Parte seconda - V

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Ma Alberto si consolò facilmente delle delusioni dell’amicizia: era tutto immerso nel suo lavoro, da cui la moglie, tranquilla pel momento, non lo stornava, aveva ricevuto il consenso insperato del Baldieri a venir da lui, sentiva tutte le sue facoltà come rinvigorite da una seconda giovinezza, e aspettava la visita dei tre operai con l’allegra impazienza con cui altre volte le nuove opere dei suoi autori prediletti, non prevedendo neppure alla lontana qual vento di tempesta fosse per entrar con loro nella sua casa, e di che stretto nodo si dovessero legar tutti e tre alla sua vita.

Venne pel primo il muratore Peroni, il sabato invece della domenica, avendo lasciato il lavoro a cagion della pioggia. Alberto lo fece entrare nel suo studio e sedere al tavolino, davanti a sé. Egli girò uno sguardo lento su tutti quei libri e poi chinò gli occhi sul tappeto verde, donde non li rimosse più per un pezzo, come se facesse una meditazione sovra ogni più piccolo oggetto. Da quando, anni prima, s’era abboccato con lui, per la sua Storia d’una casa, Alberto non l’aveva più visto che di sfuggita: lo trovò invecchiato e col viso anche più chiuso e cupo che allora. Egli rispose alle sue domande intorno al lavoro dei ragazzi, a frasi spezzate e a rilento, come se, nel parlare, masticasse qualcosa che non poteva andar giù. S’arrestava a un tratto, quando non riusciva a esprimere il proprio pensiero, come chi rinunzia a fare uno sforzo che stima inutile, e guardava fisso la penna con cui Alberto prendeva degli appunti, facendo girare adagio adagio un calcafogli di cristallo con la sua grossa mano scoriata dalla calce e di pelle spessissima, in cui, dai movimenti, si riconosceva il tatto scemato. Dal lavoro dei ragazzi il discorso passò a poco a poco a quello degli uomini, e alle condizioni presenti del mestiere, e allora, parlando dei fatti propri, egli sciolse un poco la lingua, ma non mettendo, da principio, alcun accento di lagnanza nelle sue parole, come se parlasse degli affari d’un altro.

Dopo le recenti "disgrazie" delle banche, i salari avevano avuto un tracollo: la media era discesa a tre lire. Ma egli si trovava in condizioni più gravi: aveva sessantadue anni e, benché robusto, cominciava a dar giù: ai lavori delle nuove fabbricazioni, più faticosi, per la costruzione dei ponti e per il trasporto dei materiali pesanti, non reggeva più come prima; le giornate di dieci ore o di dieci ore e mezzo lo spossavano; il sole ardente, il vento, il polverio della calce gli davano una sete intollerabile, e dei gastricismi; a lavorare un’ora sotto la pioggia, si buscava dei dolori. Dove lavorava allora, l’"impresa" pretendeva che ogni operaio facesse sette metri cubi al giorno di muratura, e, per stimolare i meno forti aveva formato una quadriglia di operai giovani e abili, ai quali dava in più cinquanta centesimi. Egli faceva tutto il suo possibile; ma non poteva più stare a paro con quelli, il cui esempio gli era continuamente buttato in faccia. Prevedeva che sarebbe stato presto mandato via. Da due anni, per tutto dove andava, dopo due settimane, un mese, per quanto si stroncasse al lavoro, lo licenziavano: fra un altro anno tutt’al più, si sarebbe dovuto ridurre a fare il "rappezzatore" con la perdita d’un quinto del guadagno. L’inverno passato, intanto, non avendo trovato lavoro da muratore, s’era rifatto alla meglio lavorando da carbonaio in una fabbrica di gas; ma ci voleva altro. Aveva un figliuolo di dieci anni che non portava ancora un soldo in famiglia; la ragazza, lavorando dieci ore al giorno, a cottimo, in una fabbrica di polsini, non pigliava che dieci soldi, appena il pane; l’altro figliuolo muratore, ammogliato e con bimbi, ne aveva a stento per sé; e sua moglie, più vecchia di lui, era un cerotto. Le cose andavano alla peggio. Egli non apparteneva nemmen più alla Società di mutuo soccorso dei muratori, non avendo più potuto, da due anni, pagare quel po’ di quota mensile; dimodoché, quand’era infermo, non gli davan più i trenta soldi. Aveva un bel ristringersi da tutte le parti, privarsi del bicchierino d’acquavite e del tabacco, vestir rappezzato, e rinunziare al mezzo litro la domenica: non bastava. E a questo punto, nella sua faccia diventata più cupa, spuntò un sorriso ironico. Dopo quarantacinque anni di lavoro, bell’avvenire che aveva davanti! Altri otto o dieci anni di fatiche e di stenti, se andava bene! e poi avrebbe venduto zolfanelli ai canti delle strade, e sarebbe finito all’ospedale, o all’ospizio, se aveva fortuna.

