Scortesie maschili al teatro della Scala

Giovanni Berchet

1818 Indice:Berchet, Giovanni – Scritti critici e letterari, 1912 – BEIC 1754878.djvu Letteratura Scortesie maschili al teatro della Scala Intestazione 6 febbraio 2019 75% Da definire


Questo testo fa parte della raccolta Opere (Berchet)/Scritti critici e letterari


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V

Scortesie maschili al teatro della Scala

Abbiamo ricevuta la lettera seguente, alla quale l’urbanitá vorrebbe che si facesse una risposta.

Signor Conciliatore, — Sono un viaggiatore, e corro l’Europa con intenzione di scrivere il mio viaggio. Ma questo debb’essere un libro d’una natura tutta nuova. Non parlerò che di costumi, scegliendo i meno osservati prima d’ora, in apparenza i meno importanti. Né tanto noterò i costumi quanto le ragioni di essi, investigandole con accuratezza.

Per lo piú i viaggiatori prima di visitare un popolo si formano di esso un’idea, e se la mettono a cavallo dell’intelletto. Poi corrono le poste e, come a traverso d’un par d’occhiali verdi, mirano ogni cosa a traverso di quella loro idea; e senza por mente a’ fatti che talvolta congiurano a smentirla, se la riportano vergine a casa.

Alcuni anni fa un amico mio parti di Parigi per visitare la Spagna. S’era fitto in mente che in Ispagna i mariti fossero tutti Otelli. Era giovine, bello, gentile, tale insomma da esser l’odio d’ogni sposo. A Madrid, a Cadice, a Valladolid e da per tutto ebbe accoglienze ed ospitalitá dalle donne; e da per tutto colla propria hermosura sconfisse hidalgamente l’altrui castitad, e non incontrò mai né veleni né coltelli né spade né visi arcigni. Tornò a Parigi, e scrisse e stampò che in Ispagna la gelosia de’ mariti è feroce e sempre in agguato.

Non farò cosí io. Tornato in Francia, io, per esempio, non dirò che in Italia sieno frequentissimi gli assassinii e tenuissimo l’orrore che vi destano; perché, ad onta ch’io pur lo credessi un tempo, ho veduto che ciò non è vero. A me piace esaminare, [p. 70 modifica]interrogare e ripeter l’esame; e non iscrivo sillaba se prima non ho soddisfatta per ogni verso la coscienza mia.

Ora questi miei scrupoli m’obbligano a ricorrere al Conciliatore per la spiegazione d’un fenomeno, cercata da me invano ad altre persone. È un’inezia; eppure non v’è uomo qui che si compiaccia di ragguagliarmene, e tutti, né so perché, me ne fanno un mistero.

Fui al teatro della Scala la prima sera d’uno spettacolo. La folla era immensa, e frammezzo alla folla ondeggiava tratto tratto qualche bella piuma, qualche bel fiore. Erano cittadine gentili che venivano a rallegrare della loro presenza la mascolina monotonia della platea. Pareva che dolcemente s’industriassero di spingersi innanzi; ma nessuno degli uomini, fra cui elle venivano, secondava quell’industria col ceder loro il passo. Ciascuno stava fermo sulla sua base, salvo che urtato riurtava. Arrossivano le poverette; e raccomandata la destra al braccio de’ loro serventi, si lasciavano trascinare oltre. Giunte alle sedie, le vedevano occupate tutte. Gli uomini sedenti si rivolgevano a fissar gli occhi in volto a quelle gentili ed a squadrarle da capo a piedi senza misericordia. Ma nessuno si alzava ad offrir loro la propria scranna. Di fila in fila scorreva l’occhio de’ serventi in traccia (credeva io) d’un asilo, e non v’era modo di rinvenirlo. A destra, a sinistra, a capo d’ogni fila le poverette ristavansi, implorando (credeva io) un riposo. Ma nessuno, nessuno de’ sedenti si alzava per offrire ad esse la propria scranna. Lo spettacolo era giá incominciato, e nella platea del teatro di Milano v’erano donne in piedi ed uomini sdraiati su’ canapé. Non seppi piú che mi pensare. Aspettai un’altra sera in cui vi avesse gran concorso al teatro: vidi lo stesso fenomeno. E lo rividi senza mutamento alcuno per ben sette sere. — So per cento altre prove — diss’io allora nel cuor mio — che i milanesi sono educati a maniere eleganti e cortesi: bisogna dunque credere che il posto d’onore qui in Milano sia lo stare in piedi, e che la muta espressione della gentilezza consista nel non lasciar né via né spazio a persona veruna, bensí nel contenderglielo e far che t’abbia a urtare in passando. Tant’è, ciò che in Francia sarebbe uno sgarbo villano, qui forse è cortesia fiorita. Ecco come la buona creanza, cambiando clima, cambia i suoi riti esteriori. —

Ma, a dir vero, mi restano alcuni dubbi ancora sulla spiegazione di questo fenomeno morale. Prima di registrarla nel mio itinerario, vorrei sentire il parere di un uomo pratico de’ costumi milanesi. [p. 71 modifica]E per questo mi rivolgo a voi, signor Conciliatore, pregandovi d’essermi cortese d’una risposta che mi metta chiarezza nell’intelletto e tranquillitá nella coscienza. Ve ne sarò gratissimo.

Milano, il 16 settembre 1818.

Vostro umilissimo servitore
I. d’Andely.



Per quanto si sia andato pensando di trovar modo che la risposta da mandarsi al signor d’Andely soddisfacesse pienamente alla domanda di lui, ed al desiderio altresí che noi abbiamo di mantenere intatta a’ nostri concittadini la fama ch’eglino hanno di educati a maniere eleganti e cortesi, non ci riuscí mai di scrivere due righe che valessero un centesimo. E però preghiamo i lettori di volerci questa volta aiutare col suggerirci un mezzo termine che ci cavi decentemente d’imbroglio. Confessare una scortesia de’ nostri concittadini verso il bel sesso, non conviene. Lasciare senza risposta il signor d’Andely, non è decente. Tradir la veritá, non è onesto. Dunque?... Dunque chi manderá all’ufficio del Conciliatore la miglior lettera, che, salvando tutte le convenienze, possa servir di risposta a quella del signor d’Andely, non andrá senza premio, perché vedrá il proprio nome registrato onorevolmente nella biografia universale de’ piú esperti scrittori di note diplomatiche.

Grisostomo.