Primo maggio/Parte settima/VII
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Egli si svegliò con l’anima serena. Il suo primo pensiero corse ai millioni d’uomini che, quella stessa mattina, in tutte le parti del mondo civile, da Sidney a San Francisco, da New York a Berlino, da Mosca a Palermo, s’erano svegliati prima di lui, - e salutando quel giorno i millioni di compagni di fede sparsi per l’Europa e per l’America, volgevano la mente all’avvenire con un sentimento di speranza. E pensò che altri millioni si eran destati o stavano per destarsi con un sentimento d’inquetudine e di terrore. E anche di questo si rallegrò, non per un pensiero maligno, ma perché era provvido che ci fosse un giorno dell’anno in cui la mente dei felici, degli spensierati, degli egoisti, fosse quasi a forza costretta a guardare in faccia il tremendo problema. Oh sì, anche nella mente dei più spensierati e dei più baldanzosi doveva sorgere un dubbio quella mattina che i privilegi di cui godevano non fossero delle ingiustizie e delle iniquità, che la presente forma di costituzione sociale fosse destinata a mutarsi dalle fondamenta. Già in quei momenti, in tutti i paesi civili d’Europa, millioni d’uomini erano sotto le armi, un apparecchio formidabile, bastante a reprimere sull’atto ogni più audace e forte tentativo; ma la presenza di quella immensa forza non poteva fare che quel dubbio, quello sgomento sorgesse negli animi - non bastava a rassicurar nessuno - perché quella forza garantiva il presente, non l’avvenire, e tutti vedevano in quell’avvenire la Sfinge enorme, immobile, granitica, - contro cui nessuna forza umana poteva. No, il 1° Maggio non sarebbe morto più. Avrebbe potuto prender carattere pacifico per un periodo di tempo, e non più ispirare ad alcuno un terrore immediato. Ma ogni anno, infallibilmente, avrebbe riunito in un pensiero millioni d’anime di più. E avrebbe ben finito per esser la festa vera delle nazioni! E con entusiasmo egli si rappresentava quello che sarebbe stato nell’avvenire: delle fiumane viventi per le vie, le case vermiglie di bandiere, un canto, in varie lingue, ma d’un solo concetto, cantato da millioni e millioni di voci, nella stessa ora, in tutte le mille città del vecchio mondo e del nuovo, e in mezzo e intorno alle folle sterminate e festanti, non più fucili, né spade; - in quel fremito immenso non più che pochi ostinati, vecchi, chiusi nelle loro case tristi, rimpiangenti il fasto e l’ozio perduto. Ma anche questi sarebbero diminuiti ogni anno di numero e d’ostinazione. Un dopo l’altro, in uno di quei giorni, al suono delle musiche passanti nella via, non avrebbero più potuto comprimere il cuore, e sarebbero corsi alla finestra a salutare con un evviva frenetico i loro fratelli.
Così pensando, ritto davanti al tavolino del suo studio, egli faceva scorrere sbadatamente i giornali e le lettere rimessegli poco prima, quando gli dié nell’occhio una busta col francobollo di Torino, con un indirizzo scritto a grossi caratteri irregolari. Aperse e lesse: - "Venga domani a mettere il suo petto davanti alle nostre armi, per impedirci di far delle pazzie. È il caso di mantener la parola. Non avrà gran strada da fare." - Nessuna firma. Erano le parole che aveva detto agli anarchici la sera della conferenza. Egli rimase pensieroso. Che avevano deciso d’operare? - "Non avrà gran strada da fare"? - volevano dire che avrebbero fatto qualche cosa nella stessa piazza?... Ma la cosa gli parve impossibile. Non l’avrebbero avvertito prima. Non avrebbero designato il luogo. Non poteva esser stato scritto, quel biglietto, che per spavalderia, per il gusto di turbargli la giornata. Era assurdo. E buttata la lettera sul tavolo, non ci pensò più. E s’avviò per uscire.
Sul pianerottolo trovò Ernesta che saliva da Giulia, con un mazzo di rose, radiante, e gli disse: - Le rose di maggio! - lo baciò ed entrò.
