Ricordanze della mia vita/Parte terza/XV. Il natalizio del figlio

XV. Il natalizio del figlio

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XV

(Il natalizio del figlio).

Santo Stefano, 8 aprile (1854).


Oggi compiono diciassette anni che tu partoristi il nostro primo figliuolo, il nostro caro Raffaele. Era anche giorno di sabato. Io ricordo puntualmente ogni cosa di quel giorno, i tuoi dolori, le tue parole, le due donne che ti assistevano, la sciocca levatrice, i conforti che io ti davo, e le parole che tu dicesti subito dopo che partoristi, e ti fu detto che avevi fatto un maschio. «Figlio mio, io benedico quanti dolori ho sofferto per te». Quella parola «figlio mio», che dicesti allora la prima volta, mi parve sí bella, sí affettuosa, sí sublime che io ne piansi di tenerezza. O Gigia mia, tu benedicesti il figliuol nostro come egli nacque; la prima parola che gl’indirizzasti fu un’amorosa benedizione. Deh, lo accompagni per tutta la vita, quella sacra benedizione materna, che gli fu data in mezzo ai dolori ed alle trafitture del parto: lo accompagni la nostra benedizione. Mi ricorda come in quella notte essendo andati via tutti restammo in casa noi soli, tu, io, e la nostra creaturina che piangeva, e né tu né io sapevamo come acchetarla: ed io la teneva su le braccia, e temeva di fargli male toccandolo, e me lo accostavo al petto per riscaldarlo, e cominciava a sentire come si ama un figliuolo. Per diciassette anni abbiamo valicato un mare immenso di strazi d’ogni sorte. Per gli altri uomini parrebbe una cosa di ieri, o di ieri l’altro: a me pare un avvenimento lontano assai, di un altro secolo, avvenuto ad altre persone non a me, un sogno, un racconto che ho letto, e di cui ricordo benissimo tutti i particolari. Ahi, Gigia mia, il dolore presente e smisurato mi fa credere che qualche raro e piccolo piacere che abbiamo avuto nella vita nostra sia un sogno, una cosa d’altri, non mia: io mi [p. 356 modifica] son persuaso che solo il dolore è mio. Diciassette anni mi paiono lunghissimo spazio di tempo, e volgendomi indietro a riguardare ad uno ad uno questi diciassette anni mi spaurisco e mi maraviglio come abbiamo potuto durare per tanto tempo a tanti dolori.

