Rubin e il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione/Capitolo 3.1

Distribuzione del lavoro e distribuzione del capitale

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Distribuzione del lavoro e distribuzione del capitale
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Nel capitalismo i soggetti economici organizzatori della produzione non sono più semplici produttori di merci, ma capitalisti: proprietari dei mezzi di produzione separati dalla forza-lavoro, divenuta merce e fattore di produzione al pari della macchina. Essi investono i loro capitali nei settori che paiono garantire maggiori profitti, facendovi così affluire le forze produttive della società, in particolare lavoro vivo; questa è la prima fondamentale conclusione dell'interpretazione di Rubin della teoria del prezzo di produzione: nel capitalismo la distribuzione del lavoro è regolata da quella del capitale, dunque le leggi di distribuzione del capitale sono imprescindibili nell'analisi se si vuole poi comprendere la distribuzione del lavoro nel capitalismo (Rubin 1976, 180).

Per l'artigiano semplice produttore di merci il valore delle stesse si presentava nella formula , cioè si sottrae dal ricavo lordo solo (logorio degli strumenti di lavoro), rappresentando il suo sostentamento e il resto (eventualmente per l'espansione della produzione). Per il capitalista lo stesso valore è ; e per lui non sono altro che costi (di produzione)1, mentre il rimanente, , rappresenta il suo reddito come capitalista. Ne consegue che i costi di produzione sono per il capitalista "una scommessa" che deve essere rapportata ai benefici economici che la produzione gli procura, per calcolarne la convenienza e l'opportunità: se tale calcolo risulta generalmente essere un rapporto tra benefici e rischi (o spese), in termini di capitale si presenta come , dove sono i costi di produzione e è il saggio del profitto. Se il capitalista regola il suo comportamento (cioè le sue scelte di investimento) sulla base di , allora il saggio del profitto è il regolatore della distribuzione del capitale (ivi, 181).

Rubin spiega che, non essendo cambiate le ipotesi di perfetta concorrenza e libertà di investimento, ogni capitalista cercherà di investire il suo capitale laddove può garantirgli un profitto almeno pari a , al saggio medio (o generale) del profitto, che è a sua volta quel saggio di profitto risultante dalla tendenza al livellamento dei diversi saggi di profitto nelle sfere di produzione, tale da far procurare lo stesso profitto a capitali di valore uguale investiti anche in settori diversi. I capitali dunque ottengono un profitto proporzionale alle loro dimensioni, a prescindere dalle quantità di lavoro astratto che mettono in moto; riportando l'esempio precedente tra spazzino e avvocato, supponendoli ora entrambi lavoratori salariati presso capitalisti, i loro lavori potranno invece questa volta essere considerati dalla società reciprocamente uguali in tutto e per tutto (cioè stessa parte del lavoro sociale complessivo), ma solo a patto che i loro capitali ottengano la stessa quantità di profitto, proporzionalmente alle loro dimensioni.

Note

  1. Ovviamente: rimane lo stesso, è la spesa per il sostentamento degli operai salariati che assumiamo pari a quella del sostentamento dell'artigiano.