Ricordando il Bel Paese: orazione di esequie
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Relazione tenuta alla riunione inaugurale di Werkbund Italia, la neonata branca italiana dell'antica Associazione Culturale tedesca
Tema dell'incontro: L'evoluzione del paesaggio agrario italiano L'intervento di Antonio Saltini era preceduto dalla lettura da parte dell'attore Andrea Chimenti della relazione Il colle e la siepe redatto per il convegno per il medesimo tema tenuta a Gradara
Una chiosa breve
Ringrazio Andrea Chimenti della lettura, tanto appassionata che mi è parso, ascoltando, di ripetere a me stesso verità che percepisco come assolutamente attuali, prepotentemente cogenti. Debbo perciò ricordare, prima a me, quindi a chi mi ascolta, che scrissi queste pagine, su invito di Salvatore Giannella, in anni lontani: in tre lustri, tanti sono trascorsi, il cemento ha ricoperto altre centinaia di migliaia di ettari, cemento e asfalto si sono verosimilmente avvicinati ai tre milioni di ettari che costituiscono metà delle pianure italiane, le pianure che potevamo vantare come una delle regioni più fertili della Terra, il patrimonio più prezioso sul quale il Paese poteva fondare la propria vita futura. La terra coltivata è vita: biologica, vegetale, animale, sotto il manto del cemeno tutto è morto.
Sottolineato, peraltro, che da quando scrissi quel testo sono trascosi tre lustri, a proporne la chiosa mi sono sufficienti poche annotazioni. In quelle sei paginette ricordavo il valore paesaggistico delle campagne di un paese che era stato il Bel Paese, che avrebbe potuto proporsi di conservare, per i cittadini futuri del Mondo, i titoli di meta previlegiata che ha vantato, per la propria bellezza, in una lunga successione di secoli. Non è un caso che il Brutto Paese stia perdendo tutti i primati turistici. Il confronto, che propongo di effettuare, tra coste marchigiane e coste calabresi, è impresa per la quale sono sufficienti un gommone ed una macchina fotografica. Attendo che qualcuno la sperimenti, e possa smentire il mio assunto.
Ho ricordato, quale secondo elemento del problema, il valore primordiale delle campagne investite dal cemento: la loro capacità di produrre alimenti, il cibo necessario a chi, nelle città collocate tra quelle campagne, viva e lavori. Quando leggevo quelle cartellette a Gradara uomini politici, economisti, leader dell’opinione proclamavano unanimi la certezza che derrate alimentari si sarebbero per sempre potute acquistare, ai prezzi più convenienti, sui mercati mondiali. Oggi quella certezza non è altrettanto incondizionata, nessuno osa dichiararla un sogno.
Ricordavo, allora, che due miliardi di cittadini dell’Asia iniziavano a mutare la propria dieta, oggi tutti sanno che tre miliardi di Indiani e Cinesi stanno mutando la propria dieta. Citavo gli analisti americani che computavano che la Cina avrebbe potuto, in pochi lustri, assorbire l’intera offerta dei mercati mondiali dei cereali. Non lo ha fatto, ma invito chi voglia verificare la fondatezza dell’ipotesi a esaminare le tabelle del Food Outlook, il notiziario periodico della Fao. Per fare corrispondere le importazioni alle esportazioni mondiali la tabella degli scambi internazionali attribuisce all’Asia acquisti corrispondenti a 143 milioni di tonnellate, metà del totale mondiale, ma se sommate, con la calcolatrice, i volumi importati dai paesi elencati ottenete 107 milioni. La differenza è di 37 milioni di tonnellate. Siccome nell’elenco sono assenti Singapore, il Kuwait e le Maldive si può immaginare che l’inclusione dei loro acquisti consentirebbe il pareggio della contabilità mondiale del grano. La differenza da coprire corrisponde, però, al consumo del Giappone, un’entità irraggiungibile sommando tutti gli emirati e le libere isole dell’Oceano Indiano. Verosimilmente i dati delle importazioni di qualche nazione di prima grandezza trascurano il carico di più di un cargo che da Galveston o da Montréal ha fatto rotta verso il Pacifico, il cui scarico non è stato registrato dalle statistiche internazionali. Futuri signori del Pianeta, i “grandi” paesi emergenti sono in grado di pretendere che le proprie importazioni di cereali, un indicatore essenziale della solidità economica, siano considerate affare “interno”. Anche se le navi arrivano da un porto americano
Ma dimostrato che se Cina ed India non hanno ancora ipotecato le disponibilità complessive dei mercati internazionali indizi eloquenti suggeriscono che non abbiano mancato di esercitare un peso determinante sull’impennata delle quotazioni del 2008, reputo di poter concludere questa breve chiosa ricercando una risposta alla domanda che mi pare le mie paginette ponessero, e pongano, in termini sufficientemente espliciti: se l’Italia ha divorato, in cinquant’anni, metà delle proprie pianure, come reagiscono al fenomeno gli uomini politici, coloro cui gli Italiani affidano il governo della Nazione oggi, l’apprestamento degli strumenti perchè la felice convivenza di oggi non maturi le condizioni di drammatici risvegli domani?