Potevamo noi immaginare il giorno 8 aprile 1837 in Catanzaro che saremmo venuti a questo? tu con la povera Giulia sola e deserta in Napoli, io sepolto vivo nell’ergastolo, e Raffaele esule da due anni, vagante sull’oceano del nuovo mondo? Spesso io considerando questo durissimo stato nostro, e domandando a me stesso perché dobbiamo patire tanto, che delitto abbiamo commesso da aver queste pene, a chi abbiam fatto male noi da essere straziati e dilaniati le viscere ed il cuore: io non trovo che rispondere a me stesso, e vengo in tanto furore e in tanta cupa disperazione che rido amaramente di me stesso che sono stato e sono ancora sí sciocco da credere che la virtú sia una cosa vera, che la giustizia meriti rispetto dagli uomini, che una provvidenza regoli il mondo. Parmi che alcuni uomini son nati con una maledizione addosso, per essere schiacciati come le formiche sotto i piedi del viandante, per vivere e morire tra mille strazii senza una ragione, senza un bene, senza un perché: e quantunque abbiano ingegno ed anima generosa, e natura divina di leggiadrissime farfalle, sono colti e schiacciati sotto i piedi degli asini e di altri stupidi e vili animali. Questo mondo è una gran selva di bestie feroci, dove quelle che hanno piú duri denti e piú acuti unghioni sono piú rispettati, dove è virtú adoperare i denti e gli unghioni, si dispensa giustizia con i denti e con gli unghioni, e la provvidenza è quella forza che muove i denti e gli unghioni. Ciascuno è nemico a ciascuno: chi non ha denti né unghie poveretto lui! chi non vuole essere tra gli oppressori, dev’essere tra gli oppressi. La parola che noi uomini abbiamo e di cui siamo cosí superbi, non è altro che un po’ di pelo o di piume che copre l’unghie; è un altro mezzo che abbiamo per ingannarci traditorescamente e per isbranarci piú crudelmente. La ragione, oh la ragione ci serve piú per [p. 357 modifica] sragionare che per ragionare, come il corpo ci serve piú per sentire il dolore che il piacere. Che mi giova a me l’essermi tanto affaticato per fare la mia parte di bene agli uomini, che io credeva miei fratelli? Essi m’hanno risposto: «Siamo fratelli come Caino ed Abele». Che mi giova l’aver creduto e credere in Dio? Deus meus, ut quid dereliquisti me? Che mi giova l’avermi logorato la vita negli studi, se non ho trovata la sapienza? Che mi giova l’aver patito ogni maniera di privazioni, di miserie, di dolori per serbarmi pura l’anima, non aver mai offeso nessuno, aver dato la mano a qualche infelice come me, che ho incontrato nel mio cammino? Che mi giova l’aver pianto con chi sofferiva, aver diviso col povero il mio pane, l’aver amato tutti, anche chi mi faceva sofferire? A che mi giova ora quest’anima tanto straziata, questo cuore che pur mi palpita d’amore, questa vita dolorosa, questa mente stanca, questo pensiero che non vola piú al cielo? Mi resta la coscienza di aver fatto un poco di bene: è vero: questa coscienza è un piacere, nol nego; se no negherei la cagione perché vivo ancora. Ma con questa io ho un’altra coscienza, di non meritare ciò che patisco: e quest’altra mi tormenta piú che quella non mi conforta, è un dolore piú grande di quel piacere. E vorresti, o Critone, che Socrate morisse colpevole? O Socrate tu sei un uomo divino, e il piú sapiente dei greci. Io credo nella tua virtú: ma io sento che sono troppo profondi i miei dolori. Dimmi, o sapiente, non ti fa dolore che gli ateniesi commettano una grande ingiustizia, e in te offendano, non te, ma l’umanitá e la sapienza? che storcano maliziosamente una loro legge per offendere la grande e santissima legge universale? che schiantino dal cuore de’ giovani, che tu tanto amasti ed educasti, il sentimento della virtú? che scancellino dalla mente di tutti i cittadini l’idea del giusto e dell’onesto, e insegnino a tutti i ribaldi del mondo come opprimere e deridere i buoni? O Socrate, il male dispiace perché è male, non perché uno lo soffre. Se tu non fossi morto di cicuta tu avresti avuto un po’ meno di gloria, ma gli ateniesi non si sarebbero resi colpevoli di un grande misfatto. E puoi tu morire tranquillo [p. 358 modifica] quando sai che la tua patria s’è coperta d’ignominia? Questo è il mio dolore piú grande, questo mi cuoce e mi arde profondamente l’anima.

Ma dove sono trascorso? Oggi è il dí ottavo di aprile: oggi Raffaele compie il suo diciassettesimo anno. O mio Raffaele, o figliuol mio, o sventurato figliuolo di sventurati genitori, dovunque tu sei, su qualunque lontano lido dell’America, sovra qualunque acque, ricevi, o figliuolo, la benedizione di tuo padre. Possa questa benedizione, come il sole del cielo, illuminarti, abbellirti, vivificarti, mostrarti il retto sentiero della vita, schiarirti la mente, rallegrarti l’anima, e riempirtela di pure e sante consolazioni. Possa io vederti prima di chiudere questi occhi miei, possa io rivederti buono ed onesto, e degno di questa patria che ha tanto bisogno di buoni ed onesti. Che se sta scritto che anche tu debba essere sventurato (quanto tuo padre, no; ché la sventura mia sta scritta per pochissimi); se anche tu dovrai bere molto dell’amara tazza dei dolori, la mia benedizione ti dia forza a sostenere dignitosamente la sventura, ed a lodare Iddio anche in mezzo a’ dolori. Al quale io mi rivolgo, e con tutta la effusione dell’anima, con tutta la tenerezza dell’affetto io lo prego che ti benedica e ti protegga: e se egli vuole un olocausto, io gli offero tutto me stesso, mi mandi piú piaghe, mi flagelli piú forte, mi raddoppi i tormenti, ma risparmi te, o sangue mio, o figliuolo mio, o figliuolo della cara compagna mia, o diletto Raffaele mio.

Debbo finire perché le lagrime mi tolgono lo scrivere. O mia Gigia, benediciamo sempre i figliuoli nostri.