Primo maggio/Parte seconda/II
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Uscito più sereno da quelle prime contrarietà domestiche, egli si rimise ai suoi studi con l’entusiasmo e con la lena d’un adolescente che ha scoperto la via a cui l’ha destinato la natura. Egli che era entrato nella letteratura socialista, credendo di non trovare che pochi vasi, appena verdeggianti, in un deserto inanimato, vi trovava delle città fiorenti e un popolo innumerevole in mezzo a una vegetazione maravigliosa. Trovava la grande quistione studiata già profondamente in tutti i popoli di tutti i tempi, e nelle sue attinenze con tutti i rami della scienza e con tutte le forme della vita. Scopriva una legione di pensatori potenti, di cui si stupiva d’aver ignorato il nome fino allora, e che tutti intorno a lui l’ignorassero, nei quali si accoppiava alla forza d’una fede fiammante l’autorità d’una cultura vastissima; nature intellettuali, tempre d’animo nuove, gagliarde ed ingenue, appassionate e pazienti; donne d’ingegno maschio e di cuore angelico; poeti inculti, nelle cui strofe informi balenavano immagini immense; autodidattici solitari, venuti su dalla gleba, di cui indovinava gli studi faticosi, contrastati, violenti come una lotta fisica, proseguiti per trent’anni in soffitte senza fuoco, a prezzo di veglie e di digiuni mortali; un esercito di scrittori strani, aspri, tormentati, oscuri, ma dotati d’una misteriosa eloquenza, dei quali egli vedeva a traverso ogni pagina sudar la fronte nera di carbone e sanguinar gli occhi bruciati dal riverbero delle fornaci. E trascorreva di congresso in congresso, di città in città, di nazione in nazione, raccogliendo da rozze bocche di lavoratori verità e ragioni profonde che nessun libro gli aveva mai dette, udendo narrazioni di miserie e grida dell’anima che lo facevano fremere come il suono del pianto d’un mondo, ritrovando espresse da uomini d’ogni razza tutte le commozioni e le febbri del pensiero e le lotte della coscienza per cui egli era passato e passava; ed eran tutti come nuovi amici, che gli facevano un cenno di saluto da lontano, una folla, una mescolanza non mai immaginata di operai, di pubblicisti, di prelati, d’uomini di stato, di donne del popolo e di signore, di affamati e di ricchi, d’anime disperate e indomabili, di spiriti credenti e gentili, di fanatici e di scienziati, di congiuratori e d’apostoli, che portavan tutti sulla fronte, come una stella vermiglia, la stessa idea. E via via che procedeva, gli si allargava dintorno l’orizzonte: egli vedeva l’Idea folgorare su cento campi di battaglia, e da ogni parte le legioni stellate avanzarsi, ingrossando lungo il cammino, come torrenti in piena, e succedersi negli eserciti opposti con crescente rapidità le diserzioni, le ribellioni, i terrori, tutti i segni d’un imminente sfacelo. E si comprende come in quella corsa vittoriosa egli non s’indugiasse più che raramente a fortificar con la scienza la sua fede. S’arrestava ancora, tratto tratto, alle quistioni più gravi e controverse, per udir le ragioni delle due parti, ma non udiva più fino in fondo quelle dei nemici; poiché appena gli parea di vedere, quasi rischiarato da un lampo, il grande viso bianco della verità, e sentiva uno di quei sussulti del sangue che rispondono alla sua apparizione improvvisa come un grido involontario allo scoprirsi d’un grande spettacolo della natura, si teneva per sicuro e ripigliava la corsa. E passava così le notti nelle ardenti letture, rapito nella visione immensa e confusa d’un mondo migliore, udendo nel silenzio della sua stanza il suono delle pagine che divorava, come il fremito d’una folla infinita che salisse.
Sovreccitato così, credette d’aver riaffermato tutte le sue facoltà migliori e sentì un bisogno imperioso di gittar nella forma d’un qualunque soggetto tutto quel materiale bollente di pensieri e di affetti che gli si era accumulato nell’animo. E cercava il soggetto da più giorni, alacremente, ma invano, quando gli sorse la speranza, il presentimento quasi, che l’avrebbe trovato gittandosi nell’officina ardente del giornale, in quel piccolo mondo che l’intelligenza del Rateri illuminava e moveva. E con questo pensiero si recò un giorno all’ufficio della Quistione, deliberato a non più presentarsi come un osservatore guardingo, ma come un amico, che, dandosi tutto, chiede corrispondenza aperta ed intera.