Cercherò di proporre alla domanda una risposta circostanziata, assumendo come emblematico il caso di una regione che proclama, da anni, in ogni programma elettorale, di seguire un “modello di svilppo” sostenibile, tale cioè da assicurare alle generazioni future condizioni di esistenza altrettanto felici di quelle di cui godono quelle viventi oggi, una regione in cui il fenomeno dell’espulsione dell’agricoltura si sviluppa con intensità particolare, ed è oggetto di minuziose misurazioni: l’Emilia Romagna. Cito alcuni dati:
Secondo il Rapporto sullo stato dell’ambiente pubblicato nel 2004 dall’Assessorato ambiente e sviluppo sostenibile, nel 1945 le superfici abitative, l’insieme, cioè, delle aree delimitate dalle mura che anticamente circondavano città e borghi minori, sommavano 6.048 ettari, si dilatavano di dieci volte nel corso del “miracolo economico”, toccando, nel 1976, 61.764 ettari, che salivano a 105.344 nel 1994. In cinque decenni la realizzazione di aree residenziali, industriali, di viali e parcheggi aveva moltiplicato le superfici “edificate” di circa venti volte. Era l’effetto combinato della crescita demografica e del prorompente sviluppo economico. A metà degli anni Novanta, come nel resto del Paese, in Emilia Romagna si arrestava la crescita demografica, si inceppava lo sviluppo economico, l’occupazione dei suoli agrari conosceva, invece, una prepotente accelerazione. Secondo il medesimo Rapporto i piani edilizi dei comuni emiliani prevedevano, per il decennio successivo, l’occupazione di altri 38.000 ettari. Siccome, peraltro, un terzo di quei piani rivelava un’età superiore a dieci anni, il lettore era indotto alla ragionevole illazione che la superficie edificata totale prevista dal Rapporto al termine di vigenza dei piani in corso di attuazione, equivalente a 143.000 ettari, avrebbe potuto essere persino superiore. Gli spazi classificati come insediamenti urbani non comprendevano le vie di comunicazione, comprese nella voce “altro”, e corrispondente ad un terzo delle superfici edificate.
Un calcolo quanto si voglia approssimativo consentiva di postulare, sulla base dei dati delle autorità che presiederebbero allo “sviluppo sostenibile”, che l’espansione del cemento avesse assunto, nella regione, i caratteri del processo esponenziale, con un tempo di raddoppio delle supefici conquistate dell’ordine di quarant’anni. L’evoluzione, governata secondo il criterio della “sostenibilità”, del territorio emiliano romagnolo avrebbe potuto cancellare, aritmeticamente, l’ultimo campo coltivato in meno di due secoli. A denunciare nel fenomeno un attentato alla sicurezza delle condizioni di vita, in primo luogo, per la competenza, quelle idrauliche e idrologiche, si levava, nel 2003, la voce dell’Associazione regionale delle bonifiche, il cui presidente, Emilio Bertolini, dichiarava, che all’agricoltura regionale erano stati sottratti, negli ultimi tredici anni, 157.000 ettari, in gran parte urbanizzati, in parte minore abbandonati, in collina e in montagna, una superficie equivalente a quella della provincia di Ravenna, sulla quale ogni scambio vitale tra acqua e terra era stato per sempre impedito.
