Potrebbesi a queste tre parti, messer Ercole, che io trascorse v’ho, piú tosto che raccontate, al suono, al numero, alla variazione, generanti le due, dico la gravità e la piacevolezza, che empiono il bene scrivere, aggiugnerne ancora dell’altre acconcie a questo medesimo fine, sí come sono il decoro e la persuasione. Con ciò sia cosa che da servare è il decoro degli stili, o convenevolezza che piú ci piaccia di nomare questa virtú, mentre d’essere o gravi o piacevoli cerchiamo nelle scritture, o per aventura l’uno e l’altro; quando si vede che agevolmente procacciando la gravità, passare si può piú oltra entrando nell’austerità dello stile; il che nasce, ingannandoci la vicinità e la somiglianza che avere sogliono i principj del vizio con gli stremi della virtú, pigliando quelle voci per oneste che sono rozze, e per grandi le ignave, e ripiene di dignità le severe, e per magnifiche le pompose. E, d’altra parte, cercando la piacevolezza, puossi trascorrere e scendere al dissoluto; credendo quelle voci graziose essere, che ridicule sono, e le imbellettate vaghe, e le insiepide dolci, e le stridevoli soavi. Le quali pecche tutte, e le altre che aggiugnere a queste si può, fuggire si debbono, e tanto piú ancora diligentemente, quanto piú elleno sotto spezie di virtú ci si parano dinanzi, e, di giovarci promettendo, ci nuocono maggiormente, assalendoci sproveduti. Né è la persuasione, meno che questo decoro, da disiderare e da procacciare agli scrittori, senza la quale possono bene aver luogo e la gravità e la piacevolezza; con ciò sia cosa che molte scritture si veggono, che non mancano di queste parti, le quali non hanno poscia quella forza e quella virtú che persuade; ma elle sono poco meno che vane, e indarno s’adoperano, se ancora questa rapitrice degli animi di chi ascolta esse non hanno dal lor canto. La quale a dissegnarvi e a dimostrarvi bene e compiutamente, quale e chente ella è, bisognerebbe tutte quelle cose raccogliere che dell’arte dell’orare si scrivono, che sono, come sapete, moltissime, perciò che tutta quella arte altro non c’insegna, e ad altro fine non s’adopera, che a persuadere. Ma io non dico ora persuasione in generale e in universo; ma dico quella occulta virtú, che, in ogni voce dimorando, commuove altrui ad assentire a ciò che egli legge, procacciata piú tosto dal giudicio dello scrittore che dall’artificio de’ maestri. Con ciò sia cosa che non sempre ha, colui che scrive, la regola dell’arte insieme con la penna in mano. Né fa mestiero altresí in ciascuna voce fermarsi, a considerare se la riceve l’arte o non riceve, e specialmente nelle prose, il campo delle quali molto piú largo e spazioso e libero è, che quello del verso. Oltra che se ne ritarderebbe e intiepidirebbe il calore del componente, il quale spesse volte non pate dimora. Ma bene può sempre, e ad ogni minuta parte, lo scrittore adoperare il giudicio, e sentire, tuttavia scrivendo e componendo, se quella voce o quell’altra, e quello o quell’altro membro della scrittura, vale a persuadere ciò che egli scrive. Questa forza e questa virtú particolare di persuadere, dico, messer Ercole, che è grandemente richiesta e alle gravi e alle piacevoli scritture; né può alcuna veramente grave, o veramente piacevole essere, senza essa. Perché, recando le molte parole in una, quando si farà per noi a dar giudicio di due scrittori, quale di loro piú vaglia e quale meno, considerando a parte a parte il suono, il numero, la variazione, il decoro, e ultimamente la persuasione di ciascun di loro, e quanta piacevolezza e quanta gravità abbiano generata e sparsa per gli loro componimenti, e con le parti, che ci raccolse messer Carlo, dello sciegliere e del disporre, prima da noi medesimamente considerate, ponendole, potremo sicuramente conoscere e trarne la differenza. E perciò che tutte queste parti sono piú abondevoli nel Boccaccio e nel Petrarca, che in alcuno degli altri scrittori di questa lingua, aggiuntovi ancora quello che messer Carlo primieramente ci disse, che valeva a trarne il giudicio, che essi sono i piú lodati e di maggior grido, conchiudere vi può messer Carlo da capo, che niuno altro cosí buono o prosatore o rimatore è, messer Ercole, come sono essi. Che quantunque del Boccaccio si possa dire, che egli nel vero alcuna volta molto prudente scrittore stato non sia; con ciò sia cosa che egli mancasse talora di giudicio nello scrivere, non pure delle altre opere, ma nel Decamerone ancora, nondimeno quelle parti del detto libro, le quali egli poco giudiciosamente prese a scrivere, quelle medesime egli pure con buono e con leggiadro stile scrisse tutte; il che è quello che noi cerchiamo. Dico adunque di costor due un’altra volta, che essi buonissimi scrittori sono sopra tutti gli altri, e insieme che la maniera dello scrivere de’ presenti toscani uomini cosí buona non è come è quella nella quale scrisser questi; e cosí si vederà essere infino attanto che venga scrittore, che piú di loro abbia ne’ suoi componimenti seminate e sparse le ragionate cose -.