Primo maggio/Parte seconda/VI
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Sua moglie non gli fece parola di quella visita; ma egli capì il pensiero che si nascondeva sotto quel silenzio. E lo vide riflesso nel sorriso a fior di labbra con cui la giovane cameriera gli annunziò la mattina dopo la visita del Calotti, il lavorante in lime mandatogli da Barra, dicendogli: - Signor professore, c’è un uomo. - Aveva essa pure, come la cameriera di sua madre, dei fumi di signoria, che la mettevano in urto continuo, come quell’altra, con la cuoca plebea; e nell’annunziar le visite, divideva l’umanità maschile in due categorie: uomini e signori.
Alberto non poté reprimere un’espressione d’ilarità alla vista del nuovo venuto. Questi si presentò con un sorriso d’intelligenza, e con un certo fare circospetto insieme e trionfante, come se fosse arrivato là deludendo la sorveglianza d’una catena di poliziotti appostati intorno alla casa. Era un uomo sulla quarantina, basso di statura, con una grossa testa, su cui facevan contrasto la barbetta rada e una folta e disordinata capigliatura rossastra; e aveva collo, torace, mani, bocca, denti, tutto enorme; e un viso di buon diavolo, nondimeno, un riso grasso e cordiale, un’aria di corcontento, a cui aggiungevano qualcosa di comico un cravattone azzurro annodato con intenzione artistica e una grande giacchetta di velluto verdognolo stinto, tagliata a sacco, che gli dava quasi ai ginocchi. Era pulito, s’era fatto la barba, mandava un leggiero odore di pomata. E prese subito a parlar di sé, prima che Alberto lo interrogasse, come se questi l’avesse cercato per sapere i fatti suoi e le sue opinioni. E in fatti, dopo un’ora di conversazione, il Bianchini lo conobbe come se l’avesse praticato da anni. Aveva moglie e figliuoli. Da giovane era stato a lavorare a Marsiglia, dove aveva imparato il francese, e "dischiuso l’intelletto" alle nuove idee. Era socialista appassionato, e aveva fatto degli studi in proposito. Non possedeva che quattro o cinque libri della materia, "ma buoni", che leggeva assiduamente, postillandoli su dei foglietti intramezzati alle pagine; in specie il Socialisme intégral del Malon e vari fascicoli dell’Almanach des ouvriers. Era un credente incrollabile. Non dubitava nemmen per idea di non aver da assistere egli stesso al gran mutamento, preceduto da un’evoluzione precipitosa alla fin del secolo o sul principio del secolo futuro. Gli "elementi" gli parevan già quasi preparati e i tempi pressoché maturi. Ogni nuovo sodalizio o giornale socialista che sorgesse, ogni nuova, anche parziale conversione al socialismo d’una persona nota, era per lui un indizio gravissimo della imminenza degli avvenimenti aspettati, e parlava del governo e dello stato sociale presente con un lepido sorriso canzonatorio, ripetendo certe frasi predilette, rimastegli in capo dalle letture: "il cadavere sociale... lo sfacelo del sistema capitalistico... l’agonia del mondo borghese". Si dava gran moto per la propaganda; aveva sempre le tasche piene di opuscoli e di gazzette, che regalava o rivendeva senza interesse ai suoi compagni della Lega metallurgica; promoveva collette a favore di operai rimasti senza lavoro, per effetto delle "persecuzioni poliziesche"; cercava lui il locale e raccoglieva degli uditori per ogni operaio che volesse tenere una conferenza; e non solo, conosceva tutte le teste forti e calde del partito, con alcune delle quali faceva ufficio di moderatore, ma seguiva il cammino dell’Idea in una gran parte delle cento e più Società operaie di Torino, e teneva dietro con molta cura al movimento socialista di Lombardia, dell’Emilia e della Sicilia, di cui parlava fregandosi le mani e strizzando l’occhio, con una soddisfazione inesprimibile. Andava facendo da un pezzo dei risparmi, dei veri sacrifici per poter andare al prossimo gran congresso operaio di Milano, e il suo sogno dorato era d’intervenire anche a quello di Bruxelles, poiché aveva una profonda ammirazione per i socialisti belgi, uomini d’azione pratica, coscienziosi e pazienti, nei quali era incarnato "lo spirito organizzatore" della loro razza.. Ma poco poteva rammucchiare poiché il lavoro di propaganda gli mungeva la borsa. La propaganda! Egli era nato fatto per questo. I giorni di festa s’andava a piantare in un’osteria d’un sobborgo, con qualche fedele compagno, col quale prendeva a discutere ad alta voce, tanto per farsi sentire e attrarre nella conversazione i vicini, e allora esponeva le sue idee, distribuiva i giornali e pagava da bere, quando poteva. Per mettersi in vena egli beveva il suo litro -, uno, non di più, - quanto occorreva per stimolare il cervello e colorir la parola. E usava un modo di propaganda