella voce d’Angiolina gli aveva fatto dimenticare di bel nuovo qualunque conclusione scientifica.
Oh, gli era difficile di andare a chiudere in ufficio agitazione che si sentiva addosso. Ritornò a casa con intenzione di coricarsi. Nel riposo del letto e nel silenzio della sua stanza, avrebbe potuto continuare a godere della scena avuta con Angiolina come se fosse continuata. Forse nell’eccitazione di quel giorno si sarebbe confidato con la sorella; ma ricordò quanto aveva scoperto quella notte e sentendola lontana da lui, tutta occupata dai propri desideri, non le disse nulla. Certo sarebbe venuto il tempo in cui egli avrebbe di nuovo circondato di cure la sorella, però ancora qualche giorno di vita voleva riservare a sè, alla propria passione. Chiudersi in casa, esporsi alle domande di Amalia gli parve intollerabile. Mutò proposito.
Era indisposto, disse alla sorella, ma sarebbe andato a cercar giovamento all’aria aperta.
Ella non credette ai mali ch’egli si attribuì. Fino allora aveva sempre indovinate le fasi per le quali passavano gli amori d’Emilio; quel giorno, per la prima volta, errò e credette si fosse liberato dall’ufficio per passare tutta intera la giornata con Angiolina. Perchè egli aveva sulla faccia seria un’aria di soddisfazione ch’ella non vi aveva vista da lungo tempo. Non chiese nulla. Spesse volte aveva tentato d’ottenere da lui delle confidenze e oramai gli serbava rancore unicamente perchè egli le aveva rifiutate.
Quando Emilio si trovò di nuovo sulla via, solo, nell’orecchio ancora sempre il gemito d’angoscia di Angiolina, egli fu in procinto di andare immediatamente da lei. Che cosa avrebbe fatto tutto il giorno, ozioso, con quell’agitazione che per quanto non fosse dolorosa, non era altro che un desiderio acuto, un’aspettativa impaziente come se ogni istante avesse dovuto apportare delle novità, una speranza nuova quale Angiolina non gli aveva mai data prima?
Gli sarebbe stato impossibile di andare dal Balli e desiderava di non imbattersi in lui. Lo temeva, anzi l’unica sensazione dolorosa in lui era quel timore. Si disse che tale timore derivava dal sapere ch’egli non avrebbe saputo imitare la calma del Balli allorchè costui aveva dovuto lasciare Margherita.
Si avviò verso il Corso. Era possibile che Angiolina passasse di là per andare al lavoro dai Deluigi. Egli non aveva avuto il tempo di chiederle ove si recasse; ma, certo, non era restata a casa. Sulla via le avrebbe fatto un saluto misurato ma gentile. Non le aveva detto che, calmatosi, sarebbe voluto divenire il suo buon amico? Oh, venisse presto presto questa calma e il tempo in cui egli avrebbe potuto avvicinarla di nuovo! Guardava intorno a sè per vederla in tempo se si fosse imbattuto in lei.
— Addio Brentani! Come va? Sei ancora vivo e non ti si vede mai? — Era il Sorniani, arzillo come sempre, ma sempre giallo, la faccia da malato meno gli occhi pieni di vita, non si sapeva bene se per vivacità o per irrequietezza.
Quando il Brentani si volse a lui, il Sorniani lo guardò lungamente alquanto sorpreso. — Sei indisposto? Hai una cera curiosa — Non era la prima volta che il Sorniani gli avesse detto di trovargli l’aspetto di malato; certo vedeva riverberarsi sulle facce altrui un po’ del proprio giallo.
Emilio fu lieto di apparire malato; poteva lagnarsi di qua che cosa che non fosse la sua sventura giacchè di questa non poteva parlare. — Pare ch’io sia malato di stomaco — disse accorato. — Non di questo mi lagno, ma della tristezza che me ne deriva. — Ricordava d’aver udito dire che il male di stomaco produceva tristezza. Poi si compiacque di descrivere tale tristezza perchè ad alta voce l’analizzava meglio. — Strano! Non potevo mai immaginare che un’indisposizione fisica si tramutasse, senza che io ne potessi avere la coscienza, in una sensazione morale. L’indifferenza che provo per tutto mi rattrista. Credo che se anche tutte queste case sul Corso si mettessero a ballare, io non le guarderei neppure. E se minacciassero di cadermi addosso, lascerei fare. — S’interruppe, vedendo avvicinarsi una donna che somigliava un po’ ad Angiolina. — Oggi fa bel tempo, nevvero? Il cielo dovrebb’essere azzurro, aria dolce, il sole splendido. Io lo capisco ma non lo sento. Vedo grigio e sento grigio.
