Ricordanze della mia vita/Parte terza/IV. Gli ergastolani
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IV
Gli ergastolani.
Le nostre leggi a pochi delitti danno la pena dell’ergastolo: non di meno sono piú di settecento ergastolani, ed in vent’anni ne sono morti mille e duecento, de’ quali piú di mille uccisi. Rari sono i condannati a questa pena nel primo ed unico loro giudizio: il maggior numero è di condannati a morte che per grazia scendono a questa pena: vi ha di molti che salendo di misfatto in misfatto e di pena in pena giunsero sino all’ergastolo. Questi ultimi sono i piú tristi; poiché da fanciulli avendo cominciato il mestiere di ladroncelli, cresciuti ed educati nelle carceri, sono bruttati di tutti i vizi piú nefandi, sogliono morire uccisi da’ compagni. Sicché l’ergastolo è la sentina del regno delle Sicilie, e vi cadono i pessimi tra otto milioni di uomini.
Nell’entrare in questo luogo vedi facce aspramente scolpite, angolari, rugose, triste, cineree; occhi incerti, sorriso raro e sinistro; vesti strane; parole aspre, fendenti, strascicanti, avvolte, stridenti, di tutti i dialetti del regno. Ciascuno ha le mani lorde di sangue e di furto; ciascuno ha ucciso un altro uomo e due, e tre, e cinque, e sette, e piú; e taluno il fratello o la sorella; taluno la moglie; taluno il padre ancora, e la madre, ed i figliuoli suoi.
Ci ha molti vecchi, ci ha uomini attempati, e giovani: quasi tutti son gente di vilissima condizione, e qualcuno che nacque gentilmente è piú scellerato, piú infame, piú sozzo ed imbestiato degli altri. Tutti hanno intelligenza e ferocia di belve: sono spaventosamente atei, bestemmiano Dio anche scherzando, credono solo quello che vedono; non comprendono che sia virtú, e beffano chi ne parla: si vantano de’ loro delitti, e non sentono o mostrano di non sentirne rimorso; non hanno altra passione che pel vino, pel giuoco, pei denari; non sentono e non ricordano piú affetti di famiglia, sono ritirati in un’arida e orribile solitudine, non curano che sé stessi. Son chiusi nell’ergastolo da quindici, da venti, da trent’anni; dimentichi del mondo, dimenticati da tutti: ed hanno presenti alla loro mente i lunghi anni della loro prigionia, come fossero un giorno solo. Il tempo non è scorso per essi: ti parlano di cose vecchie ed obbliate come se fossero recenti: credono che il mondo stia al punto che essi lo lasciarono: i vapori, le strade ferrate, i nuovi trovati delle arti sono ignoti a molti che li credono burle che ad essi si vorrebbe fare: parlano come se parlasse un uomo morto da trent’anni. La prima volta che per caso dimandai ad uno da quanto tempo era condannato, mi rispose: «Sono ne’ guai da trentotto anni». Raccapricciai d’orrore a queste parole pensando che costui penava da che io era nato al mondo. Ma tosto mi furono mostrati altri vecchi che da cinquant’anni e piú vanno trascinando la vita nelle galere. C’è un vecchio di 89 anni, nato in Itri, seguace de’ briganti Pronio e fra Diavolo, condannato alla galera sin dal 1800, sta da trentadue anni nell’ergastolo: c’è un altro calabrese di 75 anni, stupratore ed omicida il 1797, brigante col Cardinal Ruffo, dannato alla galera in vita il 1802, poi uscito per le vicende politiche, poi capo di scherani, infine gettato nell’ergastolo nel 1825; si vanta di avere uccisi trentacinque uomini. Ci sono molti altri antichi briganti, che ebbero parte nei terribili fatti narrati dalla nostra storia: ed alcuni di essi portano ancora sui fieri volti e sui corpi le cicatrici avute nei combattimenti, i quali essi narrano a modo loro. Qui dove tutti hanno delitti, nessuno vergogna o teme di confessare i suoi, anzi li dice con orgoglio per mostrarsi maggiore degli altri.
