Prose della volgar lingua/Libro terzo/LXXII

Terzo libro – capitolo LXXII

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Ma, tornando alla particella Non, aviene ancora che ella si dice bene spesso soverchiamente; e pure è toscanamente cosí detta: il medesimo Boccaccio: La qual sapea, che da altrui, che dallei, rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, dovendosi per lo diritto piú tosto dire: che moglie di Nastagio stata fosse; e altrove: Io temo forte che Lidia con consiglio e volere di lui questo non faccia, in vece di dire: questo faccia. La qual particella eziandio si dice No, quando con lei si fornisce e chiude il sentimento, Io no Questi no, ché, altramente dicendosi, si direbbe Non io Non questi; o quando ella si pon dopo ’l verbo:

Ma romper no l’imagine aspra e cruda;

o ancora quando si pon due volte: Non farnetico no, Madonna, e Non son mio no, e A’ quali dir di no non si puote, e simili; o quando ella si pon col Sí:

Ch’or sí or no s’intendon le parole.

Dicesi ancora No ogni volta, che dopo lei si pon l’articolo Il, e nelle prose e nel verso. Nel qual verso è alcun’altra volta, che ella cosí si dice quando la segue alcuna vocale, per lo medesimo divertimento della N ultima, che vi si fa:

                                      Né chi lo scorga
v’è se no amor, che mai no ’l lascia un passo.

È oltre a questo, che la Non si pone in una maniera che vi s’intendono piú parole a fornire il sentimento; sí come si vede appo ’l Boccaccio: Non ne dovessi io di certo morire, che io non me ne metta a far ciò, che promesso l’ho, e come altri parla, ragionando tuttavia, massimamente tra sé stesso; Perciò che tanto è a dire in quel modo, come se si dicesse: Non rimarrà, se io ne dovessi di certo morire, che io non mi metta a far ciò, che promesso l’ho. Né poi, che ancor niega, e quasi sempre si pone in compagnia di sé stessa o d’altra voce che pur nieghi, è alle volte che, posta da’ prosatori in un luogo, ha forza di negare ancora in altro luogo dinanzi, dove ella non è posta; cosí: E comandolle che piú parole né romor facesse, e ancora, Acciò che egli senza erede, né essi senza signore rimanessero. Et è alcune altre volte, che da’ poeti si pone in vece di questa particella Overo, che si dice parimente O, come s’è detto:

Onde quant’io di lei parlai né scrissi;

e ancora,

Se gli occhi suoi ti fur dolci né cari.

È tuttavia, che questa particella s’è posta da’ medesimi poeti, senza niun sentimento avere in sé, ma solo per aggiunta e quasi finimento ad altra voce, forse affine di dar modo piú agevole alla rima; sí come si vede in Dante, non solo nel suo poema, nel quale egli licenziosissimo fu, ma ancora nelle canzoni, che hanno cosí:

La nemica figura, che rimane
vittoriosa e fera,
e signoreggia la virtú che vole,
vaga di sé medesma andar mi fane
colà dov’ella è vera;

e come si vede in quelle di messer Cino, che cosí hanno:

E dice, lassa, che sarà di mene?

Il che si vede medesimamente nelle ottave rime del Boccaccio, posto e detto dallui piú volte.