Produrre sapere in rete in modo cooperativo - il caso Wikipedia/Parte I/Storia e etica della cultura "hacker"

Parte Prima - Il processo di cooperazione in rete

Storia e etica della cultura "hacker"

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Parte I - Dal percorso della costruzione sociale del pc ad oggi: la grande utopia della produzione collettiva di sapere Parte I - Rilettura dell’apparato ideologico all’interno della pratica “open-source”

Una nuova idea di programmazione del computer

Un idoneo punto di partenza dal quale procedere per vagliare il processo di produzione di sapere in rete può essere fornito dall’analisi delle linee guida del movimento hacker, osservando come nasce la condivisione di conoscenza (inizialmente da intendersi prettamente informatica) in Rete. Si ritiene dunque indispensabile dedicare particolare attenzione alle origini di questo movimento e al suo sviluppo, sia a livello storico sia a livello etico, in quanto gli hacker hanno il merito di aver inventato una vera e propria “pratica”: un modo ben preciso e peculiare di fruire la macchina informatica.

La storia del movimento ha inizio negli anni ’50, negli Stati Uniti, attorno a due poli universitari fondamentali: la già citata Università di Berkeley e quella di Stanford, entrambe con sede in California. Altro punto nevralgico è da ricercarsi nel MIT (Massachusetts Institute of Technology).

Come già detto, il momento particolarmente vivace dal punto di vista ideologico, con la diffusione di idee a carattere libertario, il fiorire di intelligenze acute e interessate all’ambito informatico e un mutamento tecnologico sempre presente furono tutti elementi indispensabili per costituire terreno fertile per la nascita di un nuovo movimento: giovane, un po’ ribelle, tecnologicamente istruito.

Si può tentare una definizione di tale figura attingendo dagli studi di Manuel Castells. Il termine “hacker”, come rilevato dall’autore, viene spesso confuso, a torto, con quello del “cracker”, o del pirata informatico: «Gli hacker non sono ciò che raccontano i media. Non sono esperti informatici irrequieti, ansiosi di crackare codici, penetrare illegalmente nei sistemi o portare il caos nel traffico informatico. Quelli che si comportano così sono chiamati “crackers”1».

In realtà, l’hacker è colui che cerca di risolvere tendenzialmente un problema informatico che ha incontrato durante la sua “esplorazione” personale, un bug in cui si è imbattuto per caso. È colui che tende ad accrescere in maniera costante la propria conoscenza tecnologica per aver maggior padronanza di tecniche e linguaggi, in modo da essere in grado, poi, di ampliare o modificare a sua discrezione il software.

La storia degli hacker ha inizio dunque nelle università e, in particolare, tra i primi gruppi di studenti che si riunirono intorno all’Homebrew Computer Club di Berkeley, costituitosi nel 1973. Il loro sogno, più vicino a un’utopia forse, era quello di rendere l’informatica libera e aperta a tutti: a livello puramente tecnico, essi erano caratterizzati dal loro stesso scarso interesse per linguaggi di programmazione di alto livello e già troppo distanti dal funzionamento di base. Questo ha dimostrato quanto l’ideologia fosse fortemente radicata ai valori libertari e comunitari, in quanto si puntava ad un’informazione che doveva essere libera e condivisibile da tutti coloro che lo volessero, senza ostacoli o difficoltà tecniche.

Con la nascita e la diffusione di ARPANET, nella seconda metà degli anni ’60, la Rete divenne il veicolo principale per la diffusione delle idee e delle prospettive hacker, e non solo. Ci fu, in breve tempo, la creazione di una vera e propria comunità di rete, una tribù legata da ideali e comuni obiettivi, in grado di mettersi in comunicazione attraverso la nuova tecnologia delle BBS, come si diceva ideata proprio all’interno dell’Homebrew Computer Club.

Ma osservando attentamente il movimento hacker si può notare come in realtà abbia vissuto due grossi momenti fondamentali: una prima fase, di tipo “etico”, e una seconda fase, per lo più “pragmatica”. Per il primo passo è essenziale l’operato di R. M. Stallman, mentre per la seconda si concentrerà l’attenzione su Eric Raymond.

Al di là del più generico desiderio di condividere informazioni e sapere, il movimento hacker si è contraddistinto per il progetto del “free software”, in altre parole quel software il cui codice sorgente è liberamente distribuito in modo che chiunque possa ampliarlo o modificarlo e a sua volta ridistribuirlo. Nel tracciare le linee-guida del profilo “etico” di questo nuova idea di diffusione informatica, è fondamentale, come si è detto, la figura di Richard Marshall Stallman.