Uscì. Era una splendida giornata. Non aveva mai visto le Alpi così azzurre e le colline così verdi. La città, essendo giorno di lavoro, aveva l’aspetto ordinario. Soltanto, si vedevano passeggiar qua e là, a lento passo, coppie di carabinieri e di guardie di polizia; - a rari intervalli, sui viali, delle pattuglie di cavalleggieri; - ed egli rimarcò, come l’anno prima, che la gente, a ogni crocicchio, si voltava e guardava a destra e a sinistra, con occhio esploratore. Ma da nessuna parte c’era traccia d’assembramenti. Vide solo in via Garibaldi, un piccol gruppo di gente, fra cui scolaretti e donne, fermi a guardare nel cortile della caserma di San Celso, dove le truppe consegnate, in armi, erano passate in rivista. Alberto si soffermò, e fra gli spettatori, vide il Peroni, con la giacchetta sulle spalle, e un mozzicone di sigaro in un angolo della bocca, che guardava, con la sua solita faccia chiusa e sonnolenta. Gli s’avvicinò, e gli disse sorridendo: - Peroni, vedete i preparativi che fanno contro di noi?
Il Peroni tentennò il capo, con una cert’aria di compassione, come per dire: - fanciullaggini! - a tutti quanti, a quelli che volevano fare il 1° Maggio, e a quelli che ne avevan paura.
- Però - gli disse Alberto - vedo che fate festa anche voi. Non andate al lavoro.
Quegli si rimbrunì. Per lui, da un po’ di tempo, era 1° Maggio ogni giorno. Non aveva lavoro. - Sa cos’è stata la mia colazione di questa mattina! - E indicò col grosso dito il mozzicone che masticava.
Alberto fece un atto di dispetto. - Avete torto a dirmi queste cose, che mi fanno pena; voi che non volete aver obbligazioni a un amico.
Peroni ebbe un sorriso triste; e scrollò il capo col solito atto ostinato. Poi disse - Non dubiti... Per mezzogiorno, ho una buona minestra. E poi... il tabacco rinforza.
E dopo un po’ soggiunse, con cert’aria d’ammonimento paterno: - Badi piuttosto lei, quest’oggi... a non fare imprudenze.
Alberto tirò innanzi e andò difilato all’ufficio della Quistione per salutare gli amici. Qui era tutto un fermento allegro, un vivaio di giovani che si concertavano per le venti o trenta riunioni private e conferenze del giorno e della sera, in città, alle barriere, nei sobborghi, nei villaggi; studenti e operai che partivano e venivano, s’abboccavano nelle vie, sugli usci, nelle stanze, scambiandosi informazioni, domande, convegni, notizie d’arresti e raccomandazioni d’amici, con fogli e opuscoli in mano, mentre un cerchio, intanto, nella prima stanza pigliava le istruzioni e i consigli del Rateri: un movimento, un affacendamento simile a quello che, con intenti alquanto diversi, avveniva in quello stesso momento alla Questura Centrale. Il Rateri solo, conservava in mezzo a tutta quella agitazione febbrile la sua faccia marmorea e i suoi occhi chiari e freddi, che non esprimevano che idee lucide e una volontà ferma e tranquilla. Con un accento un po’ sarcastico egli raccomandava ai conferenzieri di non lasciarsi andare alle solite esaltazioni sentimentali, che eran la peste della propaganda: - Sono tutti stanchi, stufi, fradici di rettorica, degli idilli sulla giustizia e sulla fraternità che non hanno che vedere con la questione com’è ora, e di cui, d’altronde, s’infischiano, quando arrivano a capirle. In ogni luogo, bisogna partire da una quistione d’interesse locale, che li interessi personalmente, e da questa, allargando il campo con degli esempi, dimostrare il mutamento come una necessità economica, che si compirà noi e loro volenti o nolenti, ma più presto se vorranno, più tardi, e dopo ben maggior danni, se non se ne incaricano, e che loro soli possono accelerarlo, perché tutti gli altri hanno interesse a combatterli. Questo e non altro.