Alberto, che lo aveva ascoltato attentamente, si passò una mano sulla fronte, e parlando più a se stesso che a lui, disse: - Ah, questo muterà!...

Il Peroni lo guardò in viso; poi scosse il capo, come per dire: - Ah! capisco! -, e rifissati gli occhi sul calcafogli, fece un atto della spalla, di cui spiegò il senso poco dopo, a parole strascicate. Già, c’erano i socialisti, ora. Una consolazione come un’altra... come quella d’aspettare il terno. Ma lui non ci s’era mai lasciato pigliare. Erano idee buone per i giovanotti; sogni; nient’altro. Egli non leggeva nemmen più il Muratore; e d’altra parte, non avendo fatte che le due prime elementari, lo capiva male, ci "perdeva il filo" a ogni passo, e si affaticava il cervello. Ne aveva ben conosciuti degli operai imbriacati di quella idea. Che cosa ci avevan guadagnato? Chiamati ogni momento alla Questura, perquisiti a casa, di notte, arrestati una o più volte; poi tenuti d’occhio dall’autorità, spieggiati dai compagni, presi prima in diffidenza dai padroni, poi licenziati, rifiutati di qua e di là, ridotti alla miseria, con la discordia e lo spavento in famiglia, avevan finito con perder la forza e il coraggio, e dovuto chinar la testa e domandar grazia. E allora, a che pro? Minchionerie. Era da pazzi sperare di mutar le cose. La baracca era troppo ben piantata.

- No, Peroni -, disse Alberto avete torto. Se tutti facessero come voi, se nessuno avesse fede in un miglioramento, che cosa ne seguirebbe? Morirebbero i vostri giornali, si scioglierebbero le vostre società, non s’alzerebbe più una voce per sostenere i vostri diritti, rimarrebbe la mano libera a tutti coloro che abusano del vostro lavoro e di voi, e peggiorerebbero ancora le vostre condizioni. - Certo, egli non gli consigliava di cacciarsi tra i primi e di compromettersi; ma di assecondare almeno l’agitazione, e di interrarvisi, non fosse che per incoraggiare i giovani e fare atto di concordia.

Il muratore scrollò il capo in atto ostinato, e con certe frasi vaghe ed informi, fece comprendere ad Alberto il proprio pensiero. In fondo, egli era confusamente persuaso della immutabilità fatale dell’ordinamento sociale presente. Si capiva che l’idea d’una trasformazione della società, dopo averla vagheggiata forse in altri tempi, egli aveva finito con respingerla per l’impossibilità riconosciuta di contenerla dentro al suo cervello atrofizzato dal disuso del pensiero. Quell’idea, che alla mente sua rivestiva una forma semplicissima: "non più padroni, le fabbriche e la terra di tutti", gli faceva l’effetto delle favole intese da ragazzo, dei paesi coi monti di formaggio e i fiumi di latte e di vino: gli appariva un’immaginazione strampalata e puerile. Trapelava nondimeno dall’animo suo un rancore sordo e profondo; ma non contro la società: contro la legge inesorabile che la reggeva, contro un’ingiustizia odiosa a cui non c’era riparo. E ragionando a modo suo su questo punto, tutt’a un tratto, senza legare in alcun modo le due idee, fece uno sfogo, che Alberto non s’attendeva, contro i pensionati del Governo, in maniera da far comprendere che quello era un suo cruccio fisso, un pensiero piantato nel suo cervello come un chiodo. Sì, quello che gli faceva male, mentre stava lavorando a una casa in corso Umberto, era di veder passare all’ombra dei viali degli uomini della sua età, vestiti bene, ancora sani e robusti, col sigaro in bocca, con la gazzetta in mano, con un beato viso di fannulloni, che egli sapeva essere dei pensionati dello Stato. Eppure, alla loro età, il lavoro di scrivere l’avrebbero ancora potuto fare! Perché erano mantenuti a spese di tutti? Avevan già lavorato! Ma lui pure aveva lavorato; e diceva che, a mettere insieme tutto il lavoro che aveva fatto in tanti anni intorno a case, a strade, a chiaviche, a ponti, si poteva vantare d’aver fabbricato egli solo un villaggio intero.

Ma questa idea era come solitaria nella sua mente, e dopo averla espressa, non sapendo trarne una conclusione, tacque.