La filosofia di Richard M. Stallman

Così Richard M. Stallman definisce il concetto di software libero, ogni volta che viene interpellato sul suo significato: «Il free software è libero, non gratuito: dovete pensare al concetto di libertà di parola, piuttosto che a quello di birra gratis2». Ciò significa che il software può essere usato, copiato, modificato e distribuito da chiunque, gratis o a pagamento, a discrezione di colui che compie l’azione di diffonderlo.

La storia biografica di Stallman riflette, anche soltanto nei suoi tratti principali, quanto l’esperienza lavorativa abbia influito e condizionato l’hacker nel definire i capisaldi dell’ideologia.

Il «grande filosofo», così definito da Linus Torvalds3, entrò nella comunità hacker quando nel 1971 si trovava al MIT, più precisamente al Laboratorio di Intelligenza Artificiale. Stallman e colleghi stavano lavorando ad un nuovo sistema operativo4, pensato perché tutti potessero accedere liberamente e sempre, quindi privo di qualunque forma di password o restrizione. Quando al MIT iniziarono ad esserci pressioni perché venissero introdotte le chiavi d’accesso, Stallman diede inizio ad un’azione sovversiva a livello informatico. Egli scoprì le password che erano state inserite e chiese a coloro che erano stati indotti a utilizzarle di smettere di farne uso. Un quinto sul totale delle persone che lavoravano lì condivisero la proposta di Stallman: una vittoria per la nascente ideologia hacker. La gloria incondizionata durò relativamente poco.

Proprio negli stessi anni ’70, più precisamente il 31 gennaio 1976, Bill Gates, fondatore dell’astro nascente nell’industria software, la Microsoft, scrisse una lettera aperta dove si pose la domanda che nessuno all’Homebrew aveva finora osato porsi: «Chi può permettersi di lavorare gratis?». In breve, con la nascita e lo sviluppo rapidissimo della nuova casa di produzione di programmi, la Microsoft, il mercato libero del software cui i programmatori erano stati abituati fino ad allora svanì, per lasciare spazio allo scambio controllato del software proprietario.

Stallman si ritrovò di fronte a un grosso problema etico: il software proprietario era in quel momento indispensabile ai sistemisti del laboratorio di Intelligenza Artificiale del MIT, ma ciò significava dover cedere alle leggi di un mercato che voleva prescindere dalla condivisione del software e più in generale dalle idee creative che avrebbero potuto liberamente contribuire a migliorarlo. Così Stallman si impegnò nel ricercare un’alternativa alla proprietà intellettuale sul software. Egli condusse questa ricerca impegnandosi in modo totalizzante, assumendola come una «missione», come ama ricordare ancora oggi.

Nel 1984 Stallman, non volendo sottomettersi ai cambiamenti che si scontravano con la sua filosofia, disse addio al MIT e si dedicò allo sviluppo di un nuovo sistema operativo5 compatibile con Unix, che era allora il più diffuso. Egli chiamò il suo sistema operativo GNU6: era completamente libero. Si era reso disponibile il codice sorgente, in altre parole quelle singole unità, i programmi simili a quelli che costituivano Unix.

La filosofia di Richard Stallman è sempre stata mantenuta dal suo ideatore senza cedimenti, grazie anche ai toni notevolmente estremistici e radicalmente ideologici della stessa. La visione estrema della cooperazione come unica via possibile e auspicabile per la creazione di software libero di Stallman l’ha condotto a diverse iniziative, tra cui la fondazione della FSF (Free Software Foundation) e l’ideazione di una nuova forma di diritto d’autore, definito copyleft.

L’organizzazione “Free Software Foundation”

Alla base di GNU e della sua più importante applicazione, Emacs7, Stallman decise di porre un’organizzazione non-profit basata su contributi di tipo volontario, sotto forma di lavoro e quindi di manodopera, o di finanziamento in denaro. Quest’organizzazione ha avuto il merito di radunare, intorno a GNU e al suo ideatore, un gruppo permanente di professionisti che potessero garantire sviluppo costante e assistenza al progetto.

Al di là del compito di radunare sviluppatori dello specifico progetto, la Free Software Foundation si è fatta esponente e punto di riferimento del progetto “etico” cui Stallman ha dato vita, per l’appunto quello che ha alla base il software libero. La FSF, per Stallman, ha incarnato una nuova possibilità di ricreare le condizioni di lavoro che vigevano al MIT nei primi anni della sua presenza al laboratorio di Intelligenza Artificiale, dove si assisteva e si contribuiva ad un processo di creazione costantemente attivo intorno ad un prodotto passibile di modifica in ogni momento.

