Primo maggio/Parte seconda/XI
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Combattuto così, da ogni parte, nel suo sentimento, Alberto vi si abbandonava con più ardore; si faceva anche più affabile e più familiare coi suoi operai come per compensarli, in cuor suo, di tutte le ripugnanze e di tutte le avversioni contro cui combatteva di continuo per essi, e si sentiva raddoppiato l’entusiasmo pel suo lavoro. Quando un nuovo impulso potente gli si venne ad aggiungere, la scoperta d’un’amica inaspettata e carissima, che portò come un soffio d’amore nella sua casa.
Dopo quella sera che sua sorella gli s’era buttata al collo, durante la sua disputa con il suocero, Alberto aveva notato in lei uno stato d’animo insolito, che ad ogni nuova discussione, cui ella fosse presente, intorno a quell’argomento, si tradiva in lampi degli occhi, in rossori improvvisi, in movimenti nervosi della persona, che pareva si sforzasse di reprimere, quasi con un senso di vergogna; ma non ci aveva badato gran fatto, credendo quello effetto di una sensitività malata di ragazza romantica, tocca dai suoi discorsi più nella fantasia che nel cuore. S’era invece operato in lei un mutamento profondo, che, non conoscendola intimamente, egli non poteva sospettare. Perché non era o non pareva bella, essa non era mai stata amata da sua madre; la quale disperava che potesse fare un matrimonio degno della casa, e si vergognava un poco di lei, come un’artista, d’un’opera d’arte mal riuscita. Fin da bambina ella s’era accorta di questa malevolenza della madre dagli sguardi scontenti, e qualche volta astiosi, con cui si vedeva spesso osservata da lei, da capo a piedi, come una persona sconosciuta e importuna. Sua madre l’aveva sempre fatta sgobbare ai lavori di casa per risparmiar fatica alle cameriere, le aveva sempre dato sulla voce in conversazione, come se non dicesse che sciocchezze o fanciullaggini, l’aveva sempre tenuta nell’ombra, quanto poteva, come se mostrandosi e parlando, avesse fatto sfigurar la famiglia. E sotto questa oppressione, ella era venuta su penosamente, diffidente e quasi vergognosa di sé, con un sentimento esagerato della sua imperfezione fisica, che la rendeva timida e impacciata e le toglieva quasi ogni grazia. E menava una vita triste, poiché anche la consolazione d’essere amata dal padre le era inamarita dai continui contrasti che, per cagion sua, nascevano tra sua madre e quel buon uomo; il quale non poteva tollerare ch’ella fosse aspreggiata e umiliata. Anche suo padre, d’altra parte, si mostrava più affettuoso col figliuolo, e questa aperta parzialità dei suoi parenti era stata cagione ch’ella non avesse mai amato il fratello, che, assorto nei suoi studi prima, e poi felice dei suoi trionfi, gli era parso sempre un poco egoista e troppo ambizioso. Alberto, dal canto suo, invanito alquanto fin dall’infanzia, e soddisfatto dei privilegi di cui godeva nella famiglia, non solo non s’era mai curato gran fatto della sorella; ma, vedendola triste e fredda con lui, e credendola per questo invidiosa, s’era fatto un falso concetto di lei, come d’un animo gretto e acrimonioso; col quale, anche negli anni della sua più affettuosa espansione, non aveva mai potuto entrare in domestichezza fraterna. Per qualche tempo, dopo terminate le scuole, essa aveva preso passione per le letture letterarie, e in specie per la poesia; ma non potendone ragionar mai, né con suo fratello che le metteva suggezione, né con suo padre che non ci aveva il capo, né con sua madre che le tagliava in bocca quei discorsi, come un’ostentazione ambiziosa disdicevole alla sua persona, aveva rinunziato anche a questo conforto. In seguito, s’era messa in capo di studiar da maestra; ma sua madre vi s’era opposta a spada tratta, come a un proposito che offendesse il decoro del casato. Da ultimo, aveva posto affetto alla cognata e al nipotino; ma non potendo star con loro che raramente, e di scappata, per il molto lavoro che le era imposto in casa da sua madre, nemmeno da quell’affetto poteva tirar la consolazione che le abbisognava. E s’era tornata a chiudere