In questa fiera comunanza di uomini sono tutti gli odi, le invidie, gl’intrighi, i pettegolezzi, le furberie, e le lascivie ancora che sono in un convento di frati: s’irritano e s’inviperiscono per la piú lieve cagione, per uno sguardo, per una parola, per nulla: e decidono loro contese con le armi. Tutti hanno loro coltelli, che chiamano tagliapane, spesso lunghi quanto una spada, e lavorati con arte fina, e con ornamenti di argento. Pare impossibile che uomini chiusi in un ergastolo, su di uno scoglio lontano, vigilati severissimamente, minacciati da terribili castighi, possono avere armi, e tante; ma essi vi spendono ogni danaro, e se ne fanno portare dai custodi o dai serventi, i quali loro vendono lime o pezzi qualunque di ferro, cui essi dànno la forma di stile. Talvolta raccolgono chiodi e bullette, strappano gangheri dalle porte, rompono pezzi di bandelle, svellono i ferri che uniscono i piperni, rubano maglie di catena, li gettano nel fuoco, e la notte tra due pietre, l’una che serve da incudine l’altra da martello, fanno di queste armi maravigliose. Le nascondono nelle mura, sotto le selci del pavimento, negli arnesi di legno sbucati e turati diligentissimamente, e qualche sottile lama avvolta in cenci taluno ardí nascondersela nell’ano. Per ritrovarle i custodi usano diligenza incredibile: ricercano le persone e le fanno spogliare nude; rovistano tutte le masserizie, sconnettono le pietre del pavimento, staccano l’intonaco dalle mura, e spesso non giungono a ritrovarle, se da una spia non sanno il luogo certo del nascondiglio. Raccontano che pochi mesi fa venne da Napoli un uffiziale maggiore con un battaglione di soldati, e fatteli schierare nel cortile, fece gridare che i condannati dovessero gittar le armi fra tre ore, e chi ne avesse serbata una sarebbe stato fucilato. Per tre ore nel cortile fu una pioggia di vari e mirabili coltelli, che raccolti furono piú di mille. Partiti i soldati e la paura, rinacquero i coltelli come per incanto. Tutti debbono avere le armi, i forti per opprimere, i deboli per non farsi opprimere, i timidi ed i quieti per indeclinabile necessitá. E veramente se un uomo della tua provincia, che tu neppure conosci, si rissa con un altro; costui ed i suoi paesani se per caso t’incontrano su la loggia, nel loro cieco furore, ti corrono addosso perché sei paesano del loro nemico, e ti uccidono. Eppure questi uomini che per nulla si scannano tra loro non ardiscono toccar gli aguzzini: uno solo uccise un sergente, e subito fu trafitto dai stessi compagni. Una è la stoltezza dei deboli.
Le piú frequenti cagioni di risse sono il giuoco ed il vino. Il giuoco è severamente vietato; ma giuocano a carte, che fanno essi stessi con tipi di legno. Giuocano il giorno, giuocano la notte, e ne comperano il tacito permesso dai venali custodi: si giuocano danari, il pane, la zuppa, il letto, i panni, il pudore. Pel vino non vi è alcun regolamento: ognuno ne beve quanto può comperarne dal tavernaio, quanto ne guadagna giuocando alla mora: né beve se non nel giuoco, che, dicono, dá sapore al vino. Molti mangiano la zuppa e mezzo pane senza bere o gonfiandosi d’acqua; dipoi si uniscono, giocano alla mora, spendono quel che tengono, o che hanno guadagnato filando per molti giorni, o che hanno preso ad usura, e bevono dal mezzodí fino alla sera, fino a rendersi bestie. Li vedi bevendo e ribevendo parlar lungamente, ricordar cose accadute molti anni prima, vecchie e perdonate offese, e ad un tratto far gli occhi strani, levarsi, far lago di sangue e di vino. I loro combattimenti non sono forti e direi generosamente scellerati, ma traditori e vigliacchi: molti s’avventano su di uno che siede o che dorme, e lo feriscon di dietro; o mentre passa innanzi una porta gli cacciano un pugnale nel fianco. Una rissa ne genera molte per molto tempo: gli amici ed i paesani raccolgono l’ereditá dell’odio e della vendetta: l’uccisore è ucciso da un altro, e questi da un altro, e cosí sempre. Se la rissa si accende in un piano inferiore, vedi dal superiore volar pietre, scagliar fornacette che schiacciano le membra, correre, inseguire, ferire: odi grida terribili e strazianti, urla, bestemmie, e par che tutto l’ergastolo tremi dalle fondamenta. La sentinella che sta sulla piazzetta chiama i compagni all’arme: e quando tutto è cessato viene il comandante, gli aguzzini, il chirurgo, il prete: i feriti vanno all’ospedale; i morti nella bara al cimitero, agli altri si prepara il castigo: tutti i condannati chiusi nelle celle sono concitati da ira, da pietá, da gioia feroce, da diversi e strani affetti.