Giovedì 11 maggio 2006 presentavo, nella sede bolgonese dell’Accademia nazionale di agricoltura, un volume che avevo realizzato per l’Associazione regionale delle bonifiche, sulla storia del confronto millenario dell’uomo, nella regione, con la palude. Avevo intitolato il libro Dove l’uomo separò la terra dalle acque. Storia delle bonifiche in Emilia Romagna. Oltre metà del territorio regionale, era, in tempi preistorici, dominio della palude o aquitrino stagionale. La pianura emiliana, una delle più fertili dell’intero Continente, costituiva, sottolineavo, il frutto del più duro confronto di centinaia di migliaia di uomini con gli elementi ostili. Presiedeva l’incontro l’assessore regionale all’agricoltura, Tiberio Rabboni, che con grande cortesia spiegava che il libro gli aveva dischiuso un volto della storia del territorio regionale che gli era in parte sconosciuto, e invitava il presidente dell’Associazione, che partecipava alla presentazione, a diffonderlo come strumento di conoscenza del divenire del territorio.
La presentazione aveva attratto un numero esiguo di responsabili degli organismi di bonifica, la discussione sul volume si risolveva nella breve conversazione tra l’autore, il committente dell’opera e l’Assessore regionale. Nel clima di cordiale franchezza mi pareva lecito chiedere all’Assessore se, riconosciuto che la pianura emiliana e romangola erano frutto di tremila anni di cruda lotta contro le acque di chi era nato tra paludi malariche dove il pane era insidiato dalla ricorrente rotta di argini sempre inadeguati alla furia degli elementi, non reputasse necessario, prima che le terre sottratte alle acque fossero sommerse dal dilagare del cemento, il varo di misure per arrestarne il proliferare. Tiberio Rabboni mi scrutava perplesso, quasi incredulo dell’assurdità della domanda. Per arrestare l’edificazione occorreva il consenso collettivo, mi spiegava con la chiarezza didattica che si usa verso chi non conosce le regole essenziali della vita civile. Proibire di costruire avrebbe costituito, dovevo desumerne, attentato ai principi elementari di una società democratica.
Cinque anni più tardi la rivista Agricoltura, di cui lo stesso Rabboni è, in quanto assessore, direttore, pubblicava un editoriale dal titolo Il consumo del suolo è una minaccia inarrestabile. Leggevo incredulo: tra il 2003 e il 2008 in Emilia Romagna venivano coperti dal cemento dieci ettari di campi ogni giorno, uno dei valori più alti in Italia. Riconoscendo che paesi diversi hanno affrontato il fenomeno proponendosi di contenerlo, il redattore, si deve presumere uno dei collaboratori più vicini all’Assessore, illustrava lo sviluppo dell’occupazione dei campi della Penisola come processo sospinto da meccanismi economici inarrestabili. Inarrestabile, l’aggettivo usato dal titolo, non equivale ad ineludibile: se non è equivalente, il significato è parzialmente corrispondente.
Che un organismo politico che vanta da decenni di attuare una politica dell’ambiente rigorosamente “sostenibile” definisse ineludibile che i campi conquistati da cinquecento generazioni potessero essere sepolti sotto il cemento da dieci generazioni mi appariva non solo incredibile, mi pareva violazione di ogni regola sulla veridicità che dovrebbe improntare qualunque messaggio del mondo politico ai cittadini . Conoscendo esponenti autorevoli della sezione regionale di Italia Nostra segnalavo la contraddizione a chi rappresenta uno dei pochi organismi che si preoccupano della sopravvivenza dell’ambiente naturale nel Paese. Chi mi ascoltava dichiarava di condividere lo stupore, mi chiedeva un appunto, scrivevo una paginetta sottolinenado l’enormità dell’apologia della propria inerzia da parte di chi chi dovrebbe, nel nome della “sostenibilità”, preoccuparsi di tutelare le potenzialià naturalistiche e produttive del territorio, denunciando in quell’inerzia un autentico delitto contro la sicurezza alimentare delle generazioni future di cittadini emiliani.