nella sua malinconia solitaria, qualche volta piangente, spesso inasprita, il più del tempo rassegnata, ma con un gran vuoto dell’anima, e come oppressa dalla sua vita arida e senza scopo. Eppure v’era in lei un’intelligenza aperta e viva, un cuor gentile e forte, qualche cosa di dolce e di profondo, che non si manifestava, in parte, nemmeno a lei stessa, per la mancanza d’un oggetto su cui si potesse espandere. Ora, tutto questo si scosse e rischiarò nell’anima sua al primo raggio della nuova idea che udì annunziare da suo fratello. V’era dunque fuori della religione e della famiglia, fuori dell’amore e dell’arte, un mondo a lei sconosciuto, un grande ordine di sentimenti e di idee, al quale anch’essa poteva sollevare il suo spirito, e in cui, fra tanti altri propositi vasti e generosi, primeggiava il concetto di dare alla donna la libertà, la dignità, l’indipendenza della vita, di far sì che il suo avvenire non dipendesse più soltanto dal suo viso e dalla sua borsa! Ella, che era un’oppressa della sua classe, che era umiliata e infelice, s’afferrò subito a quell’idea, sentì prontamente una simpatia profonda per la moltitudine sconosciuta degli oppressi e degli infelici, su cui non aveva mai fissato il pensiero. Prestò attenzione a ogni parola del fratello, entrò a poco a poco nell’animo suo, riconobbe d’averlo mal giudicato; nei suoi lunghi silenzi di ragazza trascurata, prese a volgere e a rivolgere nel suo cervello tenace di piemontese le nuove idee; salì più sovente da sua cognata, per sfogliare furtivamente i nuovi libri di suo fratello; se ne portò in casa parecchi, l’un dopo l’altro, e li lesse avidamente la notte. Uno di questi, un discorso appassionato e bello d’una signora socialista, diretto alle fanciulle borghesi, che dimostrava loro il bene immenso che potevan fare dedicandosi alla grande causa, e finiva con le parole: - Vieni dunque, o desiderata, nelle nostre file!... - la commosse fino al pianto. Un ribollimento nuovo di immagini, di affetti, di speranze le prese il cuore e la mente, e divenne più violento per lo sforzo ch’ella faceva di comprimerlo, per non provocar lo sdegno e il disprezzo di sua madre. Ma sentiva che a tutti avrebbe potuto celarlo, fuorché a suo fratello, che già la guardava con un occhio scrutatore, in cui ella vedeva un principio di simpatia, che le faceva battere il cuore. Se non che in lei la timidezza antica, in lui il sospetto di ingannarsi e la dissuetudine d’ogni familiarità cordiale con essa, li rimovevano entrambi da un’aperta spiegazione. Finalmente, questa avvenne. Salita un giorno in casa di lui, per non lasciar solo il ragazzo con le donne di servizio, essendo uscita la cognata, essa entrò nello studio e si mise a leggere delle pagine sparse del Lavoro dei fanciulli, che trovò sul tavolino. Mentre essa leggeva, Alberto, di ritorno dalla scuola, entrato un momento da sua madre, era attirato da lei nella quistione solita, con un’asprezza e un’imperiosità di linguaggio, che per poco non gli facevan perder la testa. Per non trascendere, la lasciò bruscamente, e salito in casa con un nodo nella gola, stanco alla fine, e sconsolato della dura guerra che sosteneva solo da vari giorni, entrò a rapidi passi nello studio, dove sorprese sua sorella. Questa, che stava leggendo del martirio dei ragazzi nelle zolfatare di Sicilia, una di quelle pagine potenti che escon dall’anima e vanno all’anima come un grido d’angoscia, balzò in piedi con un tremito e, voltandosi, presentò al fratello il viso pieno di lacrime, in cui splendeva la santa commozione della pietà, e a cui s’aggiunse in quel punto un raggio d’ammirazione e d’amore per chi l’aveva commossa. Alberto la guardò un momento stupito, si chinò a guardare i fogli, capì -, capì in un lampo tutta l’anima sua e tutta la sua vita -, e aperse le braccia, ed essa vi si gettò con un grido: - O fratello mio! - O mia Ernesta - rispose lui, e con un ardore che domandava perdono d’averla per vent’anni disconosciuta, le coperse il capo di carezze e di baci. Nel santo amore dell’umanità si sentirono fratelli per la prima volta.