— Io non sono mai stato tanto ammalato, — disse il Sorniani con una soddisfazione che non riuscì a celare — credo anzi d’essere guarito definitivamente, ora. — Parlò poi di vari medicinali da cui eran da ripromettersi mirabilia.
Emilio ebbe improvvisamente un grande desiderio di liberarsi da quell’importuno che non sapeva neppure star ad ascoltare. Gli tese la mano senza dirgli nulla e facendo già il primo passo per allontanarsi. Anche l’altro lo salutava, ma, tendendogli la mano, gli chiese: — Come vanno i tuoi amori?
Emilio finse di non capire: — Quali amori?
— Quella tizia. La bionda. Angiolina.
— Ah, sì — fece Emilio con aspetto d’indifferente. — Non l’ho più vista.
— Hai fatto benissimo, — esclamò il Sorniani con grande calore e subito ravvicinandosi. — Non è donna quella per giovani come te e che, per di più, non abbiano una salute più solida. Ha fatto impazzire il Merighi e poi, certo, s’è fatta sbaciucchiare da mezza città.
Il verbo sbaciucchiare ferì il Brentani. Se con esso l’omino giallo non avesse colto nel segno, qualificando l’espansività amorosa di Angiolina, egli non avrebbe badato alle sue chiacchiere, ma così, tutto ebbe subito l’aspetto di grande verità. Protestò, disse che per quanto poco la conoscesse la riteneva molto seria, e riuscì nello scopo d’attizzare il Sorniani il quale, fattosi più pallido — lo stomaco doveva pur averci la sua parte, — ne fece sentire di belle all’imprudente che l’aveva provocato.
Angiolina seria? Anche prima dell’entrata in scena del Merighi, ella doveva aver cominciato a far le sue esperienze sui maschi. Già da giovinetta la si vedeva trottare per le vie di città vecchia in compagnia di ragazzi — le piacevano gl’imberbi — ad ore non permesse. Il Merighi capitò in tempo per portarla in città nuova che, dopo, restò il campo della sua attività. Ella si fece vedere a braccetto di tutti i giovani più ricchi, sempre col medesimo dolce abbandono di sposa novella. E giù l’elenco dei nomi che il Brentani già conosceva, dal Giustini al Leardi, tutti i fotografati che facevano bella mostra sulla parete della stanza da letto di Angiolina.
Non un nome nuovo. Era impossibile che il Sorniani inventasse con tanta esattezza. Un dubbio angoscioso gli spinse il sangue alle gote; continuando a parlare con tanto calore, il Sorniani avrebbe forse nominato anche se stesso? Continuò ad ascoltarlo con grande ansietà mentre la sua destra si stringeva a pugno pronta a picchiare.
Ma l’altro s’interruppe per chiedergli: — Ti senti poco bene?
— No — disse Emilio — io sto benissimo. — Si fermò e pensò se gli convenisse di farlo ciarlare ancora.
— Ma è evidente che devi sentirti poco bene. Hai cambiato di cera due o tre volte.
Emilio riaperse il pugno. Non era il caso di picchiare. — Sì, infatti non sto bene. — Picchiare il Sorniani! Bella vendetta! Avrebbe dovuto picchiare se stesso. Oh, come l’amava! Se lo confessò con un’angoscia che non aveva mai provata. Vigliaccamente, egli si disse che sarebbe ritornato da lei. Al più presto. Quella mattina egli s’era mosso risoluto ed energico alla vendetta. L’aveva rimproverata e poi lasciata. Oh, quale azione intelligente! Aveva punito se stesso. Tutti l’avevano posseduta meno lui. Perciò il deriso fra tutti quegli uomini non era che lui. Ricordò che fra giorni il Volpini sarebbe venuto a prendersi l’anticipazione pattuita; proprio a tempo egli s’era pensato d’adirarsi di cose che aveva sempre sospettate. Che cosa avrebbe fatto Angiolina dopo di essersi data al sarto? Era troppo naturale ch’essendosi data a costui per tradirlo più facilmente, ella l’avrebbe tradito con altri visto ch’Emilio giusto allora l’aveva abbandonata. Per lui era perduta. Vedeva tutto il futuro dinanzi agli occhi come se stesse succedendo a pochi passi da lui, sul Corso. La vedeva uscire dalle braccia del Volpini nauseata di costui e cercare immediatamente un posto di rifarsi altrove di tanta infamia. Ella lo avrebbe tradito e questa volta con ragione.
