Primo maggio/Parte seconda/III

Parte seconda - III

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Si mise all’opera subito, e stabilì di incominciare la prossima domenica a raccoglier le informazioni verbali, interrogando il muratore Muroni; poi avrebbe parlato con l’amico del Barra; poi col Baldieri. E premendogli questi più di tutti, anche per la curiosità che il suo carattere e le sue idee gl’ispiravano, andò quella sera stessa dal Cambiasi, per pregarlo di fargli avere un abboccamento con lui.

Trovò in casa dell’amico una dozzina di convitati, i quali avevan finito allora di sparecchiare uno dei succulenti pranzi che il Cambiasi imbandiva ogni quindici giorni a un numero sempre incerto d’amici, poiché egli faceva gli inviti e ne scordava, e fissava spesso a parecchi delle ore diverse. Il piccolo salotto, in cui la disarmonia dei mobili e dei colori e l’arruffio delle chincaglie scheggiate e sbrecciate dai ragazzi raffiguravano il tenor di vita della famiglia, era affollato. Ma ad Alberto, tutto acceso della sua idea, non spiacque quell’affollamento inaspettato, che in altra occasione gli sarebbe riuscito molesto. Appena entrato, però, s’accorse da più d’un viso e da un leggiero mormorio che, durante il pranzo, dovevano aver parlato dei fatti suoi, e di quali fatti s’immaginava. C’eran due ingegneri, un impresario costruttore, degli impiegati in riposo ch’egli aveva trovato là qualche volta; degli sconosciuti, quasi tutti panciuti e brizzolati, e tre giovani signore; oltre alla numerosa progenitura del padron di casa, di cui spuntava un musino roseo dietro ogni spalliera di seggiolone. Vedendo a vari convitati degli occhi lustri e delle guancie scarlatte che tradivano il prurito d’una discussione, Alberto si tenne preparato a un assalto. E questo gli fu dato quasi subito, in forma di scherzo, poi, a poco a poco, seriamente; ma con una così manifesta ignoranza degli elementi della quistione, un così ingenuo sfoggio dei più vieti luoghi comuni, che egli seguitò a parar le botte a colpi d’arguzia, senza perdere un momento il suo buon umore. Quando gli assalitori cominciavano a eccitarsi, capitò la visita dei coniugi Luzzi, e la comparsa della piccola signora sfavillante di vita, chiusa in un fresco vestito avana che dava al suo visetto bruno, segnato d’un neo, una grazia adorabile, troncò di netto la discussione.

Alberto espose allora al Cambiasi, a quattr’occhi, l’idea del suo lavoro, e gli disse il suo desiderio di parlar col Baldieri. - Con l’anarchico Baldieri? - esclamò il Cambiasi, dando un passo indietro; e soggiunse in tuono d’avvertimento amichevole: - Alberto, bada!... - La cosa, d’altra parte, non era così facile: il Baldieri parlava a cuore libero con lui perché (e glie lo diceva) era un borghese logico e sincero, ossia un aperto nemico; ma con un borghese socialista, con un rivoluzionario tartufo, com’egli li chiamava, razza anche più odiosa a lui dei reazionari arrabbiati, doveva essere un altro paio di maniche: c’era il rischio di pigliarsi un "no" tanto fatto. Nondimeno, insistendo Alberto, egli promise che gli avrebbe parlato. E gli diede qualche informazione: era un operaio colto, aveva fatto il ginnasio inferiore, pareva un ufficiale in borghese; ma, si tenesse per avvisato! non doveva aspettarsi dei complimenti da lui. Poi gli disse piano, accennando alla compagnia: - Se la riattaccano, tira avanti a celiare, te ne prego.

La riattaccò subito, infatti, un vecchietto arcigno, invalido decorato di non so qual ministero, di conosciuta avarizia; il quale domandò bruscamente ad Alberto, agitando una mano per aria: - Ma, insomma, a quale delle scuole del socialismo appartiene lei, si può sapere?