Per impedire questi orrori non basta il senno e la vigilanza de’ comandanti, non le battiture, il puntale, le traverse, le manette; che sono gli aspri castighi che si dànno ogni giorno a chi commette i piú lievi falli ed i piú gravi. Il colpevole è disteso bocconi sopra uno scanno in mezzo al cortile: e da due aguzzini con due grosse funi impiastrate di catrame ed immollate nell’acqua, è battuto fieramente su le natiche, e su i fianchi ancora e su i femori. Il comandante prescrive il numero de’ colpi, ed è presente col medico e col prete: i soldati stanno su la loggia con l’arme al braccio: i condannati debbono riguardare: il battuto urlando chiama la vergine ed i santi che poc’anzi bestemmiava: alcuno soffre muto, e levatosi dallo scanno con orgogliosa impudenza si scuote i calzoni e le battiture. Dopo le battiture è incatenato ad un piede, e messo al puntale, cioè l’altro capo della catena è fisso ad un grosso anello di ferro che sorge dal pavimento d’una segreta, o è fisso ad un cancello d’una finestra: e cosí sta assai giorni e mesi. Talvolta gli si mettono ancora le traverse, che sono due semicerchi di ferro messi ai piedi e fermati da un grossissimo perno che pesa su i talloni e rende difficile e doloroso stendere un passo. Questi castighi sono continui, le battiture quasi ogni giorno: alcuni in varie volte ne hanno ricevuto oltre due mila, e ne muoiono consunti da tisi, ma non domati. Dopo l’omicidio s’incomincia il processo: i testimoni, che spesso sono congiurati, aiutano il vivo, dicono che è stato provocato da schiaffi e da ingiurie. Il colpevole dopo tre quattro anni è mandato a Procida, dove una commissione militare lo giudica e lo condanna ad altre battiture, o a pochi mesi di puntale, rarissimamente a morte: onde ritorna piú baldanzoso tra i suoi, e pronto a dare altre morti. Le robe dell’ucciso spesso sono rubate, o i paesani se le dividono: se muore dopo alquanto tempo nell’ospedale, il prete si fa lasciar qualche cosa o tutto per dirgli una messa di requie: i cenci, il letto, la cassa, si vendono all’incanto in mezzo al cortile, ed il danaro si divide tra i creditori, che ricordano di lui solamente per maledirlo.
Vi sono ancora armi piú crudeli e velenose dei coltelli. Coloro che sanno scrivere fanno scellerate denunzie contro i loro compagni, e ne hanno particolari favori, o un compenso di dodici carlini il mese: e quando non sono favoriti o compensati come vogliono accusano il comandante, il prete, i medici, dicono cose vere e false, e con incredibili astuzie mandano le carte ai ministri ed al re. Qualche comandante ne ha fatto aspra vendetta: un sicario ha trafitto il denunziatore, e se la ferita non è stata presto mortale, è stata avvelenata. Cosí i delitti sono vendicati coi delitti.