E non era il solo mancato possesso che formava la sua disperazione. Fino allora egli s’era beato al ricordo di quel suono d’angoscia ch’egli aveva tratto da lei. Ma che cosa poteva significare quello, nella vita di una donna che fra le braccia d’altri avrebbe ben altrimenti goduto e sofferto? Non c’era la possibilità di ritornare sui propri passi. Gli bastava, per respingere questa tentazione, di ricordare quello che ne avrebbe detto il Balli.
Pensò che se non avesse avuto accanto quel giudice severo, egli non si sarebbe curato della dignità ora che comprendeva che con quel tentativo di risollevarla, aveva legato più abiettamente che mai ogni suo pensiero, ogni desiderio ad Angiolina.
Era già scorso parecchio tempo dacchè egli aveva parlato col Sorniani, e il tumulto che le parole di costui avevano suscitato nel suo petto non s’era ancora quietato.
Forse ella avrebbe fatto qualche tentativo per riavvicinarsi a lui. La dignità non gli avrebbe impedito allora d’accoglierla a braccia aperte. Ma non come una volta. Sarebbe corso immediatamente alla verità, cioè al possesso. Giù la finzione! — Io so che tu fosti l’amante di tutti costoro, — le avrebbe gridato — e ti amo lo stesso. Sii mia e dimmi la verità acciocchè io non abbia altri dubbi. — La verità? Anche sognando la più rude franchezza egli idealizzava Angiolina. La verità? Poteva essa dirla, sapeva dirla? Se il Sorniani aveva detto anche soltanto una parte del vero, la menzogna doveva essere tanto connaturata in quella donna, ch’ella non se ne sarebbe liberata mai. Egli dimenticava quanto in altri momenti aveva percepito tanto chiaramente, cioè il fatto ch’egli aveva stranamente collaborato a vedere in Angiolina ciò ch’ella non era, ch’era stato lui a creare la menzogna.
— Come non ho riconosciuto — andava dicendosi — che l’unica ragione di ridicolo era la menzogna! Sapendo tutto, dicendoglielo in faccia, spariva il ridicolo. Ognuno può amare chi gli pare e piace. — Gli pareva di dire tutto questo al Balli.
Il vento era cessato del tutto, e la giornata aveva assunto un vero aspetto primaverile. In altro stato d’animo una giornata simile di libertà sarebbe stata una gioia per lui; ma era libertà quella per cui non gli era concesso di andare da Angiolina?
Eppure ci sarebbero stati dei pretesti per andarci subito. Se non altro, egli poteva avvicinarla per farle dei nuovissimi rimproveri. Infatti egli non aveva mai sospettata l’esistenza di quegli imberbi che avevano preceduto il Merighi e di cui gli aveva parlato quel giorno il Sorniani. — No! — disse ad alta voce. — Una debolezza simile mi getterebbe in sua balìa. Pazienza. Dieci o quindici giorni. Ella s’avvicinerà per la prima. — Ma in tanto che cosa avrebbe fatto quella prima mattina?
Leardi! Il bel giovane, biondo e robusto, dal colorito di giovinetta su un organismo virile, passava il Corso, serio come sempre, vestito di un soprabito chiaro che faceva proprio per quella tepida giornata d’inverno. Il Brentani ed il Leardi appena appena si salutavano, tutt’e due molto superbi quantunque per ragioni molto differenti. Emilio di fronte a quel giovanotto elegante ricordava d’essere il letterato di una certa riputazione; l’altro invece credeva di poter trattarlo dall’alto al basso perchè lo vedeva vestito meno accuratamente e non l’aveva mai trovato in nessuna delle grandi case della città ove egli invece era accolto a braccia aperte. Avrebbe però amato che tale sua superiorità fosse riconosciuta anche dal Brentani, e rispose cortesemente al saluto che gli fu fatto. Lo accolse poi con maggior gentilezza che sorpresa quando lo vide avvicinarglisi con la mano stesa.