Per dirla con gli autori Berra e Meo: «Le ragioni di fondo del progetto di Stallman richiamano l’importanza di costruire e mantenere un legame sociale all’interno della comunità dei produttori e utilizzatori del software, giacché il valore principale del prodotto è rappresentato dal valore d’uso per la comunità e non da quello puramente economico legato al guadagno8».

Il sogno di Stallman era dunque quello di una cooperazione libera e costruttiva, una sorta di rivoluzione lavorativa, ma soprattutto sociale.

Il concetto di “copyleft”

L’altro fondamentale risultato dell’opera di teorizzazione compiuta da Stallman è il concetto di copyleft. Come egli stesso afferma, il copyleft è un termine che mira a «capovolgere il diritto d’autore». Il copyleft, tradotto liberamente dallo stesso suo creatore con “permesso d’autore”, è ciò che sancisce il pubblico dominio del software libero e il diritto-dovere di distribuirlo. Il copyleft fa riferimento alla licenza che viene associata al software libero, ovvero la GNU GPL9 (GNU General Public Licence), che sancisce che ognuno può fare qualsiasi cosa col prodotto, salvo limitare la stessa libertà degli altri utenti.

La GNU GPL è la prima licenza che non risponde alle esigenze del governo o dell’azienda che rilascia il programma, ma a quelle della comunità che l’ha creato. Con il copyleft e la licenza GNU GPL si tenta di dare ordinamento giuridico a un mercato libero come il prodotto che ha alla base. Come l’intera ideologia di Richard Stallman, si cerca un’alternativa al sistema commerciale dominante, dove il software non debba necessariamente essere obiettivo di appropriazione da parte delle aziende distributrici, ma possa rimanere il frutto di una libera cooperazione creativa, che tollera solo il coordinamento della Free Software Foundation.

L’elemento fondamentale intorno a cui si snoda il concetto di copyleft è il codice sorgente. Alla base dell’etica hacker vi è appunto l’idea che il codice sorgente di qualunque applicazione rimanga libero e distribuibile, oltre che perennemente aggiornabile e modificabile da qualunque programmatore nel mondo che decida di farlo.

È su questa filosofia che si basa, ad esempio, il sistema operativo Linux e l’intero movimento hacker e open-source: l’aspetto più importante è che il software funzioni, a scapito della proprietà intellettuale, che viene serenamente sacrificata a favore dei principi di cooperazione e sviluppo continuo.

Principi fondamentali dell’aspetto etico della comunità hacker

Sopravvivenza, vita sociale e intrattenimento: la legge di Linus

Alla base dell’“etica” hacker, secondo una trattazione che si rivela per i contenuti direttamente debitrice delle teorie stallmaniane, si possono collocare i tre fondamenti individuati da Linus Torvalds.

Nel prologo del testo di Pekka Himanen, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Torvalds, già citato creatore di Linux, riassume i tre nodi della filosofia all’origine dell’hacking: sopravvivenza, vita sociale e intrattenimento10.

Come affermato poco sopra, è sicuramente complesso tentare di assegnare un nome ad ogni pratica riconoscibile all’interno del movimento hacker. Torvalds ci ricorda che l’hacker è qualcuno che ha smesso da tempo di usare il computer per “sopravvivere” e si concentra sugli altri due aspetti. L’hacker vede il pc come uno strumento che permette di intessere legami sociali, attraverso e-mail ad esempio, in modo da costituire in più o meno breve tempo una comunità. Tuttavia per l’hacker il computer incarna soprattutto la pratica dell’“intrattenimento”: tutto ciò che risulta possibile fare con questo mezzo è bello e stimolante di per sé11.

Al di là dell’immagine “leggera” del lavoro che viene data dallo stesso Torvalds, è interessante soffermarsi maggiormente sul discorso etico che sta alla base della cultura hacker. Partendo dal presupposto che l’hacker programma e utilizza il computer perché trova questo intrinsecamente divertente e piacevole, si può osservare più ampiamente come l’hacker considera in generale il proprio lavoro.