Quando la sera verso il tramonto, levato il ponte tutti sono noverati e chiusi nelle loro celle, rimangono per qualche tempo muti e pensosi, riguardando il cielo dall’angusta ferrata e parlando co’ propri dolori. Alcuno per ubbriachezza, per noia, o per costume si corica: gli altri, accesa la lucerna, fan cerchio, filano canape, e cominciano i discorsi della sera. Terribili discorsi che ti volgono sotto sopra l’anima, ti straziano il cuore profondamente, e talvolta ti fan tutto tremare e sudare ed arricciare i capelli sul capo per lo spavento. Raccontano la storia dell’ergastolo, cioè gli orribili delitti che qui hanno veduti, e le cagioni delle risse: descrivono i lunghi coltelli, le ferite, le grida, gli atti del ferire e del morire, ti additano i luoghi, e ti dicono che non v’è cella, non vi è pietra che non sia sparsa di sangue. Spesso raccontano la storia de’ misfatti altrui, spesso dei propri. Un mostro fece incesto con sua madre, e saputo che suo padre usciva dal carcere, con lei gli va incontro, e l’uccide: dannato a morte, ebbe grazia dal principe, ma nell’ergastolo fu ucciso per volere di chi è piú giusto de’ príncipi. Un altro uscito di galera dice alla madre mendica che la sera gli faccia trovare certi danari: la misera non li raccoglie dalla limosina: lo scelleratissimo la lega sul letto, v’appicca il fuoco e parte: alle grida accorron le vicine e salvano la vecchia mal viva. Per altri delitti costui fu mandato all’ergastolo, dove perí pugnalato. Un bottaio giuocava in una cantina e poco lavorava: la moglie un dí manda a chiamarlo per un figliuoletto: quegli dal giuoco e dal vino renduto bestia, scagliasi sul fanciullo e con un temperatoio lo uccide. Or piange continuamente, ha quasi perduto il senno, e non sa morire. Presso Lecce un ciarlatano, ingannato ed ingannatore, persuade alcuni contadini che sotto le macerie di una cappelluccia era nascosto un gran tesoro, che poteva trovarsi uccidendo un fanciullo. Una notte un romito che abitava presso la cappelluccia ode un lamento di un fanciullo, che dice: «Mamma mia, aiutami»; riconosce il ciarlatano ed i contadini, e li denunzia. I giudici inorridiron del misfatto, ma non sapendo o non volendo trovarne l’autor vero, perché avrebber dovuto punire chi vuol tanta ignoranza, condannarono quattro di quei sciagurati all’ergastolo. Un giovane di diciotto anni, di agiata ed onorata famiglia, educato assai gentilmente, di svelto ingegno e di persona bellissima, studiando in Napoli abitava in casa di una signora vedova, che appigionava stanze a varie persone. Avendo perduti al giuoco ottantatré ducati, datigli per mandarli al padre, era forte turbato dal timore de’ paterni rimproveri. La donna gli dimandò la cagione del turbamento, e saputo il vero gli disse: non si affannasse; se egli era uomo, aveva coraggio ed un compagno, poteva avere non ottantatré ma sessantamila ducati; che tra i suoi inquilini era il cavaliere S. vecchio ricchissimo, avaro, smemorato, solo; che ella lo aveva fatto rubar due volte da un servitore, ed egli non se ne era accorto; che ora potrebbero torgli ogni cosa sicuramente. Lo sciagurato giovane ascolta la malvagia femmina, parla e persuade un suo compagno, giovane anch’egli e di buone speranze: entrano nella stanza del vecchio, lo rubano, gli danno di un pestello sul capo, e l’uccidono. Presi con la donna che confessò il fatto, giudicati e condannati a morte, ebbero per grazia la vita, e sono da vent’anni nell’ergastolo. Il bel giovane è imbestiato in tutti i vizi che si possono immaginare, ubbriaco ogni dí, trema in tutte le membra: l’altro divenuto epilettico piange amaramente il suo fallo, il dolore e lo scorno della sua famiglia. Terribile esempio ai giovani. Un altro giovane gentiluomo abruzzese renduto deforme e cieco di un occhio dal vaiuolo, s’innammorò fieramente d’una donzella appartenente ad una famiglia, che, secondo avviene nei paeselli, era nemica della sua. Ottenne di essere riamato; ma non potendo vincere l’odio del padre della fanciulla, prese il feroce consiglio di farlo uccidere da due sicari, i quali seguendo loro costume lo rubarono ancora. Fu scoperto il fatto e la vergogna: e l’innammorata donna, sia che non lo credesse colpevole, sia che per aiutarlo volesse mostrare che tra le due famiglie non v’era odio di sangue, sia per altra cagione, ebbe cuore di sposare il fratello di chi gli aveva tolto il padre. Il giovane dannato a morte, bevve un veleno, ma fu fatto vivere per seppellirlo nell’ergastolo, dove sta da trent’anni, ed ancora si strugge d’amore e piange miseramente. Io non voglio dire né ricordarmi di altri, ché la mano non mi regge a scrivere: immagina qualunque piú nefanda scelleratezza, e tra questi uomini la troverai.