Il Brentani aveva ceduto ad un istinto imperioso. Visto che non gli era permesso di cercare Angiolina, il meglio che gli restava da fare era d’attaccarsi a chi nel suo pensiero era perennemente legato a lei. — Anche ella approfitta del bel tempo per fare una passeggiata?
— Faccio due passi prima di colazione — disse il Leardi accettando così la compagnia del Brentani.
Emilio parlò poi del bel tempo, di una propria indisposizione, e della malattia del Sorniani. Disse poi ch’egli non amava quest’ultimo perchè gli pareva si vantasse troppo di aver delle buone fortune con le donne. Parlava con abbondanza di parole. Egli aveva lo strano presentimento d’essere accanto a persona che molto importasse nella sua vita, ed ogni sua parola avrebbe desiderato andasse a conquistargliene l’amicizia. Lo guardò con ansietà allorchè si trovò d’aver parlato delle buone fortune del Sorniani. Il Leardi non mosse ciglio mentre Emilio s’era atteso ad un sorriso di superiorità. Per lui un simile sorriso a quel proposito sarebbe equivalso alla confessione di un legame con Angiolina.
Ma anche il Leardi fu discorsivo. Certo voleva dimostrare al Brentani la propria coltura. Si lagnò che sul Corso si vedessero sempre le stesse facce e a questo proposito trovò anche deplorevole che la vita di Trieste fosse poco vivace e poco artistica. Non gli si confaceva quella città.
Il Brentani intanto fu preso da un violento desiderio di farlo ciarlare di Angiolina. Di quanto l’altro gli diceva, egli non sentiva che le singole parole, quasi meccanicamente per cercarvi un suono che ricordasse il nome d’Angiolina, e gli desse l’opportunità di attaccarvisi per parlare di lei. Per sua fortuna non lo trovò, ma tutt’ad un tratto, indignato di dover star a sentire tante sciocchezze che l’altro snocciolava lentamente per farle gustare meglio, ruvidamente l’interruppe: — Guarda, guarda, — disse con aria di sorpresa seguendo con l’occhio un’elegante figura di donna che non somigliava affatto ad Angiolina — la signorina Angiolina Zarri.
— Ma che! — protestò il Leardi seccato di essere stato interrotto — l’ho vista in faccia, non è lei.
Ricominciava già a parlare di teatri poco frequentati e di donne di società poco spiritose, ma il Brentani aveva già deciso di non subire più quegl’insegnamenti: — Conosce la signorina Zarri?
— Anche lei la conosce? — chiese l’altro con una sorpresa sincera.
Per il Brentani fu un momento di dubbio angoscioso. Non era certo con l’astuzia ch’egli poteva sperare di far parlare un uomo come il Leardi. Visto che gl’importava tanto di dissipare ogni menzogna che gl’impedisse di scorgere Angiolina quale era, non si sarebbe potuto rivolgere con tutta sincerità al Leardi e supplicarlo di dirgli tutta la verità? Fu indotto alla riserva unicamente dall’antipatia che provava per il Leardi. — Sì, un amico me l’ha presentata giorni or sono.
— Io ero amico del Merighi. Anni addietro la conoscevo molto bene.
Subito calmo e padrone dell’espressione della propria faccia, il Brentani ammiccò — Molto bene, eh?
— Oh, no — fece il Leardi con grande serietà. — Come può credere una cosa simile? — Fece molto bene la sua parte, contentandosi di quest’espressione di sorpresa.
Il Brentani capì quale fosse il partito preso dal Leardi, e non insistette. Si comportò come se avesse dimenticata la domanda indiscreta fatta poco prima e, serio serio, disse: — Mi racconti un po’ quella storia del Merighi. Perchè l’abbandonò?
— In seguito ad imbarazzi finanziari. Mi scrisse di aver dovuto ridonare la parola ad Angiolina. Del resto pochi giorni or sono ho udito dire ch’ella sia fidanzata di nuovo, ad un sarto mi pare.
Gli pareva? Oh, non si poteva fare la commedia meglio di così. Ma per farla così, per costringersi ad una finzione tanto accuratamente calcolata e che doveva costargli fatica e dispiacere (perchè avrebbe parlato di Angiolina solo quando v’era obbligato?) egli doveva avere ancora dei buoni motivi, dei recentissimi legami con quella donna.
