Rime (Dante)/CVI - Doglia mi reca ne lo core ardire

CVI - Doglia mi reca ne lo core ardire

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Dante Alighieri - Rime (XIII secolo)
CVI - Doglia mi reca ne lo core ardire
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Rime varie del tempo dell’esilio

 
Doglia mi reca ne lo core ardire
a voler ch’è di veritate amico;
però, donne, s’io dico
parole quasi contra a tutta gente,
5non vi maravigliate,

ma conoscete il vil vostro disire;
che la beltà d’Amore in voi consente,
a vertù solamente
formata fu dal suo decreto antico,
10contra ’l qual voi fallate.

Io dico a voi che siete innamorate
che se vertute a noi
fu data, e beltà a voi,
e a costui di due potere un fare,
15voi non dovreste amare,

ma coprir quanto di biltà v’è dato,
poi che non c’è vertù, ch’era suo segno.
Lasso! a che dicer vegno?
Dico che bel disdegno
20sarebbe in donna, di ragion laudato,

partir beltà da sè per suo commiato.
Omo da sè vertù fatto ha lontana;
omo no, mala bestia ch’om simiglia.
O Deo, qual maraviglia
25voler cadere in servo di signore,

o ver di vita in morte!
Vertute, al suo fattor sempre sottana,
lui obedisce e lui acquista onore,
donne, tanto che Amore
30la segna d’eccellente sua famiglia

ne la beata corte:
lietamente esce da le belle porte,
a la sua donna torna;
lieta va e soggiorna,
35lietamente ovra suo gran vassallaggio;

per lo corto viaggio
conserva, adorna, accresce ciò che trova;
Morte repugna sì, che lei non cura.
O cara ancella, e pura,
40colt’hai nel ciel misura;

tu sola fai segnore, e quest’è prova
che tu se’ possession che sempre giova.
Servo non di signor, ma di vil servo
si fa chi da cotal serva si scosta.
45Vedete quanto costa,

se ragionate l’uno e l’altro danno,
a chi da lei si svia:
questo servo signor tant’è protervo,
che gli occhi ch’a la mente lume fanno
50chiusi per lui si stanno,

sì che per gir ne convene a colui posta,
ch’adocchia pur follia.
Ma perché lo meo dire util vi sia,
discenderò del tutto
55in parte ed in costrutto

più lieve, sì che men grave s’intende;
ché rado sotto benda
parola oscura giugne ad intelletto;
per che parlar con voi si vole aperto:
60ma questo vo’ per merto,

per voi, non per me certo,
ch’abbiate a vil ciascuno e a dispetto,
ché simiglianza fa nascer diletto.
Chi è servo è come quello ch’è seguace
65ratto a segnore, e non sa dove vada,

per dolorosa strada;
come l’avaro seguitando avere,
ch’a tutti segnoreggia.
Corre l’avaro, ma più fugge pace:
70oh mente cieca, che non pò vedere

lo suo folle volere
che ’l numero, ch’ognora a passar bada,
che ’nfinito vaneggia!
Ecco giunta colei che ne pareggia:
75dimmi, che hai tu fatto,

cieco avaro disfatto?
Rispondimi, se puoi altro che nulla.
Maladetta tua culla,
che lusingò cotanti sonni invano!
80Maladetto lo tuo perduto pane,

che non si perde al cane!
ché da sera e da mane
hai raunato e stretto ad ambo mano
ciò che sì tosto si rifà lontano.
85Come con dismisura si rauna,

così con dismisura si distringe:
questo è quello che pinge
molti in servaggio; e s’alcun si difende,
non è sanza gran briga.
90Morte, che fai? che fai fera Fortuna,

che non solvete quel che non si spende?
se ’l fate, a cui si rende?
Non so, poscia che tal cerchio ne cinge
che di là su ne riga.
95Colpa è de la ragion che nol castiga.

Se vol dire "I’ son presa",
ah com poca difesa
mostra segnore a cui servo sormonta!
Qui si raddoppia l’onta,
100se ben si guarda là dov’io addito,

falsi animali, a voi ed altrui crudi,
che vedete gir nudi
per colli e per paludi
omini innanzi cui vizio è fuggito,
105e voi tenete vil fango vestito.

Fassi dinanzi da l’avaro volto
vertù, che i suoi nimici a pace invita,
con matera pulita,
per allettarlo a sé; ma poco vale,
110ché sempre fugge l’esca.

Poi che girato l’ha chiamando molto,
gitta ’l pasto ver lui, tanto glien cale;
ma quei non v’apre l’ale:
e se pur vene quand’ell’è partita,
115tanto par che li ’ncresca

come ciò possa dar, sì che non esca
dal benefizio loda.
I’ vo’ che ciascun m’oda:
chi con tardare, e chi con vana vista,
120chi con sembianza trista

volge il donare in vender tanto caro
quanto sa sol chi tal compera paga.
Volete udir se piaga?
Tanto chi prende smaga,
125che ’l negar poscia non li pare amaro.

Così altrui e sé concia l’avaro.
Disvelato v’ho, donne, in alcun membro
la viltà de la gente che vi mira,
perché l’aggiate in ira;
130ma troppo è più ancor quel che s’asconde

perché a dicerne è lado.
In ciascun è di ciascun vizio assembro,
per che amistà nel mondo si confonde;
ché l’amorose fronde
135di radice di ben altro ben tira,

poi sol simile è in grado.
Vedete come conchiudendo vado:
che non dee creder quella
cui par bene esser bella,
140esser amata da questi cotali;

che se beltà tra i mali
volemo annumerar, creder si pone,
chiamando amore appetito di fera.
Oh cotal donna pera
145che sua biltà dischiera

da natural bontà per tal cagione,
e crede amor fuor d’orto di ragione!
Canzone, presso di qui è una donna
ch’è del nostro paese;
150bella, saggia, e cortese

la chiaman tutti, e neun se n’accorge
quando suo nome porge,
Bianca, Giovanna, Contessa chiamando:
a costei te ne va chiusa ed onesta;
155prima con lei t’arresta,

prima a lei manifesta
quel che tu se’ e quel per ch’io ti mando;
poi seguirai secondo suo comando.