Tutto il resto è rigatteria poetica, di cui i proletari sbadigliano e i borghesi fanno le grasse risate. E con una mirabile lucidità e prontezza scioglieva dubbi a uno, suggeriva a un altro un argomento da toccare, a un terzo dava dei dati precisi, mostrando di conoscere tutte le fabbriche, tutti gli scioperi, tutte le condizioni speciali d’ogni regione, lo spirito delle singole popolazioni, i padroni, le disposizioni dell’autorità, come se in tutte le località fosse soggiornato dei mesi. Alberto gli s’avvicinò, egli gli diede la mano gelata da stringere, e passò subito a parlare d’un suo progetto - d’una specie d’università operaia, come a Berlino, senza carattere politico, per fornire agli operai e ai giovani socialisti d’ogni classe delle armi intellettuali, romperli alla polemica, educare degli agitatori con un insegnamento metodico della dottrina socialistica, da cui fosse bandito come un’infezione il sentimentalismo e l’idealismo, che rovinavano tutto. Alberto cercò della Zara - era nell’altra camera, occupata al lavoro per la fondazione d’una sezione femminile al partito dei lavoratori: aveva passato la notte a tavolino. Essa lo accolse col suo solito sorriso buono e triste, tendendogli la mano, dopo di che riprese la solita espressione raccolta e severa, rimettendosi al lavoro. Ma il Bianchini fu sorpreso della sua pallidezza, e dell’aria stanca e malata, che non le aveva mai vista. Egli la vide morta. Un’altra consumata da quel terribile fuoco dell’idea... la vide nel feretro, - seguita da una piccola folla - derisa, calunniata, insultata anche nella morte. E espresse il suo rammarico al Barra, che incontrò sull’uscio di strada, ansante, tornato a passo di carica da Lucento, dove era andato a prendere i concerti per la conferenza della sera, che doveva tenere in un magazzeno. Il Barra gli parlò della Zara con rammarico: secondo lui, non aveva più gran lana da filare. Ma sfido: non mangia! Egli credeva che non spendesse quindici soldi al giorno per il suo mantenimento. E con questo, un lavoro di 14 ore al giorno. Si sarebbe consumato un corpo d’acciaio - Ma Alberto l’interruppe per sapere che fosse un bendaggio che gli spuntava di sotto il cappello, sopra un orecchio. Era un ricordo di una riunione della sera prima, dov’erano intervenuti gli anarchici, era nato un tafferuglio, volate le seggiole, e a lui era toccato un colpo di sgabello nel cranio. Le discussioni fra di loro sarebbero d’ora innanzi finite sempre così, ad argomento di legno. Tutto stava a vedere chi avrebbe avuto la testa più dura. E allegramente lo salutò, per entrare nell’ufficio, dopo averlo incaricato con un sorriso tutto borghese: - di presentare i suoi rispetti alla Signora.
Alberto tornò a casa tutto rallegrato da quel tuffo dato nell’onda viva del partito, tutta fremente d’operosità, di coraggio, di fede. E tutto quel giorno passò deliziosamente per lui. Suo padre, per far dispetto alla moglie, aveva avuto l’idea di festeggiare il giorno caro ad Alberto con un desinare in casa sua, a cui aveva invitato, oltre lui e Giulia, i Cambiasi, il Moretti, ed, il suocero essendo per fortuna andato in campagna per non aver la nausea del 1° Maggio, anche la buona suocera. E quando si trovaron tutti a tavola, in quella bella sala d’angolo, prospiciente su piazza Statuto, egli si sentì preso da una profonda letizia. Infatti, quel bel viso amoroso di Giulia, - il sorriso umile e dolce della suocera - la faccia serena e trionfante di Bianchini padre, - il becco rosato e ridente dell’ottimista Moretti - la faccia aperta e gioviale di Cambiasi - e quel beato faccione ingenuo della sua signora, formavano un quadro veramente esilarante; che il viso un po’ sostenuto della madre Bianchini, a cui pareva una degradazione il desinare in onore della canaglia, non bastava a turbare - Solo egli osservò che nel viso della sua povera sorella, sotto la letizia che era negli altri, appariva un’inquietudine, come un pensiero immobile, che spesso le faceva fissare i propri occhi nei suoi. Gli balenò il sospetto che avesse letto la lettera anonima e che presagisse un pericolo. Aveva fatto male a lasciarla là. Era forse troppo tardi, quando, rientrando in casa, l’aveva nascosta. Ma questo suo pensiero si perdette ben presto nella giovialità generale della conversazione.