particolare, satirico-faceto, somigliante a quello del russo Demetrio Clemens, che faceva smascellar dalle risa i vecchi contadini, lasciando però confitto nelle loro teste dure un pensiero grave, che nessuno sconficcava più. E ne diede qualche saggio ad Alberto; al quale non riuscì, per una buona mezz’ora, di condurlo all’argomento del lavoro dei ragazzi, che più gli premeva. Egli fu maravigliato, sopraffatto da quella loquacità infaticabile, confidente e serena, da quella beata sicurezza d’esser nel vero e di vederlo trionfare da un giorno all’altro. Dategli finalmente le notizie che desiderava, quegli ricascò irresistibilmente sul socialismo, domandandogli il permesso di accender la pipa, che si mise subito ai denti, con un sorriso di voluttà. E, interrogato, mostrò d’avere un concetto abbastanza chiaro della dottrina collettivista, di cui diceva d’aver fatto un riassunto, scritto a stampatello, per suo consumo; ma non stava fisso stecchito in quell’idea. L’essenziale, per lui, era di "battere in breccia il sistema vigente"; poi, tutto si sarebbe aggiustato in qualche modo; e si faceva forte di questo paragone, letto in un libro, che citava sempre ai suoi catechizzati: - Io butto in aria questa pietra (la pietra era la società presente): non posso prevedere per l’appunto quale posizione prenderà cadendo; ma sono ben certo che prenderà una posizione stabile sulla superficie della terra. - Per intanto, quello che premeva innanzi a ogni cosa era "l’illuminazione" delle masse operaie; "far la rivoluzione nelle teste", diceva; senza di che, "vano è sperare". La vittoria del socialismo doveva essere la vittoria della ragione. Si sarebbe finito con persuader tutti, ragionandoli. Ed egli ragionava perpetuamente, anche in famiglia diceva: - Io dico a mia moglie: senti questo ragionamento, cara mia... Io dico ai miei figliuoli: - Ragazzi; seguite il filo delle mie idee... - Cercava persin di persuadere il figliuolo del suo padrone di fabbrica, col quale, a voce bassa e all’amichevole, faceva delle lunghe discussioni socialistiche, che troncavano tutti e due con un est! - d’avvertimento reciproco, quando il gran Caimacan s’avvicinava. Era, insomma, per i mezzi pacifici, non meno per temperamento che per convinzione. Gli si vedeva sul viso l’indole d’un uomo benevolo, che non avrebbe mai torto un capello a nessuno, e che univa alla mitezza una grande semplicità, benché si desse l’aria d’una volpe sopraffina. Era questa, si capiva, una sua carissima illusione: si credeva la bestia nera dell’autorità, un uomo pericoloso e sospetto, tenuto d’occhio, braccato dalla Polizia, che egli ingannava, sviava, burlava con mille astuzie di congiurato maestro. E vedeva spie da per tutto, affermava che c’era una lega d’industriali e di signoroni, che avevano assoldato un corpo di spie nella classe operaia, ch’egli conosceva in parte e in parte sospettava, e le faceva invigilare dai suoi compagni di fede. Ma non aveva odi né rancori né contro la polizia che era suo zimbello, né contro la borghesia, per la quale sentiva una compassione burlesca, che arrivava quasi alla simpatia, come s’egli le fosse grato del godimento continuo che essa gli procurava con lo spettacolo della tisi galoppante di cui tossiva secco e consumava a occhiate, come un candelotto di sego. - Ah! signor professore! - concluse allegramente -, siamo nati a tempo! Quello che udremo noi, nessuno al mondo l’ha visto, e si vedrà una volta sola!
Quand’ebbe finito la sua tirata, salutò Alberto con espansione fraterna, come se fosse inteso che quella loro "intervista", com’ei la chiamava, dovesse essere il principio d’una intima amicizia e d’una fervida azione comune. Gli scrisse l’indirizzo di casa sua, si rallegrò con lui dell’adesione al partito, gli promise di divulgare l’opuscolo che stava scrivendo, gli disse ancora di sull’uscio, con accento gioioso: - Si galoppa! Si galoppa! - e lo lasciò con gli orecchi intronati, sorridente, rallegrato della sua visita, come della conoscenza d’uno dei più amabili originali in cui si fosse intoppato da che era al mondo.
Era appena uscito, quando entrò nello studio la sua signora, con l’aria di venir a mettere a posto un libro. Egli s’aspettava un rimprovero; ma quella non parlò. Solamente guardò gli sputi che erano sul pavimento alla veneziana al posto dov’era stato l’operaio, osservò una traccia che aveva lasciato sul tappeto verde con le mani nere di limatura di carbone, spalancò una finestra per far uscire il puzzo della pipa. Poi domandò dolcemente: - Non ne deve venir altri per oggi?
- Nessun altro, per oggi -, rispose lui con un sorriso. E con uno sguardo sorridente l’accompagnò, mentre essa usciva, senza dir altro.
L’attacco era rimandato a un altro giorno.