Alberto rispose: - A che serve dire di che scuola sono a chi non ne accetta nessuna? E a che pro parlar di rimedi sociali con chi crede i mali irreparabili o nega che ci siano?

- Noi non neghiamo i mali -, rispose l’altro - ma vogliamo ripararvi con la carità!

Alberto si ricordò in quel punto che, in una sottoscrizione pubblica dello scorso inverno, quel signore aveva mandato a un giornale due lire per sé e cinquanta centesimi per ciascun membro della sua famiglia, tutti firmati in colonna, in modo ch’era riuscito a far stampare sette volte il suo nome con uno scudo: la tariffa, presso a poco, delle inserzioni. Con la carità? - gli disse allora - faccia...; ma non si rovini.

La stoccata era forte: le signore non poterono rattenere un sorriso; la Luzzi si coperse il viso col ventaglio.

Uno sconosciuto, balbuziente, coperse la ritirata del vecchietto, ripetendo la sua domanda: - Dica dunque: è collettivista? è comunista? È per l’eguaglianza assoluta, per un ordinamento sociale che metterebbe alla pari Dante Alighieri e un cretino?

- E perché mai -, ribatté Alberto, facendo un viso ingenuo -, lei respingerebbe un tale ordinamento?

Si udirono scricchiolare alcune seggiole; ma il colpito non sentì il colpo alla prima. Vedendo però sorridere la signora Luzzi, sospettò qualcosa, e disse piccato: - Lei fa il socialista con un secondo fine.

Alberto lo guardò con stupore, e domandò sorridendo: - Per aver degli stipendi e delle decorazioni?

Quegli rimase un po’ incerto; poi rispose: - Per farsi elegger deputato!

Alberto diede una risata. - Ma, caro signore, trovi un modo più sensato di darmi dell’asino. Sarebbe come andarmi a imbarcar a Genova per arrivar più presto a Venezia!

Lo sconosciuto volle rispondere; ma il vecchio impiegato gli coprì la voce, dicendo aspramente: - Non credo che si possano professar sul serio quelle idee. Un borghese socialista non è che un negro incipriato!

- Questa immagine non è sua! - esclamò Alberto.

- Oh! signor cavaliere -, rincalzò la Luzzi - lei, dunque, riconosce d’appartenere a una razza inferiore!

Il motto fece ridere. Alberto si voltò a guardarla, e disse: - Ah! Ecco la mia alleata!

Ma varie voci lo assalirono tutte insieme, domandandogli perché, se era socialista, non cominciasse a spartire l’aver suo fra chi non n’aveva.

- Oh bella -, rispose Alberto -, per due ragioni semplicissime: prima perché, se mi riducessi povero, perderei la mia indipendenza, e dovendo chieder lavoro e danaro alla borghesia, non sarei più libero di manifestare le mie idee, e poi perché, com’è costituita la società, non potendo mio figlio guadagnarsi da vivere prima dei trent’anni, o morirebbe di fame, o dovrebbe lasciar gli studi e mettersi a fare un mestiere.

- Benone! - uscì a dire l’impresario, con un’aria trionfale - Ma se è socialista, perché non mette suo figlio a fare un mestiere?

- Perché non ho diritto di forzare la sua volontà, di toglierlo violentemente dalla classe in cui l’ho posto; perché, se anche lo facessi col suo consenso, egli sarebbe, per effetto delle idee che oggi regnano, disprezzato e creduto un pazzo tanto dalla classe da cui uscirebbe quanto da quella in cui vorrebbe entrare.

- Magre ragioni! - rispose un vecchio maggiore pensionato, amico del Luzzi -. Chi è persuaso d’un’idea, deve tutto sacrificarle! Lei dovrebbe essere il primo a dare l’esempio!

A costui rispose la signora Luzzi. - Se è così, signor maggiore, lei che vuol liberare Trieste dall’Austria, perché non prende il fucile e non parte il primo per la frontiera?

