Rime (Andreini)/Capitolo I

Capitolo I

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Sonetto XLVI Sonetto XLVII

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Capitolo I. Con ogni terzo verso del Petrarca.


L
Unge da le tue luci alme, e divine

Impossibil sarà, ch’io fuggir possa
     L’hore del pianto, che son già vicine.
D’ogni letizia la mia fronte è scossa.
     Ahi destin crudo, ahi mia nemica sorte
     Hor hai fatto l’estremo di tua possa.
Deh chi m’insegna le mie fide scorte,
     Deh chi m’insegna (ohime) dove dimora
     Mio ben, mio male, mia vita, e mia morte?

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Mi sento venir men più d’hora in hora,
     Anzi giunger al fin de la mia vita,
     Tanto cresce ’l desio, che m’innamora.
Chi fia che possa darmi breve aita,
     Se nel partir del mio vivace Sole
     E l’aura mia vital da me partita?
Mi stanno al cor l’angeliche parole,
     E l’accorte maniere, e ’l dolce riso,
     Tal che di rimembrar mi giova, e duole.
Ahi mentre penso, che da me diviso
     T’hà l’empio Amor, perch’io morendo viva
     Piovommi amare lagrime dal viso.
Io vò cercando ogn’hor di riva in riva,
     Nè trovar posso l’amoroso obbietto,
     Di cui convien, che ’n tante carte scriva.
Movono fieri assalti à questo petto
     Noiose cure, e sol mi resta (ahi Fato)
     Lagrimar sempre il mio sommo diletto.
S’io temo, che ’l mio ben mi sia ’nvolato,
     S’io temo, ch’egli altrove pieghi ’l core
     Questo temer d’antiche prove è nato.
Spero s’havrà pietà del mio dolore,
     Ch’è sovr’ogn’altro dispietato, e fiero
     Ove sia chi per prova intenda amore.
Ben veggio (lassa) e non m’inganna il vero,
     Che già gran tempo io posi per costui
     Egualmente in non cale ogni pensiero.
Mentre vivendo in potestate altrui
     Potei godere il desiato volto
     Tremando, ardendo assai felice fui.
Ma poi, ch’à gli occhi il grato cibo è tolto,
     Nè senton quest’orecchie i cari accenti

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     Quant’io veggio m’è noia, e quant’io ascolto.
Forman le voci mie gravi lamenti,
     E ’ntanto questi abbandonati lidi
     Vò misurando à passi tardi, e lenti.
Quest’aria ’ngombro di noiosi stridi,
     E gli occhi volgo per mirar s’io veggio
     Luoghi da sospirar riposti, e fidi.
Se vinta dal dolor piango, e vaneggio,
     S’io vivo sempre in amorosi guai
     La mia Fortuna che mi può far peggio?
Deh cessa Amor di travagliarmi homai,
     Rivolgi altrove il tuo dorato strale,
     Ch’io mi pasco di lagrime, e tu ’l sai.
Il tanto seguitarmi al fin che vale?
     Deh lascia il tormentarmi à que’ begli occhi,
     Che ’l foco del mio cor fanno immortale.
Par ben, ch’ogni sventura à me sol tocchi,
     Ond’à ragion quest’Anima dolente
     Avvien, che ’n pianto, ò ’n lamentar trabocchi.
Quando respirerà mia stanca mente?
     Quando fia mai, che riveder io speri
     Gli occhi, di ch’io parlai sì caldamente?
Occhi del mio morir ministri fieri
     Non vi celate, ò ’n tanta guerra almeno
     Datemi pace ò duri miei pensieri.
O quanta invidia porto à quel terreno
     Dove risplendon quei vivaci lumi,
     Che fanno intorno à se l’aer sereno.
Bench’amando, e servendo io mi consumi,
     Amerò, servirò lunge, e dappresso
     Mentre, che al Mar discenderanno i fiumi.

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Che viva il cor da tante pene oppresso,
     Ch’io viva, e spiri in così gravi affanni
     Meco di me mi meraviglio spesso.
Ohime, che l’hore, i giorni, i mesi, e gli anni
     Consumo invan quest’Anima mi dice
     Trista, e certa indovina de’ miei danni.
Ben son io ne’ martir sola Fenice,
     E tù lo vedi, e ne gioisci, e godi
     O del dolce mio mal prima radice.
Sì stretti sono gli amorosi nodi
     Co’ quali Amore il cor mi stringe intorno,
     Che Morte sola fia, ch’indi lo snodi.
Deh verrà mai quel desiato giorno,
     In cui possa fruir quant’io vorrei
     La dolce vista del bel viso adorno?
Crudel à che non torni? à che non bei
     Me di quel bel, per cui tutt’altro oblio?
     Ma tù prendi à diletto i dolor miei
E i sospiri, e le lagrime, e ’l desio.