E in questo ergastolo tra questi uomini stiamo venti prigionieri politici, sei ergastolani, quattordici condannati da venticinque a trent’anni di ferri. Questi ultimi son tutti povera gente, condannati per avere con parole sparso il malcontento contro il governo; e tra essi sono sei miseri contadini di Gragnano, che la corte criminale di Napoli condannò come appartenenti ad una setta cosí detta Repubblica. Nell’ergastolo è Gennaro Placco giovane albanese di Calabria che combattendo valorosamente a Castrovillari perdé l’indice della destra mano: è Giovanni Pollaro siciliano che nello stesso combattimento perdé un occhio e mezzo naso; e siamo noi quattro E(milio) M(azza), S(alvatore) F(aucitano), F(ilippo) A(gresti) ed io L(uigi) S(ettembrini).
Per noi si usa piú rigore che per tutti gli altri: e solo quattro de’ nostri compagni condannati a ferri, disperati per la miseria, fanno i cucinieri ed i serventi per guadagnar qualche cosa. A che può esser condotta la virtú sventurata! Uomini puri, che amarono il bene senza ambizione, essere costretti a servire gli assassini e i parricidi! Noi dall’alta loggia dell’ergastolo con uno stringimento di cuore riguardiamo i nostri compagni di dolore strascinar pel cortile le pesanti catene: ed essi amorosamente ci salutano, e ci domandano un conforto, una speranza, che noi non abbiamo per noi stessi. I condannati politici son quasi i soli che vanno alla chiesa, perché chi crede nella virtú crede in Dio, e sente che da lui solo avrá il premio delle azioni virtuose; per le quali questi uomini soffrono immeritamente e trascinano le catene scellerate senza lamento, con dignitosa pazienza, con viva fede nell’avvenire, con accesa speranza, quantunque ignorati dal mondo, e compianti soltanto da pochi, che come essi piangono le lunghe sventure del nostro paese.
Quando io entrai nella cella che mi fu destinata, volli conoscere coloro coi quali io doveva abitare: e questi mi narrarono ciascuno la sua vita ed i suoi delitti. Il primo è quel vecchio calabrese che ha 75 anni e trentacinque omicidi: magro, alto, diritto, parla rado ed assennato: dice che per ardore di gioventú commise il primo delitto, per necessitá gli altri; che ora deve pagare il mal fatto e non lamentarsi; ha perduto moglie, figliuoli, parenti, aspetta tranquillamente la morte. Il secondo è un altro calabrese di un paesello presso Cosenza, co’ capelli canuti, ma robusto come un toro, col braccio sinistro rotto a mezzo dell’omero e pendente sul petto. Questo brigante detto Moscariello, narra i suoi casi ridendo e schiettamente nel suo nasale ed ispido dialetto. Fu soldato, disertò, prese moglie, e lasciata la zappa si diede con altri a rubare: narra ad uno ad uno i furti che fece, le persone che egli spogliò, i denari e le robe che prese e ritenne per sé o diede a’ suoi protettori; come una volta essendo nascosto con altri in un macchione per attendere uno che dovevano svaligiare, un povero contadino per caso li vide e conobbe alcuni, i quali tosto lo presero, lo legarono, e condottolo sul monte, egli lo uccise per non essere scoperti; come altra volta uccise quelli che rubò; come è bella la vita del brigante, padrone di tutto, temuto da tutti; come un dí egli dormiva in una grotta, e due compagni, sperando impunitá, gli tirarono un colpo di fucile, che gli spezzò l’osso dell’omero sinistro e gli fece larga ferita su la mammella; come egli inseguí i traditori che fuggirono e non osarono finirlo; come stette sei giorni senza curar la ferita che lo ardeva; come ricoverato da un romito invece di vedere un chirurgo, vide i gendarmi che legatolo su di un asino, e messogli sul berretto un cartello dove era scritto: «il famoso Moscariello», lo menarono prigione in Cosenza. Quando egli una sera narrandomi questi fatti, mi mostrava le sconce cicatrici ed il braccio inutile, desiderava vendetta del feritore che è anche nell’ergastolo, e parlando mi avvicinava l’altra mano grossa, ispida, callosa, omicida, mi fece un indicibile spavento. Una mattina svegliandosi sa che la notte è stato ucciso un ergastolano che gli aveva rubate alcune salsicce: egli si leva, e con feroce sorriso dice: «Ora manderò l’acquavita a