Pekka Himanen, nel suo lavoro, guida il lettore in un parallelo tra l’etica hacker del lavoro e la ben più nota e collocata storicamente etica protestante del lavoro12 di Max Weber. Quest’ultimo, nel suo saggio, si concentra sull’idea del “dovere professionale” e indica come: «[…]… (si) svolga il lavoro come se fosse assolutamente fine a se stesso – “vocazione”». La religione protestante era dominata dall’idea che sudando e faticando per compiere al meglio il proprio lavoro, al di là del ritorno economico e del guadagno in denaro, si sarebbe ottenuta la certezza di un posto “privilegiato” nell’aldilà. Weber rintraccia nell’etica protestante la struttura simile al monastero: tra i benedettini vige il dovere del lavoro. Egli prosegue però affermando che lo spirito del capitalismo si è ben presto trasformato in una vera e propria “gabbia di ferro”13, avendo fatto dei suoi stessi valori rigidi vincoli da rispettare. Un altro aspetto fondamentale dell’etica protestante è il considerare il lavoro come l’aspetto più importante della vita di una persona, conducendo così a trascurare e rifiutare la relazione con qualcun altro14.

L’etica hacker rivoluziona completamente ciò che è stato detto fin qui, o meglio, si riaggancia, come sostiene lo stesso Himanen15, all’etica preprotestante, anche se non in senso stretto, in quanto non viene certamente assunta a modello la nullafacenza. Il lavoro, per l’hacker, è qualcosa di sostanzialmente soddisfacente, che assomiglia più ad un passatempo e ad un divertimento, piuttosto che ad una irrinunciabile fatica. È, come sostiene Raymond, un profondo momento di “passione” con ciò che si sta facendo. Non risulta fastidioso e pesante passare il tempo davanti al computer, perché in quel momento l’hacker sta bene.

Sempre a proposito del tempo, Himanen ci parla dell’ottimizzazione di questo16: l’hacker non segue i ritmi frenetici scanditi da una normale giornata lavorativa di un impiegato, per esempio. Egli può invece gestire al meglio il proprio tempo, lavorando fondamentalmente solo quando ne ha voglia: in questo senso lo ottimizza. In sostanza l’hacker non gestisce la propria giornata secondo le rigide regole richieste e definite dall’etica protestante e dal consueto e ordinario mercato del lavoro, ma ha a disposizione tempo flessibile che può decidere di impiegare nel lavoro o nello svago (anche se spesso questi due aspetti collassano uno sull’altro) come meglio crede. L’accademia, ovvero il modello che viene ripreso per associarlo all’etica hacker, ha tra i suoi principi quello di gestire il tempo per conto proprio.

Il tempo dell’hacker è dunque sostanzialmente quello che segue ciò che si può definire il motore della produttività all’interno di questa etica: la creatività. È in sostanza, come ribadisce Himanen, un rivalutare l’hic et nunc della vita. L’etica hacker non dice che il lavoro è un fardello gravoso di cui si debba sopportare mole e ingenza, ma uno dei tanti momenti della vita in cui è opportuno godere di ciò che si fa e ci si sente soddisfatti del prodotto delle proprie fatiche: il lavoro non deve rubare il tempo ad altro. L’hacker è anzitutto un essere umano, prima che un lavoratore.

I vantaggi del lavorare con una struttura “a rete”

Una delle caratteristiche fondamentali alla base del lavoro dell’hacker è la strutturazione delle comunicazioni secondo una modalità definibile “orizzontale”, con un’organizzazione cosiddetta “a rete”: i membri si gestiscono suddividendosi le attività in base a progetti, dove ognuno ha lo scopo di portare a termine la propria parte specifica, senza controllo di tipo “verticale”, ma attraverso un’auto-organizzazione che si basa fondamentalmente sulla comunicazione tra pari. La struttura a rete è facilitata da un intrecciarsi di relazioni: lo stesso Stallman, si è detto, desiderava replicare, attraverso la FSF, l’ambiente che si era creato al laboratorio di Intelligenza Artificiale del MIT nei primi anni ’70. La rete, come vedremo più avanti, proprio a livello strutturale, permette l’attivazione dei cosiddetti “legami deboli”17, come osserva Barabási riprendendo la teoria di Granovetter, non ancorati a tradizioni o a lunghe conoscenze, ma spesso più efficaci per scopi di tipo lavorativo. Inoltre la struttura a rete permette una comunicazione nettamente più rapida e diretta, che consente al lavoro nel complesso di procedere con maggior velocità. La rapidità è anch’essa un aspetto fondamentale per qualunque tipo di innovazione, in particolare nell’ambito tecnologico: l’esser costantemente aggiornati consente di sfruttare i vantaggi di una tecnologia adeguata alla scoperta e allo sviluppo di nuove idee.

L’hacker inoltre lavora concentrandosi spesso su una “porzione” dell’intero progetto. Il lavoro di questo tipo permette di verificare in tempo reale la qualità del lavoro fino a quel momento svolto. In questo modo il tempo che viene perso nel ricorreggere gli errori a prodotto finito (operazione che spesso non viene fatta, o comunque a distanza di tempo come nel caso di “update” o “release18” lenti, a cadenza annuale, ma necessari a correggere i bug), viene così risparmiato.

