Ricordanze della mia vita/Parte terza/XIV. Studi nella cella
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XIV
(Studi nella cella).
Santo Stefano, 24 marzo (1854).
Da otto mesi ho preso a voltare dal greco in italiano le opere di Luciano. Io ero pochissimo intendente di greco, ed ora non ne so piú di prima; ché la memoria mi si va spegnendo, e tutte le forze dell’anima me le sento e me le vedo intisichire ogni giorno. Nella mente non entra niente piú, e se v’entra non vi fa colpo, non vi rimane. Un lavoro di composizione mi sarebbe impossibile, e da tanto tempo io non sento piú la dolce febbre della composizione, che si chiama estro ed è rapimento soave dell’anima. Un’altra febbre mi consuma e mi lima la vita. Per non perdere affatto l’uso di scrivere italiano, per impratichirmi del greco, e per una certa simpatia che ho avuto sempre col leggiadrissimo Luciano, mi determinai a farlo italiano e di prendere una fatica immensa, una fatica da vero galeotto. Ho il testo nudo, senza neppure una virgola di note o di dichiarazioni: quattro volumetti, edizione di Lipsia: ho un vocabolarietto manuale greco-latino, anche edizione di Lipsia: ed una grammatica greca ad uso del seminario di Padova, nella quale giá studiò il mio Raffaele, che scrisse il suo nome su la coperta. Con questi tre libretti ho avuto il disperato ardire di mettermi non dico a tradurre ma a lottare con uno scrittor greco mirabile per eleganza, e per una tale facilitá che è difficoltá spinosissima a chi intende. La fortuna mi è stata sempre nemica spietata ed implacabile, che m’ha tenuto stretto nelle sue tanaglie: spesso avrei molto da dire, e mi manca la parola facile: avrei voluto vedere il mondo, e non ho potuto mai partirmi del nido: avrei desiderato libri per pascere almeno la mente avidissima. A questa mia nemica io oppongo il mio coraggio, ma non basto: posso resistere come tetragono ai suoi colpi, ma vincerla no. Dovrò cadere certamente: cadessi almeno come gli eroi della poesia greca che soccombevano al fato, e cadevano gloriosamente! La gloria non mi fu destinata: io nacqui solamente per patire. Chi sa se potrò compiere questa mia pesantissima fatica! e se compiutala, avrá la sorte di riuscire buona e di darmi un po’ di fama? E che fama sará quella di buon traduttore? E chi saprá quanto mi costa, come l’ho fatta, con quali mezzi, in qual luogo, tra quali spasimi? Che importa di tutto questo ai leggitori, i quali riguardano solo all’opera, e non vogliono saper come è fatta? Ma e che importa a me de’ leggitori, della fama, e del mondo? Se ho perduto ogni cosa, se mi hanno tolto la pace, la famiglia, l’aria, il moto, il cielo, e m’han gettato in un sepolcro, debbo io serbare ancora illusioni, e cercar la gloria, che è l’ultima camicia di cui si spoglia il savio, come fu detto? Fo questa fatica per occupare la mente e non farla inselvatichire stupidamente: l’occupazione mi giova, perché mi fa sentir meno l’ergastolo: dunque la fo per me: se la gioverá anche agli altri, mi piacerá di aver giovato agli altri anche dal luogo dove io sono: se no, tanto meglio, avrò giovato a me solo.
Ma pognamo che io faccia una buona traduzione, avrò io fatto bene a vestire all’italiana un greco che non credeva a nulla e si rideva di ogni cosa, e, come alcuni lo chiamano, un empio beffatore? Una traduzione di Luciano (ponendo da banda le cose che offendono il pudore e i costumi presenti) sarebbe ella un’opera utile, non dico per la leggiadria dello stile, ma per l’importanza della materia? Di questo voglio discorrere piú ad agio1.