Profili, impressioni e ricordi/Profili/Un nome che risorge
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UN
NOME CHE RISORGE.
Il materialismo, dall’ultima quarto del secolo scorso fino allo scoppio dell’immane tragedia che insanguina il mondo, sembrava avere travolto nelle sue branche di piovra arte, letteratura, costumi. Nella corsa vertiginosa al denaro che dà il piacere immediato agonizzavano i nobili sentimenti di amor patrio, le sante tradizioni della nostra storia, e anche i nomi di coloro che la patria e la storia dovrebbero incidere nelle loro pagine più gloriose giacevano dimenticati in ingiusto oblio.
Fra essi lontana più di tutti nelle nuvole di quel tempo detto, non senza una punta di sarcasmo, romantico, Giuseppe Mazzini. Se accadeva di pronunciare il suo nome, subito lo si faceva seguire dalla qualifica di visionario e pur ammettendone le buone intenzioni gli veniva negata la praticità dell’ingegno, il concetto esatto della realtà. Una generazione cresciuta nell’idolatria del proprio benessere non poteva seguire i voli di una mente che, oltrepassando le meschine verità dell’ora, fissava con lucidità profetica quello che doveva essere l’avvenire d’Italia. Occorse che un branco di barbari si levasse in armi contro le nazioni civili perchè dai rivi di sangue e dai mucchi di cadaveri l’ideale del grande italiano prendesse consistenza di fatto e i traviati del materialismo si avvedessero finalmente che la sola via di salvezza era quella indicata nella preghiera di Mazzini: «Signore, salvaci, oh! Salvaci dalla morte dell’anima!»
Ora il nome di Mazzini appare in tutti gli scritti che si occupano del nostro risveglio patriottico; un’onda di idealismo ha sollevato i cuori dei nostri giovani, essi riconoscono l’opera fecondatrice del profeta ed apostolo il quale predicò non solo col verbo, ma fu nella vita uno degli esemplari più alti e più puri della razza umana. E’ una gloria imperitura per Genova l’aver dato i natali ai due uomini che più poeticamente e idealmente rappresentarono le aspirazioni dell’Italia: l’Aedo impersonato nella bionda giovinezza di Goffredo Mameli; il Veggente, Mazzini, dalla figura austera, dall’occhio profondo, scrutatore. Giorgio Sand venendo in Italia non oserebbe più definire Genova con questo giudizio sommario: Rien qu’a se mettre à la fenêtre on se sent devenir pain de sucre, caisse de savon ou paquet de chandelles.
Gli uomini del tempo di Mazzini nutriti di una fede ardente, volte le forze del pensiero alle misere condizioni della patria, vivevano di timori e di speranze che affinavano il loro modo di sentire tenendoli in una atmosfera di sentimenti elevati teneri ed eroici. Erano gli anni delle congiure e dei grandi amori. Quei giovani pronti a dare la vita per il trionfo dell’idea, i pensatori, i soldati, i martiri della forca e del boia erano pur anche squisiti e fedeli amanti. Quale donna non invidia colei che Pisacane amò per diciassette anni fra i contrasti e le tristezze? O l’idillio commovente del Duca di Castromediana che le carceri borboniche strapparono dalle braccia della fidanzata e che ella raggiunse, già vecchia, per mescolare un’ultima volta insieme le loro chiome bianche?
La donna non era allora come nella letteratura moderna la creatura malefica, la distruggitrice. Prati la chiamava l’angelo che ha «lagrime negli occhi e rose in fra le dita»; Mazzini, grande estimatore della donna, arse per lei di un culto simile a quello della patria. Credente nell’immortailità dell’anima credeva nell’immortalità dell’amore, Egli chiama l’affetto condiviso «una cosa di Dio». La storia contemporanea deve perciò, rievocando il morto di Staglieno, non disgiungerlo dalla donna che egli amò più di ogni altra, anzi la sola che tenne posto nella sua vita, indivisa dal suo stesso ideale. Scrittore focoso e trascinante, dotato di un fascino personale che la luce della vita interiore rendeva più intenso, molti cuori femminili si accesero per il pallido asceta; le ammiratrici, le amiche, le discepole gli facevano ressa intorno e se egli non fu insensibile a tutte una sola amò di vero, alto, tenerissimo amore: Giuditta Sidoli. Nessuna romanzesca avventura presiedette a questa unione, neanche il pimento dell’adulterio, chè, liberi entrambi, il solo olocausto che il cospiratore aveva fatto di se stesso alla patria e la possibilità di morire da un giorno all’altro per essa fu la ragione che gli impedì di contrarre un vincolo di famiglia colle responsabilità e i doveri da quella derivanti. Ma aveva il Mazzini incontrato nella Sidoli un cuore all’altezza del suo e la loro intesa fu mirabile di costanza, di dignità, di fusione perfetta. Noi non siamo obbligati qui a chiudere gli occhi sulle stravaganze e peggio di certe coppie amorose scusando tutto in nome della passione. Fa tanto bene all’animo riconoscere che la passione non è necessariamente corrompitrice e che i suoi gesti possono comporsi in armonia di virtù quando le anime sono pure.