chi lo ha ucciso; ed oggi io mi voglio ubbriacare». E fece quello che disse. Il terzo è un abruzzese di un villaggio presso Teramo, e chiamasi Giovanni. Costui racconta che un signore suo padrone volendo il sangue e la roba di un suo parente che lo aveva offeso, chiamò a sé alcuni briganti che andavano correndo la campagna. Una notte, mandato innanzi esso Giovanni con un asino carico di fieno, gli comandò di picchiare alla porta della casa del parente che era in campagna. Facilmente come a conosciuto gli fu aperto: allora il signore e gli assassini, entrano, uccidono spietatamente undici persone, fra le quali donne che piangevano e pregavano, ed una madre ed un fanciullo di diciotto mesi, rubano tutto, ed appiccano fuoco alla casa. Un giovane benché ferito a morte gettasi furtivamente da una finestra, e vive tanto da nominare alcuni degli assassini, e Giovanni che aveva picchiato. Giovanni, sperando impunitá narra tutti i casi del feroce eccidio, e nomina i compagni: dei quali sei col padrone furono impiccati, egli con altri dannato all’ergastolo, dove è giunto da pochi mesi. Il quarto è un giovane anche abruzzese, il quale dice che avendo poco piú di diciotto anni era sempre battuto ed insultato da un contadino, al quale un suo fratello aveva tolto l’innammorata; e il contadino non potendo offendere il rivale, offendeva lui fratello minore e piú debole. Stava egli però pieno di sdegno e di mala voglia: una notte mentre egli falciava il fieno, un pastore lo avvisa che il suo nemico e percussore era poco lontano: egli corre, e con la falce gli taglia il capo, e gli fa tante ferite quanti schiaffi ed oltraggi aveva ricevuti: gli ruba settantacinque piastre che aveva in cintura, e lascia il corpo che fu divorato da’ lupi. Il pastore lo denunziò, un suo cugino lo fece arrestare: dannato a morte, per grazia vive nell’ergastolo: intanto il fratello, uccise il pastore ed il cugino, e fu spento anch’egli da altri. Il quinto è un pugliese che era garzone di un fittaiuolo, al quale un altro contadino tolse un fondo: il fittaiuolo con questo garzone ed un altro mettesi in agguato: uccidono e rubano il contadino, e son condannati tutti e tre all’ergastolo.
Questi cinque uomini sono tra i condannati migliori e piú tranquilli, non mai li ho veduti ubbriachi, non mai rissarsi fra loro, e sono qui da assai degli anni. Quando co’ due miei amici io entrai nella cella, essi non avevano piú che farci e che offerirci, si dolevano di esser poveri e di non poterci offerire un pranzo, ciascuno di essi volle un giorno pagare il caffè per noi, ci cedettero i loro posti, e qui il posto è caro quanto la casa, fecero ogni opera per fornirci di letti, ora ci servono studiosamente. E non solo essi ma tutti quest’infelici che sono nell’ergastolo ci usarono cortesie, ci vorrebbero confortare, e ci dicono che essi sanno che noi siamo qui perché volevamo il bene di tutti, ed anche il bene de’ condannati. Con questi cinque compagni io discorro la sera: essi confessando i loro misfatti dicono con stupida rassegnazione di meritare la pena che soffrono; anzi Moscariello soggiunge che egli non paga nemmeno l’erba che ha calpestato in campagna. Ma il pugliese non sa darsi pace e dice: «Io era un povero capraio, io aveva diciannove anni, io non sapeva quello che faceva, io ubbidii al mio padrone: ora conosco che allora feci un orribile delitto, ma son vent’anni che piango, vent’anni che non ho mancato in nulla. E come? Iddio perdona, e gli uomini non perdoneranno giammai? Si fa grazia agli omicidi, e tra questi v’è chi ha ucciso il padre e la madre e non si fa grazia a chi ha rubato una volta per fame, a chi ha ucciso una volta per consiglio altrui! Io non ho grazia perché sono un capraio». I miei amici ed io li confortiamo e li esortiamo a sperare in Dio, ma questi miseri non credono in Dio; perché alcuni nati gentiluomini e condannati come falsatori, facendo pompa di stolida sapienza, hanno persuaso a questi miseri che se vi fosse Dio non vi sarebbe ergastolo. Noi li confortiamo, ed essi udendo le nostre parole sospirano profondamente, e pare che si tolgono un gran peso dal petto. Oh scelleratissimo chi toglie Dio agli sventurati!