I discorsi non s’allontanarono mai dal 1° Maggio. Cosa sarebbe seguito a Torino? e a Milano? e a Roma? e a Parigi? Il Bianchini padre ostentava una gran sicurezza - Qualunque cosa accada - disse, ed era forse la decima volta nella giornata - sassi nelle finestre di casa Bianchini non ne vengono a tirare! Oh! Di questo possiamo andar sicuri! - E guardava con tenera alterezza il figliuolo, che faceva quel giorno l’ufficio della bandiera della Croce rossa nelle case, in tempo d’assedio. Poi se la prese col vecchio Geri, - il gran pitocco, che aveva detto alla portinaia di volerli licenziare, sempre per quel pezzo di pelle. E se ne rideva. - Offrendogli 5 lire di pigione di più all’anno, era certo di fargli chiedere scusa. E dicendo che aveva minacciato gli operai della casa di licenziarli se facevan la festa, soggiunse con compassione, facendo dei grossi bocconi: - Non capiscon nulla! Menti chiuse allo spirito del secolo! Anime morte! Anime morte! - Il Moretti, lui, come già aveva fatto l’anno scorso, biasimava apertamente il governo d’aver proibito le riunioni e le processioni. - Errore, errore, errore - Lasciati liberi, non avrebbero appannato un vetro con l’alito. Lui conosceva gli operai. Si sarebbe visto una processione imponente, uno spettacolo che avrebbe attirato gente a Torino dai dintorni, e fatto circolare il danaro. Il governo, le autorità, nessuno capiva nulla. La direzione della festa avrebbero dovuto assumerla i ricchi, le grandi famiglie. La colpa del malcontento l’avevan loro, che spendevan tutto il danaro per divertirsi da sé, contrariamente ai ricchi di altri tempi, che ogni loro festa era festa del popolo, come diceva il venerando marchese Capponi. E tornava alla sua idea per risolver la quistione: divertire il popolo: case di té, teatri popolari, biblioteche amene, parchi, balli: divertirli, stordirli, ubbriacarli di divertimenti. Poi parlò delle 8 ore di lavoro, intavolando una discussione col Cambiasi, che, contro la sua idea, diceva la cosa possibile, citando lo stato di Vittoria e altri d’Australia e d’America, dove lo stabilimento della giornata di 8 ore senza riduzione di salari non aveva portato diminuzione di benefizi. Bah! diceva lui - non sarebbe stato qui lo stesso; qui l’aumento d’intensità del lavoro ridotto non compenserebbe: l’intensità dipendeva dall’ambiente, dalla razza, dalle condizioni industriali, non dalla sola volontà del lavoratore. E Alberto non poté interloquire, interrotto dalla signora Cambiasi, la quale domandava col suo bel faccione una spiegazione: essa credeva che la questione delle 8 ore fosse questa; che ogni operaio aspirasse al diritto di poter lavorare almeno 8 ore - E tutti risero, fuor che Alberto, poiché egli aveva trovato parecchi operai nella stessa credenza: tanta era la mancanza di lavoro, tanto pareva una fortuna il trovar lavoro a qualunque condizione!
- Lo desiderano molto il lavoro - osservò la madre Bianchini, a bocca stretta -, ma pare che non amino tanto di lavorare. Non si senton che lagnanze.
- Ah mamma - rispose Alberto - noi siamo un po’ ingiusti quando parliamo di amor del lavoro! Ne parlano sopra tutto gente che fa dei lavori intellettuali, più o meno piacevoli, in un ufficio pulito, con le distrazioni di chi va e viene, col giornale sul tavolo, spesso con la limonata, con la vista della strada ogni dieci minuti. Hanno un bel pretendere questi che amino il lavoro chi lavora dieci ore in un luogo orrido, in un’aria infetta, col sorvegliante alle spalle, col corpo piegato a un’opera faticosa e monotona automatica, senza distrazione e senza soddisfazione, che istupidisce e uccide dalla noia anche i più volenterosi! - E si diffuse citando molti esempi di questi lavori abbominevoli, cominciati a quindici anni per continuare fino a sessanta, con parole di profonda pietà, che gli facevan tremare la voce. Poi s’interruppe a un tratto per domandare scherzosamente alla suocera, che parlava nell’orecchio a Giulia, se non era dello stesso parere. Oh! Mi parlava di tutt’altro - rispose Giulia ridendo: essa manifestava alla figliuola, con grande consolazione, una sua idea che le era tornata dopo il colloquio all’albergo, una fissazione beata, che, continuando in un certo ordine di sentimenti, se altri non lo stornavano, Alberto avrebbe finito con tornare alla religione vera, e con "praticare". Era una sua dolce speranza segreta, che gli si ridestava ogni volta che lo sentiva parlare con quel tremito nella voce delle miserie e dei dolori della povera gente. Ma né lei, né Giulia ne parlarono. E a