La nota di Italia Nostra veniva pubblicata esprimendo con chiarezza l’essenza dell’appunto che avevo proposto. Alla nota dell’associazione ambientalistica rispondeva l’editoriale dello stesso Assessore che, nel numero di gennaio del proprio periodico, smentiva categoricamente i propri collaboratori: mentre l’estensore del primo articolo, Ciro Gardi, citava dati di fonti diverse per sottolineare che “dati più accurati prodotti a livello regionale” imponevano di riconoscere tra il 2003 e il 2008 l’incontenibile prorompere del processo (10ha occupati ogni giorno) l’Assessore smentiva tassativamente i dati regionali (dichiarati dai collaboratori i più sicuri) proclamando che il Censimento, notoriamente fonte inoppugnabile, avrebbe consentito di considerare, dopo la fatidica soglia del 2000, il fenomeno praticamente inattivato. Il merito sarebbe stato attribuibile alla determinata azione regionale (?). L’impegno assessorale per la “sostenibilità” avrebbe prodotto il prodigio: il cemento non si dilaterebbe più sulle campagne emiliane e romangole. Senza offendere la democraticità delle scelte territoriali, senza imporre vincoli nè divieti, l’economia regionale saebbe stata indotta a convertirsi nella prima economia “sostenibile” del Pianeta. Mi chiedo se, percorrendo le strade che intersecano le campagne romagnole, per non doversi porre dubbi sui dati del Censimento il signor Rabboni chiuda le tendine dell’auto ufficiale.
Io, che percorrendo la provincia di Modena osservo con attenzione campi e case, continuo a vedere, a conferma dei dati regionali di cui assicura l’attendibilità il dottor Gardi, nuove ruspe e gru dove la settimana precedente era un campo di grano, verificando, ad esempio, che con una sola operazione edilizia Marano sul Panaro, l’ultimo ed il più minuscolo dei paesetti della pianura modenese, ha pressochè raddoppiato la consistenza del proprio centro. Il territorio di Marano è contiguo a quello di Vignola, che possedeva i terreni deposti dal Panaro al limite della pianura alla quale giunge con l’impeto acquisito nel percorso montano. Erano i terreni che producevano le più famose ciliege della Penisola. Sono, praticamente, scomparsi sotto il cemento. Siccome Vignola ha occupato tutto lo spazio possibile, il piccolo comune limitrofo ne ha approfittato, furbescamene, per assurgere, ricoprendo di cemento quanto restava dell’antico paradiso delle ciliege, a piccola metropoli. A Marano le ruspe sono ancora al lavoro. Mi chiedo quando mai i dati, che i tecnici regionali, contro gli auspici del superiore, conoscono certamente, perverranno al rugginoso meccanismo della statistica nazionale cara a Tiberio Rabboni.
Se le annotazioni che ho proposto sono scaturite dalla riflessione su una domanda, nel dubbio che la risposta non appaia sufficientemente chiara mi pare coerente riproporre la domanda in una formulazione diversa. Dobbiamo reputare amministratore degno della stima (e del voto) di una società democratica l’uomo politico che, di fronte al problema storico che minacci il futuro della convivenza, lo dissimuli, propagando chimere su immaginarie politiche di “sostenibilità”, o chi, di fronte alla gravità di un problema, suoni le campane a martello, obblighi la società ad accorrere dove la casa brucia, pronto, se il consenso collettivo pretenda che la casa continui a bruciare, a declinare ogni responsabilità ritirandosi con dignità? Il costume italico impedisce, sappiamo, a ministri, sindaci e assessori, di correre il rischio, denunciando problemi fastidiosi, di dovere lasciare la poltrona. Amici e avversari considererebbero chi ha suonato le campane a martello, e, di fronte all’irrisione collettiva, si è congedato, un fesso. La regola aurea della via politica nazionale proclama, sappiamo, che Ccà nissunéffesso.
A. S.