Il Leardi parlava già d’altro argomento, e poco dopo Emilio lo lasciò. Per allontanarsi addusse di nuovo a pretesto un’improvvisa indisposizione, e il Leardi lo vide tanto sconvolto che gli credette ed anzi gli dimostrò una partecipazione amichevole che costrinse il Brentani a dirgli una parola di riconoscenza. Invece come sentiva d’odiarlo! Avrebbe voluto poter spiarlo almeno per quella giornata; certo sarebbe finito con lo scoprirlo accanto ad Angiolina. Un’ira insensata gli fece digrignare i denti e subito dopo si rimproverò quell’ira con amarezza e ironia. Chissà con chi Angiolina lo avrebbe tradito quel giorno, forse con delle persone ch’egli non conosceva neppure. Come era superiore a lui il Leardi, quell’imbecille privo di idee! Quella calma era la vera scienza della vita. — Sì, — pensò il Brentani, e gli parve di dire una parola che avrebbe dovuto far vergognare insieme a lui l’umanità più eletta — l’abbondanza d’immagini nel mio cervello forma la mia inferiorità. — Infatti se il Leardi avesse pensato che Angiolina lo tradiva, non se la sarebbe saputa rappresentare in un’immagine così piena di rilievo, di colore e di movimento come faceva lui figurandosela accanto al Leardi. Allora appena si scopriva la nudità ch’egli aveva soltanto intravvista e il più comune facchino vi trovava immediata la soddisfazione e la pace. Un atto breve, brutale, la derisione di tutti i sogni, di tutti i desideri. Quando al sognatore l’ira ottenebrò la vista, la visione scomparve lasciandogli nell’orecchio l’eco lunga di una sonora risata.
A pranzo Amalia dovette accorgersi che la novità che agitava Emilio non era lieta. Egli la sgridò con violenza perchè il pranzo non era pronto: aveva fame e fretta. Ebbe poscia la tortura di dover mangiare essendosi compromesso con tale dichiarazione. Ma, dopo mangiato, restò fermo, indeciso dinanzi al piatto vuoto. Aveva deciso; quel giorno non sarebbe andato da Angiolina, anzi non le si sarebbe avvicinato mai più. Il più forte dolore che allora provasse era di aver offesa la sorella. La vedeva triste e pallida. Avrebbe voluto chiederle scusa. Ma non osò. Sentiva che, se avesse pronunziate delle parole dolci, avrebbe pianto come un bambino. Finì col dirle ruvidamente ma con l’evidente intento di rabbonirla: — Dovresti uscire, fa un tempo bellissimo. — Ella non rispose e lasciò la stanza. Allora egli si adirò: — Non sono abbastanza disgraziato? Ella deve aver già compreso in quale stato d’animo io mi trovi. Quel mio invito amorevole sarebbe dovuto bastarle per ridivenire gentile e non turbarmi col suo rancore.
Si sentiva stanco. Si coricò vestito e subito cadde in un torpore che non gli toglieva di ricordare la propria sventura. Una volta alzò la testa per asciugarsi gli occhi pieni di lagrime, e pensò con amarezza che quelle lagrime gli venivano spremute da Amalia. Poi dimenticò tutto.
Quando si svegliò, trovò che calava la notte, uno di quei tristi tramonti di bella giornata invernale. Restò di nuovo indeciso, seduto sul letto. Altre volte, in quelle ore, egli aveva studiato. I suoi libri dallo scaffale gli si offrivano invano. Tutti quei titoli annunziavano della roba morta, non bastevole a far dimenticare neppure per un istante la vita, il dolore ch’egli sentiva muoversi nel seno.
Guardò nel tinello vicino, e vide Amalia seduta accanto alla finestra, china al telaio. Si finse allegro e le disse affettuosamente: — Mi hai perdonato le mie escandescenze di oggi?
Ella alzò per un solo istante gli occhi: — Non se ne parli più — disse con dolcezza, e continuò a lavorare.
Egli era preparato a subire dei rimproveri, e fu disilluso al vederla tanto calma. Tutto dunque intorno a lui era calmo meno lui stesso? Sedette accanto a lei e ammirò lungamente come la seta si adagiasse esattamente sul disegno. Cercava invano altre parole.
Ma ella nulla chiedeva. Ella non soffriva più affatto di quell’amore che le aveva sconvolta l’esistenza e di cui da principio s’era tanto lagnata. Emilio ancora una volta si domandò: — Perchè veramente ho abbandonata Angiolina?