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Rime disperse II


 
Mai non vo’ più cantar com’io soleva,
c’altri non si doleva; ma s’io torno
a l’usato soggiorno, ove sì presto
persi, per non mirar ove volgeva
5mia vista che si leva d’ogni intorno,
persi con mio gran scorno di me il resto,
forse serò più desto. E tal che or osa
far mia vita noiosa, quando vada
per altra strada, benché sia ritrosa,
10superba e disdegnosa,
pur converà che ponga giù la spada;
e quel c’or sì m’ agrada, s’io l’impetro,
convien ch’io serbi col bel tempo verde,
perché tanto si perde
15quanto si lassa a le sue spalle dietro.

Voi dite ch’io m’impetro, et io ben so
quel c’oggi far si pò; ben m’intend’io.
Lieve soma è un bon fio; sì, ma a tenerlo
non bastaria San Pietro; or non più, no;
20ché sì gonfiato ha il Po mio piccol rio,
che dove più m’invio per mantenerlo
men spero de riaverlo; onde mi doglio,
però che a quel ch’io voglio non risponde,
anzi s’asconde al sol, colmo d’orgoglio.
25Non son qual esser soglio,
sì circondan mia nave orribil onde.
Tal si pasce di fronde, e fior tal brama,
che, visto, ad or ad or s’appiatta e fugge;
tal si dilegua e strugge
30per cui sua morte di continuo chiama.

Proverbio: «Ama chi t’ama» è fatto antico.
Io ’l so: però tel dico; ma giovare
forsi potria cercare altro paese.
Non son di leggier fama così amico;
35ma, se ’l ciel m’è nemico, lassa andare,
benché è duro imparare a le sue spese.
Deh, perché sì cortese fòr de usanza
me diede alor speranza? Ma s’io fui
spinto d’altrui, il tempo che m’avanza
40finirò in altra stanza,
non già d’Amor, ch’io non mi fido in lui,
ma seguirò Colui che fra suo gregge
già mi racolse, e pregarò che me erga
la mente ov’egli alberga,
45e dove il ver si vede aperto e lègge.

Lui gli erranti corregge; ivi, s’intende,
il ben chiar si comprende; chi altra piglia
via, non è maraviglia se ’l si sprezza.
Ah dura d’Amor legge! spesso scende
50dal vero, chi te attende, molti miglia;
né val se ’l s’assottiglia, poi che avezza
ha l’alma a tua dolcezza sì soave,
di por giù il peso che have, e che lui volse
istesso e tolse a le sue spalle grave.
55Benedetta la chiave
che di tanti laccioli il mio cor sciolse!
ché se alor ben mi dolse, or non più dole;
ond’io ringrazio l’alto mio Signore,
che in me spento ha in poche ore
60l’ardor, che a pena morte spenger suole.

Non voglio più parole accorte e sagge
in alme sì selvagge. Or altra cura
men faticosa e dura, altro costume
coglier vo’, non vïole per le piagge,
65ché quel mi sotragge ogni paura,
mi tira e fura al suo benigno lume;
onde degli occhi un fiume il tristo volto
mi bagna, quando ascolto, e vedo u’ sia
quasi per gelosia, misero!, còlto,
70se ’l mio Signor racolto
non mi avesse <e> condutto in altra via.
Ah dura sòrte e ria, di quanti affanni
cagion sei ben, e stolto è chi ti segue!
Chi guarda a le tue tregue,
75al fin squarciati ne riporta i panni.

Presto sen volan gli anni, et io ancor nido
non ho, ch’io non mi fido in quel ch’io odo;
se al presente non godo, peggio aspetto.
Non sia alcun che s’inganni, ché, s’io rido
80in fronte, nel cor grido e piango, in modo
ch’io me ne strugo e rodo. Gran desdetto
certo fu il mio, che stretto m’ebbe avinto;
ma da tanti mal cinto fui, che un dito
mover non era ardito, e, così pinto,
85mi trovo quasi estinto
da chi ancor una fiata non m’ha udito.
Lei che m’ha il cor ferito, se nol salda,
poco tempo mi arà più seco vivo;
ché dir ad altri schivo
90il fuoco sol che notte e dì mi scalda.