Il maggiore si rivoltò, dicendo che il paragone non calzava; ma la signora Luzzi ribatté: E poi, mi scusi, c’è contraddizione. Se un socialista è ricco gli dite: - Dovete dar tutto agli altri. - Se è povero, gli dite: - Siete socialista perché non avete nulla da perdere. Che logica è questa?

Rimasero tutti un po’ sconcertati; ma se la cavarono fingendo di prendere quell’argomentazione in ischerzo, e voltarono il discorso, per domandare ad Alberto che idee avesse sulla proprietà, e se il socialismo volesse obbligar tutti a lavorare.

- Il socialismo -, rispose Alberto tranquillamente - non vuol abolire se non la proprietà che dà modo di vivere senza lavorare.

- Non si riuscirà mai a questo! - esclamò il maggiore. - La proprietà è un istinto! Persino lo scoiattolo, persino il topo campagnuolo sono proprietari, perché ammassano per l’inverno delle provvigioni sovrabbondanti, di cui resta loro una parte nella primavera. Vede dunque, che perfino tra le bestie ci sono i ricchi, che hanno del superfluo, perché sono stati previdenti.

- Ma le bestie fanno le loro provviste da sé, non le fanno fare dagli altri, e non son provviste che fruttino altre provviste senza fatica, come il danaro, e i topi non le lasciano ai figli perché marciscan nell’ozio.

- Queste son celie! - gli rispose uno dei due ingegneri - Non c’è bisogno di ricorrere alle bestie. Lei che è letterato dovrebbe sapere la definizione che ha dato dell’uomo un grande scrittore: l’uomo è un animale proprietario. Che cosa gli avrebbe da rispondere, signor professore?

- Gli risponderei che non discuto quell’epiteto con chi si appropria quel sostantivo.

La Luzzi rise: l’ingegnere fece una spallata. - Non son quistioni, mi scusi, da trattarsi con giochi di spirito!

- Ma come vuol che me la cavi altrimenti -, rispose Alberto ridendo - se m’assaltano tutti insieme e non mi lascian rifiatare?

- La proprietà è frutto del lavoro!

- Non tutta né sempre.

- Come, non tutta né sempre?

- Eh, andiamo - osservò il Cambiasi all’ingegnere, battendogli una mano sulla spalla -, che lavoro ti son costate le ottantamila lire che guadagnasti rivendendo il tuo terreno fabbricabile di San Salvario a dieci volte il prezzo che t’era costato?

- Sei socialista tu pure? - gli domandò l’ingegnere, indispettito.

- Quando son disoccupato - rispose il Cambiasi.

- Ma quello è un caso eccezionale -, ribatté al Cambiasi il maggiore - Prendiamo il nostro impresario qui presente. Egli non lavora più con le braccia, ma è più benemerito che se lavorasse perché con la proprietà acquistata dà del lavoro ogni anno a duecento operai...

- Dà del lavoro! - interruppe Alberto - Perdoni, signor maggiore: io domando se non sono invece i duecento operai che danno il loro lavoro a lui...

- Ma come?

- Ma certo! Se il lavoro di quei duecento operai non fruttasse a lui molte migliaia di lire, lo darebbe loro?

- Ma questa è una capriola!

- Una capriola da avvocato -, aggiunse l’impresario. - Ma già, egli è l’avvocato del lavoro, adesso, il cavaliere degli sfruttati... L’amico degli operai: il titolo d’un almanacco a dieci centesimi!

- È anche amico degli operai che "fanno" il lunedì? - domandò un signore grasso, amico del Bianchini padre, che teneva le mani incrociate sul ventre.

- E perché no? - gli disse la signora Luzzi con un sorriso vezzoso - non è amico di lei, che "fa" tutta la settimana?

Risero tutti, anche il signore grasso. E questa volta Alberto si voltò verso la signora con un moto di viva simpatia, che essa vide.

