Prose della volgar lingua/Libro secondo/XIII
Questo testo è completo. |
◄ | Libro secondo - XII | Libro secondo - XIV | ► |
Dico medesimamente, dall’altra parte, che la vicinità delle rime rende piacevolezza tanto maggiore, quanto piú vicine sono tra sé esse rime. Onde aviene che le canzoni, che molti versi rotti hanno, ora piú vago e grazioso, ora piú dolce e piú soave suono rendono, che quelle che n’hanno pochi; perciò che le rime piú vicine possono ne’ versi rotti essere che negl’interi. Sono di molti versi rotti alquante canzoni del Petrarca, tra le quali due ne sono di piú chell’altre. Ponete ora mente quanta vaghezza, quanta dolcezza, e, in somma, quanta piacevolezza è in questa:
Chiare, fresche e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei, che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di far al bel fianco colonna;
erba, e fior, che la gonna
leggiadra ricoverse
con l’angelico seno;
aer sacro sereno,
ov’Amor co’ begli occhi il cor m’aperse;
date udienzia inseme
a le dolenti mie parole extreme.
D’un verso rotto piú in quello medesimo e numero e ordine di versi è la sorella di questa canzone, nata con lei ad un corpo. Veggiamo ora, se maggior dolcezza porge il verso rotto dell’una, che dell’altra lo intero:
Se ’l pensier che mi strugge,
com’è pungente e saldo,
cosí vestisse d’un color conforme,
forse tal m’arde e fugge,
ch’avria parte del caldo,
e desteriasi Amor là dove or dorme;
men solitarie l’orme
fôran de’ miei piè lassi
per campagne e per colli,
men gli occhi ad ognior molli,
ardendo lei, che come un ghiaccio stassi,
e non lascia in me dramma,
che non sia foco e fiamma.
È dolce suono, sí come voi vedete, messer Ercole, quello di questa rima posta in due vicini versi, l’uno rotto e l’altro intero:
Date udienzia inseme
a le dolenti mie parole extreme.
Ma piú dolce in ogni modo è il suono di quest’altra, della quale amendue i versi son rotti:
E non lascia in me dramma,
che non sia foco e fiamma.
Il che aviene per questo, che ogni indugio e ogni dimora nelle cose è naturalmente di gravità indizio; la qual dimora, perciò che è maggiore nel verso intero, che nel rotto, alquanto piú grave rendendolo, men piacevole il lascia essere di quell’altro. E questo ultimo termine è della piacevolezza, che dal suono delle rime può venire; se non in quanto piú che due versi porre vicini si possono d’una medesima rima. Ma di poco tuttavia e rade volte passare si può questo segno, che la piacevolezza non avilisca. Dissi ultimo termine; perciò che non che piú dolcezza porgano i versi, che le rime hanno piú vicine, sí come sono quelli che le hanno nel mezzo di loro; ma essi sono oltre acciò duri e asperi, sí perché, ponendosi lo scrittore sotto cosí ristretta regola di rime, non può fare o la scielta o la disposizione delle voci a suo modo, ma conviengli bene spesso servire al bisogno e alla necessità della rima, e sí ancora perciò che quello cosí spesso ripigliamento di rime genera strepito piú tosto che suono; sí come dalla canzone di Guido Cavalcanti si può comprendere, che incomincia cosí:
Donna mi prega, perch’io voglio dire
d’un accidente, che sovente è fero,
et è sí altero, che si chiama Amore.
Il qual modo e maniera di rime prese Guido e presero gli altri Toschi da’ Provenzali, come ieri si disse, che l’usarono assai sovente. Fuggilla del tutto il Petrarca; dico, in quanto egli non pose giamai due vicine rime nel mezzo d’alcun suo verso. Posene alle volte una; e questa una, quanto egli la pose piú di rado nelle sue canzoni, tanto egli a quelle canzoni giunse piú di grazia; e meno ne diede a quell’altre, nelle quali ella si vede essere piú sovente; sí come si vede in quell’altra:
Mai non vo’ piú cantar, com’io solea.
La qual canzone chi chiamasse per questa cagione alquanto dura, forse non errerebbe soverchio. Ma egli tale la fe’, acciò traendonelo la qualità della canzone, la quale egli proposto s’avea di tessere tutta di proverbi, sí come s’usò di fare a quel tempo; i quali proverbi, postivi in moltitudine e cosí a mischio, non possono non generare alcuna durezza e asprezza. Ma, tornando alle due canzoni, che io dissi, del Petrarca, sí come elle sono per gli detti rispetti piacevolissime, cosí per gli loro contrari è quell’altra del medesimo poeta gravissima. La quale, quando io il leggo, mi suole parere fuori dell’altre, quasi donna tra molte fanciulle, o pure come reina tra molte donne, non solo d’onestà e di dignità abondevole, ma ancora di grandezza e di magnificenza e di maestà; la qual canzone tutti i suoi versi, da uno per istanza in fuori, ha interi, e le stanze sono lunghe piú che d’alcuna altra:
Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et ancor quasi in erba
la fera voglia, che per mio mal crebbe.
E senza fallo alcuno, chiunque di questa canzone con quelle due comperazione farà, egli scorgerà agevolmente quanto possano a dar piacevolezza le rime de’ versi rotti, e quelle degl’interi ad accrescere gravità. E detto fin qui vi sia del suono.