Prose della volgar lingua/Libro secondo/XII

Secondo libro – capitolo XII

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Di queste tre guise adunque di rime, e di tutte quelle rime che in queste guise sono comprese, che possono senza fallo esser molte, piú grave suono rendono quelle rime che sono tra sé piú lontane; piú piacevole quell’altre che piú vicine sono. Lontane chiamo quelle rime che di lungo spazio si rispondono, altre rime tra esse e altri versi traposti avendo; vicine, allo ’ncontro, quell’altre che pochi versi d’altre rime hanno tra esse; piú vicine ancora, quando esse non ve n’hanno niuno, ma finiscono in una medesima rima due versi; vicinissime poscia quell’altre, che in due versi rotti finiscono; e tanto piú vicine ancora e quelle e queste, quanto esse in piú versi interi e in piú rotti finiscono, senza tramissione d’altra rima. Quantunque, non contenti de’ versi rotti, gli antichi uomini eziandio ne’ mezzi versi le trametteano, e alle volte piú d’una ne traponevano in un verso. Ritorno a dirvi che piú grave suono rendono le rime piú lontane. Perché gravissimo suono da questa parte è quello delle sestine, in quanto maravigliosa gravità porge il dimorare a sentirsi che alle rime si risponda primieramente per li sei versi primieri, poi quando per alcun meno e quando per alcun piú, ordinatissimamente la legge e la natura della canzone variandonegli. Senza che il fornire le rime sempre con quelle medesime voci genera dignità e grandezza; quasi pensiamo, sdegnando la mendicazione delle rime in altre voci, con quelle voci, che una volta prese si sono per noi, alteramente perseverando lo incominciato lavoro menare a fine. Le quali parti di gravità, perché fossero con alcuna piacevolezza mescolate, ordinò colui che primieramente a questa maniera di versi diede forma, che dove le stanze si toccano nella fine dell’una e incominciamento dell’altra, la rima fosse vicina in due versi. Ma questa medesima piacevolezza tuttavia è grave; in quanto il riposo che alla fine di ciascuna stanza è richiesto, prima che all’altra si passi, framette tra la continuata rima alquanto spazio, e men vicina ne la fa essere, che se ella in una stanza medesima si continuasse. Rendono adunque, come io dissi, le piú lontane rime il suono e l’armonia piú grave, posto nondimeno tuttavolta che convenevole tempo alla ripetizione delle rime si dia. Che se voleste voi, messer Ercole, per questo conto comporre una canzone, che avesse le sue rime di moltissimi versi lontane, voi sciogliereste di lei ogni armonia da questo canto, non che voi la rendeste migliore. A servare ora questa convenevolezza di tempo, l’orecchio piú tosto, di ciascun che scrive, è bisogno che sia giudice, che io assegnare alcuna ferma regola vi ci possa. Nondimeno egli si può dire che non sia bene generalmente framettere piú che tre, o quattro, o ancora cinque versi tra le rime; ma questi tuttavia rade volte. Il che si vede che osservò il Petrarca; il qual poeta, se in quella canzone, che incomincia Verdi panni, trapassò questo ordine, dove ciascuna rima è dalla sua compagna rima per sette versi lontana, sí l’osservò egli maravigliosamente in tutte le altre; e questa medesima è da credere che egli componesse cosí, piú per lasciarne una fatta alla guisa, come io vi dissi, molto usata da’ provenzali rimatori, che per altro. Né dirò io che egli non l’osservasse in tutte le altre, perciò che nella canzone Qual piú diversa e nova si vegga una sola rima piú lontana, che per quattro o ancora per cinque versi. Anzi dirò io, che e in tutta Verdi panni essere uscito di questo ordine, e di questa in una sola rima, giugne grazia a questo medesimo ordine, diligentissimamente dallui osservato in tutte le altre canzoni sue; trattone tuttavolta le ballate, dette cosí perché si cantavano a ballo, nelle quali, perciò che l’ultima delle due rime de’ primi versi, che da tutta la corona si cantavano, i quali due o tre o il piú quattro essere soleano, si ripeteva nell’ultimo di quelli che si cantavano da un solo, affine che si cadesse nel medesimo suono, avere non si dee quel risguardo, che io dico; e trattone le sestine, le quali stare non debbono sotto questa legge, con ciò sia cosa che perciò che le rime in loro sempre si rispondono con quelle medesime voci, se elle piú vicine fossero, senza fallo genererebbono fastidio, quanto ora fanno dignità e grandezza.