- Eh, caro signore -, riprese l’impresario - lei fa l’avvocato degli operai senza conoscerli; ma cambierebbe idea se ci avesse che fare. Restii al lavoro, briaconi, ignoranti e presuntuosi insieme, maldicenti feroci dei padroni: un bravo operaio è una mosca bianca, lo creda pure...

- Non capisco... -, rispose Alberto - Ma se gli operai sono fannulloni, chi è che fa tutto l’enorme lavoro manuale di cui la società ha bisogno ogni giorno? Vanno a ubbriacarsi all’osteria! Si vanno a ubbriacare anche molti signori, in luoghi più puliti, è vero; ma senza la scusa d’aver per case delle buche, in cui ripugni di passar la sera, e col vantaggio di poter nascondere l’ubbriacatura, cacciandola in una "cittadina". Sono ignoranti! Questo è certo, e non hanno scusa: quando li vedo tornare a casa la sera, rotti da dieci ore di lavoro, io mi domando: - O perché non vanno al circolo filologico? Dicono anche male dei padroni. Ma mi pare che lei, dal canto suo, non faccia di loro dei panegirici.

- Ben risposto, davvero! ma le ripeto una cosa sola: vorrei che ci avesse da fare per una settimana, e mi darebbe poi il suo bravo parere sopra le otto ore di lavoro!

- Il lavoro è un freno! - sentenziò il vecchio impiegato.

- Un freno che ammazza - rispose Alberto - non è più un freno, è un capestro.

- E lo vogliono allentar bene il capestro i profeti socialisti che profetizzano il lavoro di tre ore al giorno!

- È assurdo -, disse dolcemente uno dei signori che non aveva ancora parlato - anche per rispetto alla religione. Il lavoro è un castigo che Dio ha inflitto agli uomini. Non sarebbe più un castigo, se fosse ridotto a tre ore.

- Allora -, gli rispose Alberto - lei che vive di rendita non discende da Adamo perché Dio non l’ha condannato al lavoro.

- Ma per me ha lavorato mio padre.

- E perché -, domandò la signora Luzzi - Dio ha condannato suo padre e non lei?

Il signore rimase così impacciato che, per salvarlo, l’ingegnere suo vicino apostrofò improvvisamente la padrona di casa: - Ci dica lei il suo parere, signora Cambiasi.

La signora voltò verso l’interrogante il suo viso ingenuo di bella paciona e rispose con amabile semplicità: - Il mio parere è quello di tutti, mi pare. Perché si lavora? Per vivere. Dunque, quando s’ha da vivere, perché si dovrebbe lavorare?

Applaudirono tutti, ridendo, eccettuato Alberto, che cercava con gli occhi gli occhi della signora Luzzi, i quali lo sfuggivano.

Ma la discussione si ravvivò intorno al solito argomento se gli operai avessero ragione o torto di lagnarsi, e tutti diedero addosso al Bianchini. Il maggiore disse che era il benessere che li guastava. Il signore grasso, che teneva ancora le mani sul ventre, approvò, soggiungendo che appunto per quella ragione non era neppure da desiderarsi un miglioramento notevole del loro stato. È provato... - gli disse - È provato - ripeté, alzando la voce, per coprir quella dei ragazzi che facevano un passeraio in un angolo, - che col diminuire del prezzo dei generi alimentari, e specialmente della carne, aumenta il numero dei delitti contro la proprietà e... - soggiunse più basso - contro il pudore.

- Ah, se fosse vero rispose Alberto - gli italiani sarebbero il popolo più casto della terra.

- Se fosse vero -, rincalzò la Luzzi - lei che è un così fino gastronomo, sarebbe già stato arrestato.

Molti risero, altri fecero dei cenni di disapprovazione - Ma lei ha torto -, riprese la signora, senza turbarsi, - perché è la cattiva nutrizione, invece, che intristisce gli uomini. Sa il proverbio tedesco? Der Mensch ist was er isst. L’uomo è ciò che egli mangia.

- Ma signor Luzzi! - esclamò il Cambiasi, voltandosi verso il marito - La sua signora è socialista! È forse lei che la catechizza?