un tratto il discorso saltò sui Luzzi, che dalla mattina avevan le finestre chiuse, cosa insolita, e la signora non s’era fatta vedere, come aveva promesso, cosa di cui Giulia si maravigliava. Ma Alberto e Cambiasi si scambiarono un sorriso: - Certo qualcosa di grosso doveva esser accaduto - forse la visita della polizia - il Luzzi doveva essere a letto morto di doppia paura [...] E dalla quistione del lavoro ritornarono a quella dei disordini possibili. Alberto assicurava che non sarebbe seguito nulla. Cambiasi dubitava. - Se segue qualche cosa - osservò Moretti - io non lo credo... ma se segue qualche cosa, segue in piazza Statuto - E domandato il perché, spiegò, che la piazza Statuto era una posizione strategica, una piazza indicata, fatta apposta per le dimostrazioni, come quella che offriva alla folla, a un pericolo, sette vie di ritirata: i due corsi, i due viali lungo la via ferrata di Milano, stradone di Rivoli, via San Donato e via Cibrario. E a quelle parole Alberto vide di nuovo lo sguardo amoroso, inquieto di Ernesta, fisso nel suo. E appunto in quel momento si sentirono delle voci forti nel corso Beccaria, che fecero tendere un momento l’orecchio ai commensali. Ma le voci tacquero, e la conversazione ripigliò.
Intanto s’era fatto quasi notte: i lampioni accesi doravano i begli alberi della piazza, da cui veniva su il rumore delle carrozze, lo scalpitio dei cavalli e gli squilli di corno dei tranvai, e il solito ronzio umano della sera, ma più fitto del solito. Tanto che a un certo punto il Bianchini padre, chiedendo permesso, s’alzò subito da tavola e s’affacciò al terrazzino della piazza. Ma tornò subito, contrariato, come se avesse visto qualcosa di spiacevole: aveva visto i due Geri sul terrazzo vicino.
Non lo disse però.
- C’è - disse, mettendosi a sedere - un po’ più gente del solito... ma che hanno tutt’altro aspetto di dimostranti. Gente che gira per curiosità...
- Gli operai hanno buon senso -, osservò il Moretti centellinando il Barolo - L’operaio italiano, signori, è il più mite, il più ragionevole, il più saggio operaio d’Europa.
- D’altronde - soggiunse il Cambiasi - non c’è truppa fuori. Se ci fosse qualcosa per aria, ci sarebbe truppa.
Ma il ragazzo, che tornava in quel momento dal terrazzino del Corso, donde si vedeva più in giù nella piazza, disse che c’erano due squadre di carabinieri e di questurini, l’una a destra, l’altra a sinistra del monumento del Cenisio - voltati verso la stazione di Rivoli. E una guardia che aveva la tromba.
- Ma se non c’è assembramenti! - esclamò il Bianchini padre, inquieto - Eccoci alle solite provocazioni!
E non poté trattenersi d’andar a vedere dal terrazzino del Corso, malgrado i segni d’impazienza di sua moglie, che trovava quella una sconvenienza intollerabile. -
E tornò brontolando che volevano i disordini per forza, che, se fossero nati, questa volta sarebbe stato ben chiaro di chi era il torto. - Quando non c’è assembramenti - disse battendo il cucchiaino sulla tavola - non deve comparire la forza.
- Ma un assembramento c’è! - disse il ragazzo, tornando dal terrazzino della piazza, dove s’era accucciato per guardar fra i balaustri.
Tutti domandarono a una voce:
- Dove? Dov’è quest’assembramento?
- Tu vedi le ombre degli alberi! - gli disse il padre Bianchini, agitato.
- Ma non sono ombre, sono uomini; - nel giardinetto del Meridiano. Potete andar a vedere.
Allora, tagliando il dessert, s’alzarono tutti, fuorché le due vecchie signore, e andarono sul terrazzo grande. Un assembramento c’era infatti in quella specie di piazzetta rotonda, cinta d’una ringhiera di ferro e aperta da due lati, in mezzo alla quale sorge il piccolo obelisco del Meridiano di Parigi. Gli alberi impedivano di veder bene. Si vedeva una massa nera, tutta rivolta verso l’interno della piazza, - forse un centinaio di persone - tutti uomini - ma non compatti -, divisi in gruppi, ma che parevano ordinati, - come pattuglie - pronti ad uscire per direzioni diverse. Uno di questi gruppi, più folto, stava davanti all’apertura. La gente si cominciava ad ammassare tutt’intorno al giardino, come suole intorno alle bande musicali, ma a una certa distanza, e lasciando sgombro un largo tratto davanti all’entrata, dove il gruppo più folto era appostato, come un’avanguardia. Delle coppie di guardie di polizia e di carabinieri, separate l’une dalle altre, stavano sul marciapiede del giardino del monumento del Cenisio, a una ventina di passi dall’assembramento, in osservazione, come sentinelle avanzate delle due squadre poste in addietro.