Ripigliò poco dopo, con aria pensierosa, fissando il calamaio: - Più s’invecchia, peggio si mangia... dopo sei giorni d’un lavoro da cane, la domenica, girar per Torino senza un soldo in tasca, bella figura che fa un uomo! Non levarsi mai un gusto, mai un bicchiere di vin buono... E passar per briachi! - soggiunse con un sorriso amaro. La domenica scorsa, appunto, dopo essersi dissetato alla fontana di piazza dello Statuto, passando per via Garibaldi all’ora della passeggiata, tutto solo e imbronciato, gli eran sfuggite delle parole, nel discorrer fra sé: - Porca vita!... No, così non può durare! - e che so altro; e la gente si voltava e si scansava, credendolo briaco; un signore, anzi, aveva detto forte: - Quello lì ha già il suo conto! - E sorrise di nuovo, guardando Alberto; il quale, con suo rammarico, non fu in tempo a nascondere un’espressione di tristezza compassionevole, mista a un senso d’umiliazione di non aver nulla da dirgli di consolante. Ma non parve che egli la notasse. Si vedeva un animo in cui la durezza della vita aveva distrutto la facoltà di percezione di certi sentimenti, come il lavoro gli aveva ammazzato il tatto nelle mani.

Per uscire da quel silenzio, Alberto gli domandò se avesse mai pensato a andar a lavorare altrove.

Il Peroni fece un gesto. Come non ci avrebbe pensato? Ma altro è pensare, altro è potere. Un mese addietro, per esempio, avevan fatto delle richieste da Genova; ma l’impresa di là non voleva anticipare i denari per il viaggio. - E poi - disse - chi è vecchio qui è vecchio là - oramai gli toccava a "crepare" dov’era vissuto. Ma! Non era stato punto fortunato. Aveva fatto male a venire a Torino, venticinque anni prima: doveva seguitare a lavorar in campagna, come nella sua gioventù, in val di Sesia. In campagna, soggiunse - la povertà pesa meno. In città... si mangia troppo tossico.

- Che volete dire? - domandò Alberto.

- Cosa voglio dire! - rispose il Peroni, scotendo il capo, con un sorriso triste. - Ma si capisce. A chi mangia polenta non fa piacere sentir l’odore d’arrosto, non è vero? Veda un po’ me in questo cortile. Bella posizione! Mi dovrei rimpiattare come un ragno. Basta; a cosa serve? E poi... Non importa. Ma ci son certe ore!

Stette un minuto in silenzio; poi, come qualche cosa scattasse ad un tempo nel suo cervello e nel suo cuore, prese l’andare tutt’a un tratto e versò l’animo suo in una piena di rozza eloquenza, nella quale però era l’ordine che serba anche la gente incolta quando esprime dei pensieri voltati e rivoltati a lungo nella mente.

Lì, in quella casa, di sull’uscio della sua misera camera, posta in un piccolo braccio dell’edifizio che chiudeva il cortile, egli vedeva, alzando gli occhi, fra le tende di seta delle finestre, pareti coperte di ricche tappezzerie, di quadri dalle cornici d’oro e di mobili luccicanti; vedeva pelli e tappeti distesi sui terrazzini, polli e tacchini appesi ai muri, cameriere ben messe e ben pasciute, signori che fumavano il sigaro, signore eleganti che leggevano dei bei libri in mezzo ai vasi di fiori, bambini che si baloccavano con dei giocattoli costosi; sentiva sturar le bottiglie, suonare i pianoforti, scoppiar le risa di tavolate di convitati, tintinnare i cristalli e le maioliche nelle grasse cucine, da cui gli arrivava alle nari il profumo del caffè e delle salse. C’erano i padroni di casa, il Bianchini, il Moretti, l’impresario Ferreri, un colonnello in riposo, degli impiegati, dei possidenti, un medico, degli artisti, e tutti stavan meglio di lui, benché nessuno lavorasse e avesse lavorato quanto lui; il più povero di tutti era lui, che aveva fatto per cinque anni il soldato, faticato per quasi mezzo secolo, rischiato cento volte la vita, logorato la salute e affrettato la vecchiaia, vivendo sempre onesto quanto il più onesto di loro, e con più merito, e compiendo un lavoro che la coscienza gli diceva non meno utile alla società di quello che quei signori facevano. Perché egli stava tanto al di sotto anche del più modesto di loro? Perché era egli il solo che dovesse lavorar dieci ore il giorno per campar di stenti? Perché egli era il più rozzo, il più ignorante, il peggio nutrito, il peggio vestito, il più disprezzato di tutti? Il pensiero della sua povertà gli era continuamente ravvivato da mille confronti penosi e umilianti; il sentimento di quella ingiustizia gli era ridestato e irritato ogni momento da mille suoni, odori, atti, aspetti e parole; e da quel pensiero non aveva distrazione alcuna, né di ricordi lieti della vita passata, né di letture gradevoli, né di allegre amicizie, e neppure, causa la sua ignoranza, di quel conforto d’altri operai poveri, ma colti, che attingevano in libri e giornali la speranza d’un miglioramento prossimo e lontano delle condizioni loro o dei loro figli. Egli non aveva nulla, non contava nulla, era l’ultimo, la spazzatura umana della casa, una mezza bestia, uno strumento ambulante che usciva di là all’alba e tornava a notte, affranto, sporco e istupidito, a mangiare un po’ di farina cotta, e così avrebbe continuato a fare, senza mutamento alcuno, senza una consolazione, senza un piacere, fin che si fosse spezzato!