Il Luzzi, che non aveva ancora aperto bocca, crollò il capo in atto di compatimento verso sua moglie, come per dirle che era una pazzerella; poi espose la propria idea, mettendo nei suoi occhietti di topo un’espressione di finissima astuzia. Eran tutti malati d’immaginazione. Il socialismo era un fantasma creato dalla borghesia, la quale rassomigliava a certi malati che, a furia di parlare d’una malattia che non hanno, finiscono con soffrirne davvero. Egli aveva fermato il proposito di non aprir mai bocca in quelle controversie, perché gli facevan compassione.

Tutti scrollarono le spalle: quel Luzzi non aveva senso comune. Il socialismo esisteva, anche troppo; ma erano i "socialisti borghesi dilettanti" quelli che gli fortificavano la vita. - Sono loro -, disse il vecchio impiegato ad Alberto, ripetendo delle parole lette di fresco, - loro che giocano col mostro ancor piccolo, ancora innocente, con un nastro al collo come, un agnello, e lo tiran su a bocconcini, senza pensare che può diventare una bestia feroce e formidabile, che un giorno mostrerà i denti e divorerà loro stessi e tutti quanti!

- Ma è appunto quello che io penso! - rispose Alberto.

- È anche quello che desidera?

- Io non desidero che il bene di tutti.

- A spese d’alcuni, non è vero?

- Sarebbe sempre più giusto che il bene d’alcuni a spese di tutti.

Tutti protestarono in coro, l’impiegato fece un atto di sdegno, e la discussione stava per volgere alle brutte, quando il Cambiasi la troncò con uno scherzo: - Su, Alberto, smettila, - disse, piantandosi in mezzo al salotto, - o ti denunzio al Consiglio superiore dell’istruzione pubblica, che ti farà saltare dalla cattedra. E lor signori la finiscano se non vogliono avere di peggio -. Egli era "buon amico" d’un anarchico terribile, il quale appuntava in un taccuino i nomi di tutti i borghesi più rabbiosamente nemici delle nuove idee, per le prossime liste di proscrizione: avrebbe rimesso a lui l’elenco dei suoi invitati. - Quanto a lei, signora Luzzi, manderò la sua fotografia a un giornale socialista, che la riprodurrà in uno dei prossimi numeri accanto al ritratto di Maria Zara.

Tutte le signore si scandalizzarono: quello non era un nome da pronunziarsi in loro presenza.

- E perché no? - domandò arditamente la signora Luzzi - È una donna di talento.

Allora fu una voce sola di riprovazione. Eh, cospetto! Si concedeva molto al suo carattere vivace e bizzarro; ma essa ne abusava in maniera sconveniente. Suo marito stesso parve scosso da quelle parole.

La Luzzi rimase imperterrita, e si volle spiegare: aveva letto per caso un articolo di quella donna... Ma la voce del Cambiasi e la comparsa della cameriera con un gran vassoio pieno di calici le tagliarono la parola.

Allora tutti si levarono in piedi e formarono vari gruppi conversanti a voce bassa e concitata, nei quali Alberto argomentò dai gesti e dagli sguardi che gli si levava la pelle. E s’accorse che le signore non gli erano meno ostili degli uomini. Già, durante la conversazione, non ostante le risatine provocate da certe sue risposte epigrammatiche, egli aveva colto a volo da tutte, fuorché dalla padrona di casa, delle occhiate malevole, quasi sprezzanti. E quell’abbandono, a cui non era preparato, del sesso gentile, che l’aveva sempre accarezzato con gli occhi e con la parola, lo rattristò. Si trovava solo in un angolo: cercò con lo sguardo la signora Luzzi.

Era accanto a lui, come se avesse indovinato il suo pensiero.

Egli le disse piano, con calore: - Grazie.

E vide che i suoi occhi, belli come non gli erano mai apparsi, si velavano.

Poco dopo se n’andò; ripensando a quegli occhi.