- Vedi se le fanno le birbonate! - disse la vecchia madre Bianchini, sopravvenendo, a suo marito. - Ora batterai le mani.
- Oh! - esclamò lui, dimenticando a un tratto la sua parte di socialista - c’è forza bastante per metterli a partito!
Alberto s’inquietò. Eran gli anarchici, senz’alcun dubbio. E si ricordò la lettera della mattina. Nello stesso punto, voltandosi, vide gli occhi fissi di sua sorella, che stava accanto a lui.
E aveva appena rivolto di nuovo il viso verso la piazza, che vide i carabinieri e le guardie staccate, avanzarsi lentamente verso il giardinetto.
Nello stesso tempo la folla dai due lati si ritrasse, - una parte di quelli che eran nel giardino scavalcarono in fretta la ringhiera, in vari punti, e si diressero, convergendo risolutamente, verso la porta d’entrata, incontro alla forza.
Sul terrazzo nessuno fiatava più; anche nella folla della piazza il ronzio s’era fatto più basso, come un mormorio sordo, un fremito di curiosità e d’aspettazione.
Allora egli vide imminente uno spargimento di sangue, e una vertigine lo prese, mille pensieri in un punto, - il ricordo delle parole dette solennemente alla riunione per difendere il suo cuore e il suo coraggio - quelle voci che avevan risposto: - Al 1° Maggio lo aspettiamo - si faccia vedere ai fatti - Venga alla prova - il pensiero che l’autore della lettera era forse là - l’idea di non aver nessuna scusa essendo spettatore - quello che gli avrebbero rinfacciato in altre riunioni - e con tutto questo, un impulso del cuore e di tutta l’anima, in cui era tutta la forza d’un anno di lotta e d’entusiasmo - il dubbio che quei dimostranti potessero essere socialisti e non anarchici, la folle e santa speranza di scongiurare la lotta ed il sangue, - lo inebbriarono, lo accecarono, lo travolsero, come cento mani febbrili che lo traessero e lo spingessero, come cento voci ardenti che gli dicessero nell’orecchio: - il tuo posto è là - hai tanto parlato, opera - tenta, ardisci, mostrati - va!
E senza che alcuno se n’avvedesse corse nell’anticamera, afferrò il cappello, corse alla porta. Ma qui si sentì allacciato al collo da due braccia convulse, e la voce supplichevole di sua sorella implorante come in punto di morte, che gli disse sul viso: - Alberto! Alberto! Non andare! Per carità, Alberto! Non andare! Io chiamo! Io grido!
Ma era tardi. Non era più la sua volontà, ma una forza mille volte più forte che lo portava via. Egli la baciò, si svincolò, precipitò le scale, uscì nel portone. Nello stesso punto sentì un grido lontano: - Giù le armi! Noi siamo inermi! - e si sentì afferrare pel braccio da una mano di ferro. Era il Peroni, che gli gridò: - Dove va, signor Bianchini? Ma ha perso la testa? - E delle voci confuse sul capo suo, come se lo chiamassero dal terrazzo. Ma il suo destino lo portava. Si svincolò, prese la corsa, ruppe la folla che indietreggiava spaventata da uno scoppio di urli e di bestemmie, che annunciavano una colluttazione, e si trovò, troppo tardi!, nello spazio fra i due giardini, in mezzo a un parapiglia spaventoso, nel punto che risonavano i primi colpi di rivoltella. Egli vide come in un sogno dei lampi, delle coppie d’uomini che rotavano accapigliati come in una danza furiosa, altri isolati correnti qua e là a zig zag, dei visi bianchi e frenetici, delle faccie di morti urlanti, con le bocche squarciate, dei rantoli feroci - uno con la fronte rigata di sangue che gli passò vicino - due uomini stramazzare a terra fra cheppì e cappelli sparsi, e in mezzo a questo inferno, tutt’a un tratto, a dieci passi da sé, il profilo trasformato di Baldieri corrente, tenendo con una mano il pugno destro fracassato da una palla. E non ebbe tempo di gridar: - Baldieri! - che una percossa data da una mano invisibile, come una poderosa puntata di bastone nel petto, lo cacciò contro la ringhiera del giardino. Ma un’ondata di fuggenti lo cacciò di là, e fuggendo lui pure, senza saper dove, come in una folta nebbia - giù per una china precipitosa, si trovò, tra un’altra folla fuggente e urlante, davanti ai portici di casa sua, da dove, senza inciampo, con maraviglia, stramazzò a terra, battendo con le braccia tese sul lastrico del porticato, davanti alla porta.