In una situazione che appare disordinata, vengono dunque stimolati quei legami che più vanno a contribuire all’effettiva attività lavorativa. Ma non si può parlare di anarchia. Come si tenterà di dimostrare, si osserva come in realtà ci si trovi di fronte a un modello di organizzazione, o meglio auto-organizzazione, di tipo per l’appunto spontaneo, che giunge “dal basso” della comunità, basato su valori di condivisione e di raggiungimento dello scopo. L’anarchia è tenuta a bada da un coordinatore, un ruolo fondamentale, ma che non è solitamente mai ricoperto dalla stessa persona. Tale struttura è stata definita, come vedremo in seguito, da Raymond19, “a bazar”. È sicuramente comunque un modello di organizzazione difficile da sistematizzare e da rinchiudere in uno schema rigido e universale: ogni caso situato ha, solitamente, le sue peculiarità e le sue varianti di funzionamento.

Il reale guadagno di un hacker: la reputazione

Una delle basi del lavoro di un hacker e, allo stesso tempo un prodotto della struttura a rete di cui si è parlato, è il meccanismo della “reputazione tra pari”. Attraverso la cooperazione e il conseguente stringersi di relazioni sociali, si assiste a un fenomeno che può esser definito come il “carburante” del lavoro di un hacker: l’apportare modifiche utili, lo scoprire innovazioni fondamentali, il semplice collaborare insieme ad un progetto, alimenta la reputazione. Questo comporta due fondamentali risultati: anzitutto, la data persona sarà d’ora innanzi riconoscibile e se ne avrà memoria per ciò che è stato il suo contributo. In secondo luogo si stringerà una sorta di patto fiduciario, che finirà per garantire il suo lavoro in futuro.

Dal punto di vista di colui che ha svolto un determinato compito, l’esser reputato “in gamba” gli darà ulteriore vigore e forza, nonché carisma, per proseguire nell’opera. La crescita del proprio ego è un aspetto fondamentale nella comunità hacker: il senso di appartenenza e di gratificazione dall’opinione, presumibilmente buona, che gli altri hanno di lui, è un bisogno dell’hacker e al contempo un’incentivazione ad aderire ai valori della comunità e a sottoscriverne gli scopi. Il riconoscimento tra pari, così come definito da Raymond, è dunque una pratica osservabile all’interno della cultura hacker e, più in generale, di ogni sistema cooperativo auto-organizzato. E il denaro allora? Che ruolo ha all’interno della comunità hacker? Come sostiene Castells20, spesso si crede, a torto, che l’hacker viva in una sorta di limbo dorato, dove non ha bisogno di alcunché per provvedere alla propria sussistenza. Ma questo non giustificherebbe lo sviluppo di intelligenze formidabili in Paesi terzomondismi o piuttosto privi di risorse. In realtà proprio in un’economia della scarsità, è indispensabile avere, come evidenzia Castells, una forte spinta creativa e una notevole capacità di mettersi in gioco. Molti hacker in ogni caso, quelli sostanzialmente meno radicali e meno ancorati all’ideologia (per intenderci, non i discepoli di Stallman, nel senso stretto della definizione), non trovano nulla di male nell’accumulare denaro. Himanen parla degli hacker capitalisti21. Ci si trova di fronte a un’opposizione quasi ontologica tra i concetti di hacker e capitalismo. Il primo parla di passione e libertà, il secondo di fatica e crescita del capitale come scopo supremo. L’hacker deve trovarsi in bilico tra ciò che sono gli ideali e la situazione economica che lo circonda e che, fondamentalmente, gli permette di sopravvivere. Ovviamente, quando il denaro è ciò che determina ogni istante dell’attività di qualcuno, non si può più essere così sicuri di trovarsi di fronte a colui che possa esser definibile un hacker.

Una parte più “pragmatica” del movimento hacker, che andremo ad approfondire nel prossimo capitolo, definibile come movimento “open-source” parte da una visione più moderata del problema e ci spiega come hacking e industria possano coesistere.

Ma già lo stesso Stallman ci dice che non è un problema il fare soldi, ma il farlo chiudendo l’informazione22.

