Ricordanze della mia vita/Parte terza/LXIX. Le ultime attese
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LXIX
(Le ultime attese).
Santo Stefano, 10 dicembre 1858.
Gigia mia dilettissima,
Dopo circa due mesi stamane finalmente ricevo tue lettere, ed in esse la consolazione che tu non sei molestata. Ero in mille pensieri, mi sentivo lacerare il petto, e stamane ho respirato. Ma davvero non ti molesteranno? o ti avessero dato fiducia per farti presentare? Io temo tutto: e desidero che i miei timori sien falsi. Mi piace che stai bene, e voglio avere sempre buone nuove di te, o mia diletta. Mi dici che te n’andrai in campagna: di questi tempi? non ti fará male l’umido della campagna? Badavi, e pensa alla tua salute.
Ho avuto la lettera di Raffaele, e te ne accludo una per lui. Non gli ho scritto da molto tempo ed egli ha ragione di lagnarsi: ma io ho anche ragione di lagnarmi di lui.
Credo che a quest’ora avrai ricevuto una mia dei primi giorni di questo mese, e m’aspetto tua risposta. So che hai avuto le due copie del discorso intorno a Luciano. Vorrei se ne facesse una copia decente, in buon carattere, corretta da Errico, e tu la presentassi ai cugini, che saluterai da mia parte, e li pregherai di accettare ciò che solamente io posso offerire. Crederei di mandarne un’altra a P(anizzi); o la stessa? Regolati come credi, e consigliati coi cugini stessi. Io penso all’avvenire, che non è tanto chiaro per me; e andare pel mondo sconosciuto è dura cosa, e tu l’hai provata. E se anche non gioverá a me, sará un bene per te e per i figliuoli miei, che io abbia fatto uno scritto buono. Eccoti dunque il mio pensiero: spero che tu lo troverai ragionevole e farai ciò che desidero.
Abbiamo un comandante molto rigoroso, che è stato in gendarmeria, e comandante anche a Montefusco, e ci ha stretti sí che avere e mandare lettere è cosa difficile assai: e ti prego di essere attenta, e scrivermi con prudenza. Noi non abbiam segreto di stato: ma i cancheri nostri possono far sospettare gente ignorante. Bada dunque ad Alberto. Ma io debbo dire il vero che questo comandante ha ragione.
Non ho altro che quattro rotoli di filato da un pezzo, e te lo manderò quando viene Colonna: il quale sono circa cinquanta giorni che manca da qui, e non so quando verrá. In cinquanta giorni si va e si viene d’America, e Colonna non fa il tragitto da Napoli a Ventotene! Io sto bene al mio solito. Ora mi occupo a tradurre Tucidide, e sono tutto in questo lavoro.
Qui si parla molto del matrimonio del principe, perché si spera un indulto. In questa occasione ci sará sicuramente qualche cosa, poca se sará il matrimonio senza che si ripiglino le relazioni con le due potenze. Io penso: «E che sará di me? Sarò io mandato ai ferri?» Sarebbe per me pena maggiore della presente. In esilio? Sarebbe il minor male, ma sempre male, perché non avrei te che ora ne sei tornata e spaventata. Ma fosse pure l’esilio! sarei contento che tu stessi con la Giulia ed io anderei dove potrei meglio guadagnare da vivere, e mi unirei a Raffaele. Fo tutti questi casi: e fo pure l’altro di non uscire di qui, e con tutto il matrimonio e l’indulto sperato, rimanere qui chi sa quanto altro tempo. Sia quello che sia: sono pronto a tutto. Aspettiam dunque gennaio e le nozze. Povere speranze dove sono andate a ficcarsi!
Gigia mia, dopo tanti trapazzi e tanti crepacuori che hai sofferto da otto mesi in qua, attendi ora alla tua salute, e a ristabilirti interamente. Io da qui ho sentito quello che sentivi tu, e immaginando quello che ti accadeva non avevo pace. Ora è finita, e spero che sia finita davvero, e che non ti molestino un’altra volta.