Dette, in altri termini, queste cose, interpretando il silenzio pensieroso di Alberto come un congedo, s’alzò e disse semplicemente: - Ho da andar via?

L’umiltà di quella domanda fece ad Alberto altrettanta pena che tutto il discorso che aveva inteso. E gli domandò subito, con un accento che veniva dal cuore: - Posso fare qualche cosa per voi?

Il muratore lo guardò, con una espressione in cui si confondevano la gratitudine e un senso di onesta dignità, quasi per dire: - E che può far lei per me? Non potendomi dar del lavoro, non può farmi altro che l’elemosina. - Rispose soltanto: - La ringrazio - Tutta la gran quistione della carità, come rimedio ai mali sociali, era in quella domanda e in quella risposta.

Sul punto d’andarsene, il muratore tornò a girare uno sguardo lento sulle migliaia di libri che coprivano le pareti, e Alberto, ritto a due passi da lui, vide per qualche momento la sua rozza testa grigia, dalla fronte senza pensiero e dal labbro cascante per l’abbrutimento della fatica, disegnarsi di profilo sulle belle legature bianche e dorate d’una grande edizione dei poeti e degli storici italiani, che riempiva dietro di lui un’alta libreria a vetri; e pensando che di tutto quel mondo di idee quella povera mente ignorava perfin l’esistenza, che non uno degli infiniti diletti e insegnamenti ch’egli v’aveva attinti, a lui era mai stato né poteva essere mai consentito, n’ebbe il sentimento di pietà che desterebbe un cieco immobile in mezzo a una pinacoteca di capolavori.

- Ce n’ha dei libri qui! - esclamò il muratore.

Quelle parole gli fecero mutare pensiero.

- Oh! - gli avrebbe voluto rispondere - se sapeste quante futilità, quante menzogne, quante sentenze ingiuste ed infami vi sono raccolte! - Ma non l’avrebbe compreso. Gli disse invece che si sarebbero visti altre volte, che gli avrebbe dato il giornale il Muratore, perché se lo facesse leggere la sera dalla figliuola, e che desiderava che egli si occupasse un poco degli interessi della sua classe - Se non vedrete voi dei miglioramenti - concluse - li vedranno i vostri figliuoli, o i vostri nipoti: è certo come la luce del sole. Ebbene, voi dovete sperare per loro, e non disanimarli col vostro esempio. In altri paesi le cose si vanno mutando: perché non dovrebbe seguir lo stesso nel nostro?

Il muratore lo guardò con un vago sorriso di compatimento, e quasi di stupore per la sua ingenuità; poi dondolò il capo, e stringendogli la mano che ei gli porgeva, brontolò, quasi parlando a se stesso: - Lei ha buon cuore... Non serve a niente; ma... è meglio che niente.

E se n’andò, voltandogli la sua lunga schiena ricurva, chiazzata di calce e fradicia di pioggia.

Alberto rientrò nel suo studio, pensando con tristezza che migliaia e migliaia di lavoratori dovevano essere, come quello, materia morta alla grande idea, e gran parte dei loro figli, non diversi da loro; ma più forte di tal pensiero era la pietà, il senso di simpatia quasi doloroso, e l’ardore d’adoperarsi a vantaggio suo, e dei suoi simili, che quell’uomo gli aveva destato nel cuore. E con questo sentimento entrò nella stanza accanto, dove trovò sua moglie e sua madre, sedute sul sofà, che discorrevano a bassa voce.

Sua madre lo salutò e, rizzando il busto e la testa, gli disse con le labbra strette e due scintille negli occhi: - Hai ricevuto una visita.

Egli sentì l’ironia, e rispose: - Sì - senz’altro.

- E... ritornerà? - domandò la madre, spianandosi una piega del vestito.

- L’ho pregato di tornare.

- Ah!... E ne verranno degli altri? - Spero -, rispose Alberto, e rientrò nel suo studio.