Uno degli errori più frequenti è l’associare questa organizzazione al comunismo. Come afferma Himanen e come si infuria Raymond, ogni qualvolta si trova di fronte a tale provocazione, il comunismo è un modello di autorità centralizzata, è una struttura che obbliga i suoi membri a mettere in comune. Gli hacker sono liberi di farlo e si auto-gestiscono, all’interno della propria comunità: la differenza non potrebbe essere più marcata. La comunità hacker presenta semplicemente una struttura aperta che richiama, come già detto, quella dell’accademia. Da questo paragone, viene tratto anche il modello di apprendimento e di acculturazione: «Un punto di forza fondamentale del modello di apprendimento sta nel fatto che ciò che uno di essi impara poi lo insegna agli altri23». Si è di fronte a ciò che Pekka Himanen chiama “accademia della rete”.

Questa mancanza di confini può però portare effettivamente a una dispersione: facendo sempre riferimento allo scritto di Himanen24, ci si concentri su una delle possibili conseguenze che si hanno dalla logica che vige nel network; la mancanza di limiti prestabiliti può condurre spesso a una sorta di “leggerezza”, riconducibile alla mancanza, nel peggiore dei casi, di responsabilità per le proprie azioni e per i contenuti che si introducono nella rete stessa. La comunità hacker evita questo fenomeno, consentendo una sorta di ancoraggio e di riconoscimento in determinati valori che si leghino alla necessità di esser responsabili. Il movimento richiama all’ordine i suoi membri, come spiegato, grazie al processo che alimenta la reputazione: in base ad esso, si è riconoscibili nel modo in cui si desidera apparire; se si vuole essere apprezzati, bisogna agire correttamente.

In conclusione, l’opera di Pekka Himanen, fa riflettere su sette caratteristiche associabili all’etica hacker: la passione, la libertà, l’apertura, il valore sociale, l’attività, la responsabilità e la creatività; i primi due sono direttamente collegabili alla sfera del lavoro in senso stretto, ovvero sono ciò che debbano necessariamente guidare un hacker nello svolgere la sua attività. Il valore sociale e l’attività sono invece le motivazioni del lavoro di un hacker: non il denaro, quanto la costruzione di rapporti sociali e l’intrinseca piacevolezza dell’attività. La responsabilità rientra in quella “netica” definita da Himanen come la caratteristica comportamentale che domina la logica di rete. Infine la totale e vivace rielaborazione delle proprie capacità, ovvero la creatività, è l’elemento indispensabile per la definitiva “consacrazione” da parte della comunità.

Il ciclo di reputazione-gratificazione si chiude su un individuo che è soddisfatto di sé ed è valutato in modo altrettanto soddisfacente e gratificante dagli altri.

La cultura del dono nel modello di produzione cooperativa

Osservando il “free software” secondo un punto di vista economico, il mercato alla base del software libero ricorda molto il modello di dono arcaico. Come si evidenzia nel testo degli autori Berra e Meo25 riprendono in proposito il saggio scritto nel 1924 da Marcel Mauss, dove si segnala come il dono fosse la base sociale di ogni organizzazione arcaica. Il dono non assumerebbe, in questo contesto, un valore intrinseco alla natura e al, per così dire, valore economico dello stesso. L’oggetto donato si carica di una serie di valenze che hanno natura anzitutto sociale e collettiva: questo evidenzia, come indicano Berra e Meo, riprendendo Goudbout26, che: «l’aspetto economico delle relazioni è profondamente inserito in un legame sociale». Il dono finirà sicuramente ad essere considerato di maggior valore, a seguito dello scambio, soprattutto per essere espressione di coesione e legame sociale.

Così accade all’interno del mercato del software libero. Il programma creato e distribuito all’interno della comunità hacker ha sicuramente una dose di valore intrinseco, ma è soprattutto un oggetto concreto caricato di valenze di tipo simbolico e più precisamente espressione del patto fiduciario tra gli hacker, di cui abbiamo parlato in precedenza. Qui, come in un’economia definibile “del dono”, non ci sono leggi di concorrenza e di mercato in senso tradizionale a dominare il meccanismo di scambio: si è di fronte a un’obbligazione morale, etica, per usare una terminologia ormai nota e consolidata. Per dirla con Berra e Meo, questo tipo di rapporto economico è in realtà più vincolante del normale commercio: si finisce in una sorta di indebitamento perenne; le relazioni personali che vengono a crearsi limitano la libertà di sfruttare in senso opportunistico il legame sociale creatosi. A mio avviso, ciò è da considerarsi regola applicabile e valida solo nel caso in cui gli attori27 in gioco siano guidati da un profondo senso etico e da una fervida ortodossia morale: in caso contrario, è possibile riscontrare un brusco “cambio di rotta”, che vede il rinnegamento di tutti i valori precedentemente accolti.

