Prose della volgar lingua/Libro secondo/XVII
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Ora, venendo al tempo che le lettere danno alle voci, è da sapere che tanto maggiore gravità rendono le sillabe, quanto elle piú lungo tempo hanno in sé per questo conto; il che aviene qualora piú vocali o piú consonanti entrano in ciascuna sillaba; tutto che la moltitudine delle vocali meno spaziosa sia che quella delle consonanti, e oltre acciò poco ricevuta dalle prose. Del verso è ella propria e domestichissima, e stavvi ora per via di mescolamento, ora di divertimento; sí come nelle due prime sillabe si vede stare di questo verso, detto da noi altre volte:
Voi ch’ascoltate;
e quando per l’un modo e per l’altro; il che nella sesta di quest’altro ha luogo:
Di quei Sospiri, ond’io nutriva il core;
là dove la moltitudine delle consonanti et è spaziosissima, et entra, oltre acciò, non meno nelle prose che nel verso. Perché volendo il Boccaccio render grave, quanto si potea il piú, quel principio delle sue novelle, che io testé vi recitai, poscia che egli per alquante voci ebbe la gravità con gli accenti e con la maniera delle vocali solamente cercata: Umana cosa è l’avere; sí la cercò egli per alquante altre eziandio, con le consonanti riempiendo e rinforzando le sillabe: Compassione agli afflitti. Il che fece medesimamente il Petrarca, pure nel medesimo principio delle canzoni, Voi ch’ascoltate, non solamente con altre vocali, ma ancora con quantità di vocali e di consonanti, acquistando alle voci gravità e grandezza. E questo medesimo acquisto tanto piú adopera, quanto le consonanti, che empiono le sillabe, sono e in numero piú spesse e in spirito piú piene; perciò che piú grave suono ha in sé questa voce Destro, che quest’altra Vetro, e piú magnifico lo rende il dire Campo, che o Caldo o Casso dicendosi, non si renderà. E cosí delle altre parti si potrà dire della gravità, per le altre posse tutte delle consonanti discorrendo e avertendo. Dissi in che modo il numero divien grave per cagione del tempo che le lettere danno alle sillabe; e prima detto avea in qual modo egli grave diveniva; per cagione di quel tempo che gli accenti danno alle voci. Ora dico che somma e ultima gravità è, quando ciascuna sillaba ha in sé l’una e l’altra di queste parti; il che si vede essere per alquante sillabe in molti luoghi, ma troppo piú in questo verso, che in alcuno altro che io leggessi giamai:
Fior’, frond’, erb’, ombr’, antr’, ond’, aure soavi.
E per dire ancora di questo medesimo acquisto di gravità piú innanzi, dico che come che egli molto adoperi e nelle prose e nelle altre parti del verso, pure egli molto piú adopera e può nelle rime; le quali maravigliosa gravità accrescono al poema, quando hanno la prima sillaba di piú consonanti ripiena, come hanno in questi versi:
Mentre che ’l cor dagli amorosi vermi
fu consumato, e ’n fiamma amorosa arse,
di vaga fera le vestigia sparse
cercai per poggi solitari et ermi,
et ebbi ardir, cantando, di dolermi
d’amor, di lei, che sí dura m’apparse;
ma l’ingegno e le rime erano scarse
in quella etate a pensier novi e ’nfermi.
Quel foco è spento, e ’l copre un picciol marmo.
Che se col tempo fosse ito avanzando,
come già in altri, infino a la vecchiezza,
di rime armato, ond’oggi mi disarmo,
con stil canuto avrei fatto, parlando,
romper le pietre, e pianger di dolcezza.
Non possono cosí le vocali; quantunque ancora di loro dire si può, che elle non istanno perciò del tutto senza opera nelle rime: con ciò sia cosa che alquanto piú in ogni modo piena si sente essere questa voce Suoi nella rima, che quest’altra Poi, e Miei, che Lei, e cosí dell’altre. Resterebbemi ora, messer Ercole, detto che s’è dell’una parte abastanza, dirvi medesimamente dell’altra, e mostrarvi, che sí come la spessezza delle lettere accresce alle voci gravità, cosí la rarità porge loro piacevolezza; se io non istimassi, che voi dalle dette cose, senza altro ragionarne sopra, il comprendeste abastanza; scemando con quelle medesime regole a questo fine, con le quali si giugne e cresce a quell’altro; il che chiude e compie tutta la forza e valore del numero.