Quasi nello stesso punto si sentì sollevato per le spalle e per la vita, e udì un grido d’angoscia disperato: - Alberto! Alberto! figliuol mio! - allora capì d’esser ferito, e mentre lo alzavano a sedere, premendosi la mano sul fianco, sentì il tepore del sangue.
Poi non vide più nulla, - si sentì sollevato da quattro braccia, - s’accorse che lo portavan su per una scala, dove altre grida risonavano, dei singhiozzi strazianti, che pareva venissero da lontano - degli usci sbattuti - delle voci che gridavano: - Il medico! - un rumore di passi precipitosi: e gli balenò il viso di Geri figlio nello spiraglio dell’uscio... Quando riaperse gli occhi, si vide deporre, con un senso di stupore, su un letto, nella camera di suo padre. Voltò gli occhi a destra, vide il viso di suo padre e dietro Giulia, guardò a sinistra, il Peroni; - davanti altri visi, mutati, come fantasmi, che non riconosceva. Nel punto stesso udì, nel corso, degli squilli di tromba, un trepestio di folla fuggente, come una mandra, e poi uno scalpitio di cavalli. Allora parve che capisse, e afferrò dalle due parti la mano del padre e la mano del Peroni, come chi s’afferra a due sostegni sentendosi mancare sotto la terra.
Dei singhiozzi disperati lo riscossero.
- Alberto! Oh Alberto mio! - gridò sua moglie prendendo il posto di suo padre, e stringendosi col ragazzo singhiozzante presso di lui, col viso nel viso. - Alberto mio! - ripeté con grido disperato - mi riconosci!
Sì, la riconosceva. Due lagrime gli colavan dagli occhi - e uno sguardo la fissò nel viso che diceva che capiva - che si sentiva morire - che dava un addio a tutti. E sul suo viso bianco si dipinse un dolore infinito. E tentò d’esprimerlo, ma non poté. Soltanto cercò con la mano il capo del ragazzo, ve la pose sopra, e gli disse:
- Giulio... ricordati... io t’ho insegnato...
Ma non poté proseguire e chiuse gli occhi.
Lo sforzo che fece il Peroni per scioglier la mano, per lasciar il posto al padre e alla madre, lo riscosse. Egli tenne quella mano ferma, e aprì gli occhi. Ma lo sguardo era già mutato. Lo fissò in volto al Peroni e ve lo tenne immobile per qualche tempo, con un’espressione di stupore, come se non lo conoscesse. Poi, come se quella faccia rozza di vecchio operaio, sulla quale gocciavano delle grosse lacrime, gli richiamasse lentamente alla mente dei ricordi confusi, i suoi occhi s’animarono un poco; senza staccar gli occhi da lui, parve riprendere un filo di idee; - che quella faccia diventasse al suo pensiero la faccia vivente dell’Idea per cui aveva sofferto e per cui moriva -; il suo viso si rischiarò, e gli disse con voce fioca ma in suono d’una profonda sicurezza: - Peroni... questo sarà! - poi sempre fissandolo, prese un’espressione di grande dolcezza, di profonda pietà, quasi un sorriso che non era più umano. E senza lasciare col braccio destro il capo di Giulia e del bimbo che teneva stretti, fece un atto con l’altro, come per tirare a sé qualche cosa. Il vecchio capì, e tutta l’anima sua indurita da quarant’anni di rudi fatiche e di trista rassegnazione, si sciolse in uno scoppio di pianto. Egli si chinò su Alberto e gli inchiodò la bocca sulla fronte.
- ... Sarà - ripeté Alberto sotto l’ultimo bacio, chiudendo gli occhi, - e le sue braccia ricaddero senza vita.