Il dono si colloca comunque all’interno della memoria storica della relazione sociale che lo vede come oggetto di scambio personalizzato per colui che lo riceve: in questo senso si oppone al mercato economico diffuso che nega, come sostiene Goudbout28, l’“unico”, indicandolo come una falla, un’imperfezione all’interno della catena di riproduzione di un “bene identico” adatto da commercializzare.

L’economia del dono sembrerebbe collocarsi lontano dall’economia della scarsità già citata in precedenza: il dono però non è legato all’idea di gratuità. Spesso il dono veniva utilizzato nelle comunità primitive per diminuire il gap tra i ricchi e i poveri29: era una sorta di obbligo sociale di redistribuzione delle ricchezze, una sorta di contratto sociale di tipo equo, alla Rousseau, dove la volontà individuale, o il fabbisogno in tal caso, vengono sacrificati per la volontà o bene collettivo.

Per quanto riguarda la cultura hacker, questo discorso va opportunamente declinato. Tra gli hacker il software-dono non è qualcosa che essi producono unicamente a favore della comunità alla quale fanno riferimento, sia per una sorta di necessità di dimostrare l’appartenenza, sia per una questione di “arricchimento” culturale (e non) della stessa. L’hacker solitamente sviluppa, modifica e crea un programma per una necessità personale: un bisogno scaturito dal riscontro di una mancanza, un miglioramento a seguito della scoperta di un errore e così via.

Si è di fronte dunque a un discorso diverso, per il quale non si parla più di “volontà individuale” sacrificata a favore di quella “collettiva”, ma della soddisfazione di una necessità personale che, contemporaneamente, viene condivisa per chi, come me, ne ha o ne avrà bisogno. Cordonnier, citato da Berra e Meo, afferma a proposito: «[…] La ragione è che in un punto o in un altro lo scambio economico ostacola l’interesse individuale. Anche se il motivo dello scambio è l’interesse o il desiderio di guadagno, bisogna saper cedere o perdere qualche cosa per ottenere ciò che si desidera. […] Il dilemma […] si gioca tra l’interesse, il guadagno o l’utilità individuale che ne fornisce il motore (dello scambio commerciale), e l’obbligo di cooperare che ne costituisce il processo»30.

Il dono richiede comunque una contropartita di qualche genere: ma allora fino a dove il processo di donazione è spontaneo e fino a dove è invece governato da obblighi, anche per lo più morali? Come sostengono Berra e Meo, sicuramente alla base del meccanismo che innesca lo scambio di doni ci dev’essere un atto gratuito, che stabilisca la relazione di cooperazione. Ovviamente il mantenimento di questa relazione deve essere dettato dalla volontà, ovvero dal desiderio di proseguire sia la relazione sociale sia le cooperazione.

All’interno del software libero, la cooperazione presuppone un rapporto di fiducia, quello che ho chiamato in precedenza patto fiduciario tra i membri. Se si crede nella cooperazione come metodo di produzione efficace e vincente e se si pensa che tutti condividano anzitutto questa visione, sarà possibile se non facilitato il rapporto di collaborazione. Ovviamente se si è incerti sul comportamento che potrebbero assumere gli altri, la scelta sul cooperare o meno sarà difficile e dominata dal dubbio: si incappa nel rischio di incontrare sulla propria strada i “free riders”, ovvero coloro che sfruttano il lavoro altrui senza aderire al contratto cooperativo.

Tuttavia bisogna osservare che nello scambio tra gli hacker, entra in gioco il software, non deteriorabile nel passaggio, bensì ampliabile e in grado di diffondere la conoscenza, che è, in tal caso, la materia prima alla base della produzione31.

Dunque il mercato del software libero, riferendosi direttamente allo scambio di doni, porta, come si legge in Berra-Meo, a una serie di attività decentralizzate, che conducono a un risparmio generale di tempo e denaro e inoltre a una maggior ottimizzazione della capacità lavorativa di ognuno. Parlando di quest’ultimo aspetto, non si vuole intendere che il tempo di lavoro sia ottimizzato secondo il senso comune, che comporterebbe un’opposizione netta con la filosofia hacker. Si intende invece che l’hacker ha a sua disposizione l’intero arco della giornata da poter suddividere a piacimento nelle varie attività. In questo senso, il tempo è ottimizzato, ovvero aderisce al meglio alle necessità di chi ne dispone.

Inoltre, la prospettiva hacker presenta anche un’ulteriore caratteristica: l’interazione serrata tra produttore e consumatore permette di conoscere pienamente le necessità e i desideri del cliente. Nel caso dell’hacker, le due figure arrivano a coincidere, costituendo i cosiddetti prosumer di Alvin Tofler32. Si sarà così arrivati a un modello produttivo perfettamente integrato sia a livello di tempi, in quella che è una vera e propria produzione “just in time”33. Ci si trova dunque davanti a un nuovo modello produttivo, qualcosa che supera la questione della proprietà intellettuale e della catena di riproduzione del bene in serie. Nel prossimo capitolo vedremo più approfonditamente a che cosa si sta andando incontro.