Giuditta nacque in Milano da Cesare Bellerio e da una nobile Sopranzi nel 1804 un anno prima che nascesse Mazzini: fu posta in educazione nel collegio di S. Filippo e secondo l’andazzo del tempo aveva appena sedici anni quando, nel collegio stesso, le presentarono lo sposo scelto dai suoi genitori. Per sua fortuna non era un vecchio reduce da tutte le battaglie di Citera, come avveniva spesso, ed anche di questo dobbiamo rallegrarci, che la bella figura di lei non esce contaminata dal sozzo mercato tra la gioventù e la vecchiaia. Giovanni Sidoli era un ardito, avvenente e facoltoso giovane di Reggio Emilia, patriota anch’esso e cospiratore e fu presso a lui certamente che Giuditta sviluppò il sentimento della patria oppressa. Breve per altro fu la luna di miele. Sidoli inscritto nella lista dei Carbonari e perseguitato dalla polizia dovette prendere la via dell’esilio; Giuditta lo raggiunse lasciando alla custodia dei suoceri una bambina appena nata; Sidoli intanto veniva condannalo a morte in contumacia. Alcuni anni rimasero gli sposi a S. Gallo di Svizzera, ma in seguito a una grave malattia di lui si trasportarono a Montpellier dove, malgrado le cure assidue della moglie, Sidoli dovette soccombere.
Giuditta vedova a ventiquattro anni con tre altri bambini nati in terra d’esilio ritorna a Reggio; vi torna col cuore gonfio di tutte le amarezze dei proscritti, portando un lutto nel quale si accresce l’odio per il tiranno e l’aspirazione a liberarsi dal giogo straniero. Nella casa del suocero, reazionario sanfedista attaccato al vecchio regime, ella freme non nascondendo i sentimenti liberali che le facevano quasi un obbligo di continuare l’opera del marito; infatti compromessa per le sue relazioni coi capi del partito liberale già amici di suo marito venne bandita dal Ducato. Eccola a riprendere la fuga all’estero, colla dolorosa necessità di lasciare i suoi piccoli ai nonni, triste per il passato, incerta dell’avvenire. Sostò dapprima in Svizzera, poi accompagnata da un parente seguì il consiglio da portarsi a Marsiglia, ricetto di una numerosa colonia di profughi italiani. A Marsiglia il destino che riunisce qualche rara volta le anime gemelle sparse per il mondo le fece incontrare Giuseppe Mazzini.
Di ciò che fu questo legame fra due esseri di eccezione dànno fede le lettere dello stesso Mazzini. Al Melegari scrive: «Se amo la Sidoli? Io, anima perduta, quando amo è per sempre; nella mia morale la costanza sta in cima, complemento necessario di tutti gli affetti». E sempre e con tutti dichiara altamente non solo lamore, ma la stima e la venerazione per le virtù superiori della sua amica. La presenta a Gino Capponi ed egli a sua volta subisce il fascino di quella nobile personalità femminile; dice poi il Capponi al marchese Potenziani presentandogliela a sua volta: «Ben difficilmente potreste trovare persona che la valga per ogni dote della mente e dell’anima, degna d’ogni interesse e d’ogni stima».
Ma più ancora pone sulla fronte della Sidoli una mistica ghirlanda di fidanzata ideale l’affetto che ebbe per lei la veneranda madre di Mazzini. È un caso raro, forse unico, nella psicologia femminile che, per chi sa quale virtuosa donna ella fosse, circonda subito la Sidoli del più alto rispetto. I rigori della polizia intercettavano la corrispondenza di Mazzini coll’amica, allora Mazzini ne chiedeva ansiosamente alla madre e questa gli ricopiava le lettere ricevute. Calmato ma non pago egli risponde:
«... ditele, sia presto sia tardi, ch’io l’amo; l’amo più assai ch’ella non creda e ch’io possa dirle e sono certo d’amarla fino all’ultimo giorno dacché, non solo non ho diminuito il mio affetto, ma l’ho ritemprato e infiammato quando pure cessai di sperare per la mia vita individuale; gli uomini, generalmente, non durano in un affetto quando non ne sperano più gioie; se durano amano davvero! Diteglielo».
