Ricordanze della mia vita/Parte terza/LX. Inchiesta giudiziaria

LX. Inchiesta giudiziaria

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LX

(Inchiesta giudiziaria).

Santo Stefano, 2 novembre 1857.

 Mia carissima Gigia,

Stamane è venuto qui col vapore un giudice istruttore, di cui non so ancora il nome, il quale ha fatto chiamare me, Agresti, e Purcaro. In mia presenza ha visitata la mia cassa, i libri, le carte, tutte minutamente, e tutto puntualmente mi ha restituito. Mi ha dimandato se conosceva una setta chiamata democratica, stabilita nel bagno di Nisida e di Procida. Ho risposto che con maraviglia mi vedo interrogato nella pace sepolcrale dell’ergastolo, dove sono da sette anni dimentico dal mondo; e che non ho avuto mai alcuna relazione con persone che sono nei bagni di Procida e di Nisida. Mi ha dimandato se conoscevo o avevo veduto carte bancali e monete false nel bagno. Ho risposto che egli era giovane, e non mi conosce, e che a Luigi Settembrini non si fanno di tali dimande. Dopo che ha letto e visitato tutto gli ho detto, che egli avendosi presa tanta pena poteva dirmi che faccenda è questa: ed egli mi ha risposto che dalle sue dimande io poteva argomentare di che sono accusato: «che è un viluppo diabolico, è una mano scellerata, che sta qui». Io gli ho detto altre parole forti e dignitose, e sono andato via. Ora io credo che la cosa vada cosí. Qui siamo in mezzo ai piú scellerati ribaldi, i quali fanno e si fanno fare denunzie, si fanno trovare monete false, per essere condotti in Napoli e quivi tentar di fuggire. Non ci è anno che qui non venga un giudice per istruire sopra denunzie di falsa moneta. Or questi ribaldi, fra i quali il giustissimo e religiosissimo governo di Napoli tiene gli uomini onesti, per dare credito e peso alle loro denunzie, [p. 453 modifica] hanno mescolato falsa-moneta e setta, ed hanno nominato anche me ed altri, tutti in un mazzo. Non ti so dire il ribrezzo che mi ha prodotto il vedermi fare quelle dimande, e sapere che il mio nome è in processo cosí sozzo, e che da magistrati e dal governo si profitti di ribaldi conosciuti per darmi queste noie, e cercare di offendermi. Ma dopo il ribrezzo mi è venuto un sentimento diverso, ho riso e disprezzato questi bassi ed infami artifici. Il giudice si è mostrato in certo modo persuaso della bruttezza della cosa, ma essendoci il colore politico non ha potuto fare a meno di non istruire. Io dunque vorrei che Errico, se può, s’informasse di questo processo, e mi facesse sapere qualcosa di preciso. Dimani m’informerò del nome del giudice, e te lo scriverò. Tu non darti pena per questo, ché io ho giá ripreso la mia tranquillitá, la quale veramente non ho mai perduta. Di male nulla mi può avvenire; all’onor mio non possono far male pochi scellerati, né chi si serve di questi scellerati. Qui poi le denunzie di questo genere sono cosa solita, e ognuno per farsi un merito accusa condannati politici, e dice cose che può dire un ergastolano. Non si è mai creduto a tali denunzie; ora ci si crede, o per dir meglio si finge di volerci credere, e cosí si scende al pari degli assassini. È cosa spiacevole che io non posso star quieto neppure in un sepolcro! Tu non ti rattristare per una sozzura, che non può giungere a toccarmi. Né pensare che io possa avere restrizioni, o che altro: a me non si farebbe ciò che non si fa agli ultimi ergastolani in questi casi. Ti dico tutto questo acciocché tu non istia in pensieri e non immagini ciò che non è, né può essere. Sto come stavo; ho i riguardi che avevo. Qui si è avvezzi a questi giuochi che si fanno sempre, ed ora è stato fatto a me per giuocare una posta piú grossa. È niente, ti ripeto, è niente altro che una sozza ribalderia. Bisogna averci pazienza, e vivere in modo da fuggire con la mente in un luogo dove si è col corpo. Ed io cosí ci vivo, e per purificarmi vengo col pensiero a te, o mia Gigia, e alla Giulia nostra, o vado seguitando sull’oceano il nostro caro e benedetto Raffaele. [p. 454 modifica]

Se hai occasione di vedere tuo nipote, io vorrei che tu gli dimandassi se è opinione degli uomini di senno e di conoscenze, e dei giornali gravi, che tra le cose di Europa, che gl’imperatori nel loro convegno hanno stabilito di aggiustare per rassodare la pace, sono ancora le cose di Napoli. Le quali certamente sono un motivo di malumori e timori, e debbono sia presto sia tardi accomodarsi: come e quando non si sa, ma che debbano venire ad una conchiusione mi pare certo. Qui si dicono le piú sperticate sciocchezze, si vive a quindicina, si crede sempre che tra quindici giorni si uscirá. Io spesso mi adiro di tanta balordaggine, spesso ne rido, e spesso ancora compatisco chi si trova nell’ergastolo e con queste illusioni si conforta e vive. Se hai novelle, o ne sa Peppino, fa di scrivermele: ma credo che né tu né egli ne abbiate né molte né grandi. Nondimeno, o Gigia mia, non ti scuorare: dimani può avvenire quello che non è avvenuto sinora. Pare che non si possa tirare a lungo cosí: e se il giudizio non m’inganna, c’è piú da sperare che da scuorarsi.