La tensione dialogica tra il concetto di “libero” e “proprietario”

Nel capitolo si è percorso, in modo molto rapido, il fenomeno della cooperazione all’interno del movimento hacker.

Ci si è concentrati soprattutto sull’ideologia radicale di Richard Marshall Stallman, uno tra i capostipiti della cultura, nonché tra i maggiori teorici, sicuramente il più famoso e sfruttato retoricamente, dell’etica hacker.

Le visioni suggestive e i valori di puro stampo ideologico, eredità di uno “hippie tecnologico” qual è Stallman, hanno sicuramente accompagnato la prima fase di diffusione della rete e il suo vertiginoso sviluppo fino ai giorni nostri, contribuendo senza dubbio, soprattutto nelle fasi iniziali, a definirne le caratteristiche e le valenze sociali.

Oggigiorno si è chiamati a fare un passo ulteriore, compatibile con la situazione attuale, dove l’etica hacker può dominare ancora l’immaginario di chi lavora in Rete, ma ha bisogno di una declinazione che non la faccia apparire eccessivamente utopica e “datata”.

Ecco allora d’obbligo una ripresa di tutto l’apparato in una nuova ottica.


Note

  1. Cfr. Castells 2001, p. 49
  2. Cfr. il film Revolution OS (2002) di J.T.S. Moore, Ed. Apogeo
  3. L. Torvalds è il creatore del kernel, il nucleo base del sistema operativo, al quale darà il nome “Linux”. Linux è un sistema operativo per personal computer, ovvero un’applicazione che permette agli altri programmi di funzionare. È caratterizzato da circa dodici milioni di utenze ed è sviluppato da un centinaio di operatori che collaborano su Internet.
  4. Trattasi dell’ITS, Incompatibile Timesharing System. Come indica Stallman, nel documentario Revolution OS, il nome vuol ricalcare lo spirito giocoso dell’intelligenza vivace che caratterizza l’hacker.
  5. Si ricorda che un sistema operativo è un insieme di applicazioni informatiche che rendono disponibili le risorse necessarie ai programmi per funzionare, anche in contemporanea, senza entrare in conflitto tra di loro.
  6. GNU è un acronimo ricorsivo, un “trucchetto” linguistico molto diffuso nella comunità hacker, che significa “Gnu is not Unix”, ovvero “Gnu non è Unix” (e quindi non si tratta di un software proprietario).
  7. Emacs è un programma di editing, ad architettura aperta.
  8. Cfr. Berra-Meo 2001, p. 88
  9. La versione 2 è datata Giugno 1991
  10. Cfr. Himanen 2001, p. 10
  11. Cfr. ibidem, pp. 11-12
  12. Cfr. Weber 2001
  13. Cfr. ibidem
  14. Cfr. Himanen, ibidem, p. 20
  15. Cfr. ibidem, p. 24
  16. Cfr. ibidem, pp. 27-39
  17. Cfr. Barabási 2004, p. 46
  18. Con i termini si indica sostanzialmente l’aggiornamento di un programma
  19. Cfr. Raymond 1998, disponibile all’indirizzo web [1]
  20. Cfr. Castells, ibidem.
  21. Cfr. Himanen, ibidem, p. 50
  22. Cfr. Stallman, citato in Himanen 2001, p. 53
  23. Cfr. Himanen, ibidem, p. 63
  24. Cfr. ibidem, p. 103
  25. Cfr. Berra-Meo, ibidem, p. 148
  26. Cfr. Goudbout 1993 (ed or. L’esprit du don, La Découverte, Paris 1992), citato in Berra-Meo 2001
  27. Riferimento debitore della metafora drammaturgica di Erving Goffman, per la quale l’individuo è un attore che mette in scena il proprio comportamento e una determinata maschera, costruita e preparata nel “retroscena”, nell’ambito della “scena” sociale che prevede l’interazione con uno o più altri attori sociali.
  28. Cfr. Goudbout ripreso da Berra-Meo 2001, p. 151
  29. Cfr. ibidem, p. 152
  30. Cfr. ibidem, p. 157, citato da Cordonnier, Cooperation et réciprocité, pp. 8-9
  31. Cfr. ibidem, p. 162
  32. Così come citato in Berra-Meo 2001, p.171
  33. Cfr. ibidem, pp.168-174