Lettere di vero amore, ardenti e delicate, quelle di Mazzini a Giuditta: «Io ti benedico non una, ma mille volte; o angelo di consolazione, tu sei la mia vita; il resto non è che dolore e tristezza», così scrive il baldo giovane alla donna che ha sì biondi capelli e bruni occhi incantatori; mia quando, vecchi entrambi, ella agonizza lontana, le scrive ancora non aver mai cessato un momento di pensare a lei.
L’amor di patria che tanto aveva contribuito a unire indissolubilmente queste due nobili creature fu pure la cagione d’ogni loro amarezza per le continue persecuzioni e i bandi in una esistenza agitata, piena di sorprese e di pericoli. La Sidoli soffriva anche per la lontananza dei figli e tale sofferenza, accettata nei primi tempi come momentanea, aumentando vieppiù i figli crescevano in età, ella si adoperava affinchè le fosse concesso di tornare in patria. Questa decisione la obbligava a separarsi da Mazzini sempre proscritto, ma per quanto egli ne soffrisse e di ciò tenesse parola colla madre e cogli amici il sentimento che faceva agire la sua amica era troppo legittimo e coscienzioso perchè egli, Fautore dei Doveri, potesse nemmeno pensare a contrastarlo. Non fu il più lieve dei sacrifici che quei due nobili cuori compirono insieme. Il decreto però che doveva far rimpatriare la Sidoli non veniva ed ella per portarsi almeno vicina alla sua prole tentò di soggiornare a Parma dove, tollerala dal Governo indolente di Maria Luisa, rimase alcuni anni ottenendo tratto tratto il permesso di una corsa a Reggio per abbracciare i figli, ma scortata dai gendarmi e vigilata come un malfattore finchè, assolta in collegio l’educazione delle figliuole, potè finalmente, secondata dal desiderio stesso delle fanciulle, averle presso a sè.
Non era tuttavia la pace. Morta Maria Luisa nel 1847 le succedette quel tiranno di triste memoria che fu Carlo III e le condizioni pubbliche peggiorarono. L’amicizia della Sidoli con Mazzini la rendeva oltremodo sospetta, si violava il segreto della sua corrispondenza, i suoi passi erano spiati e riferiti all’autorità suprema; fu sottoposta a perquisizioni e per quanto ella avesse saputo sottrarre destramente le carte più compromettenti, venne arrestata e chiusa nella prigione di S. Francesco in Parma.
Non per questo la forte donna si lascia abbattere, ma solo preoccupata delle figlie che aveva dovuto abbandonare, è lei che infonde a quelle magnanimità e coraggio mostrandosi perfettamente tranquilla, ripetendo loro le più tenere frasi d’affetto materno, consigliandole a vivere nei giorni di prova come se fossero sempre insieme. Dice àncora: «Vi confesso che Tessermi sentita chiudere l’uscio dietro non mi diede quel senso molesto che potete pensare. Mi riesce invece insopportabile il vedermi aprire la porta a voglia altrui». Delicatezza di donna e di signora che le mie lettrici comprenderanno bene.
Liberata dal carcere è bandita anche da Parma; ripara in Svizzera per la terza volta, ma portando con sè le figlie tanto amate.
Durante questi anni Mazzini scriveva alla madre: «Vorrei vi giungessero nuove della mia Giuditta. Ci penso spesso e ne sogno» ed all’amico Elia Benso: «Non ho più riveduto Giuditta; abbiamo dovuto rompere ogni corrispondenza perchè le era apposta a delitto». E ancora alla madre: «La lettera di Giuditta che mi trascrivete mi è stata cara, cara. Ditele quanto mi fu cara e che l’amo come l’amavo; ditele che sotto questo cielo di Londra vivo più concentrato che mai, vivo d’anima; nella mia anima essa è scolpita ed io, lontano, parlo, penso vivo con lei».
L’ultimo pellegrinaggio di Giuditta Sidoli fu per prendere definitiva dimora a Torino, movendo verso una vecchiaia serena, circondata dalle figlie spose e dai nipotini che l’adoravano. Se qualcuno, verso il 1870, vedendo passare sotto i portici di Po una signora distinta, dal portamento eretto, bella ancora nella aureola dei capelli bianchi e delle vesti abbrunate, chiedeva al vicino: Chi è?... udendone il nome si fermava riverente e commosso quasi sentisse passargli vicino il grande spirito di Giuseppe Mazzini.