Ma la prima accoglienza che gli fece il Rateri, seduto a quella gran tavola nello stanzone nudo, lo agghiacciò. Salutatolo, senza domandargli lo scopo della sua visita, e accennatogli che sedesse, quegli riprese la conversazione interrotta con un giovane magro, dal viso butterato e con gli occhiali, che pareva un collaboratore del giornale, e che, stando in piedi, con un foglio tra mano, gli domandava delle spiegazioni. Fingendo di leggere una rivista, Alberto stette a udire le risposte, e sentì svanire il dispetto che gli aveva destato la fredda accoglienza. Il Rateri spiegava un punto della dottrina marxista. Convergendo da anni in questa dottrina tutti gli sforzi della sua mente, egli se l’era a tal segno inviscerata, ne aveva dedotto con così matematica chiarezza tutte le conclusioni possibili, ne aveva così attentamente studiato i punti vulnerabili e preparate le difese, che ad ogni obbiezione, a ogni critica, opponeva sull’atto una copia di ragioni, di esempi, di dati precisi, esposti con una facilità e con un ordine, da parere ch’egli avesse scritto prima e mandato a memoria ogni cosa. Udendolo, pareva ad Alberto che non fosse possibile ad alcuno di ribatterlo; tutte le ragioni degli avversari, che gli tornavano al pensiero in quel momento, anche le più gravi, gli pareva che svaporassero sotto la sua parola. E ripreso dalla prima ammirazione, pensando che nemmeno della teoria marxiana del valore, chiave di volta del socialismo teorico, egli aveva ancora un pieno e chiaro concetto, si sentiva forzato a scusare, giustificava anzi in cuor suo quella altera indifferenza, che poco avanti l’aveva offeso. La conversazione era ad ogni tratto interrotta. Si presentò una commissione d’una società operaia a chiedere un discorso per l’inaugurazione della bandiera, venne il segretario d’un’altra società a farsi scrivere un saluto in inglese per un’associazione di Liverpool, un operaio a portare una lagnanza, scritta sopra un foglietto di carta rigata, contro un abuso del padrone; ed altri si succedettero, dei visi eccitati o tristi, delle voci umili e aspre, dei petulanti, dei ragionatori, un capo ameno un po’ brillo, che apostrofò in francese il busto di terracotta di Carlo Marx. E il Rateri s’intratteneva un minuto con ciascuno, in un angolo dello stanzone, usando con tutti la stessa freddezza, lo stesso accento reciso, senza fare un gesto, senza che nei suoi occhi fissi di pensatore apparisse indizio alcuno né d’impazienza né di simpatia. Alberto lo osservava come se lo vedesse per la prima volta. Che uomo era mai? Quale impulso l’aveva messo per quella via? Era un amor sincero degli uomini, o una secreta ambizione, o un rancore contro la società signorile? Nessuno di questi sentimenti trapelava dalla sua faccia marmorea. No, pure ammirandolo, Alberto sentiva che non l’avrebbe mai amato, ed era ben certo che non gli sarebbe mai venuta da lui l’ispirazione del soggetto ch’egli cercava, per espandere l’animo suo. E stava per andarsene, quando entrò Maria Zara, che lo fece balzare in piedi con una vivacità, di cui nell’atto stesso ebbe un po’ di vergogna.
Entrò con un rotolo di carte sotto un braccio, diede il buongiorno al Rateri, e salutò lui con un cenno del capo, dandogli un rapido sguardo, in cui egli vide quella stessa espressione di diffidenza che gli era spiaciuta la prima volta, e che lo ferì allora ancor più nel vivo. Appena entrata, sedette a un’estremità della tavola, e si mise a scrivere. Aveva lo stesso vestito nero del primo giorno e quella stessa pallidezza di viso, che gli occhi scuri e tristi e le grandi sopracciglia nere, divise da una ruga diritta, facevano parere più smorta. Alberto aveva letto da ultimo sulla Quistione sociale una serie di articoli suoi, intorno alle "otto ore di lavoro" dei quali era stato maravigliato per la cognizione profonda, che vi appariva, dell’argomento complesso e difficile, e per la sobrietà rigida del linguaggio, rifuggente da tutti i luoghi comuni del giornalismo socialista, anche in ciò che toccava al sentimento, che sembrava compresso di proposito, per timore dignitoso d’abusarne. Mentre, ricordando quegli articoli, cercava le relazioni fra il suo stile e il suo viso, essa lo guardò varie volte, di sfuggita, e a quegli sguardi egli si turbò leggermente, come un nuovo convertito, non ben sicuro della sua fede, davanti a una sacerdotessa severa. Strani giudizi del mondo! pensava, senza ascoltar le risposte che dava il Rateri alle sue domande. Quanto aveva ragione il Lamartine dicendo che la reputazione d’una persona non è spesso altra cosa che la calunnia in buona fede di coloro che non la conoscono se non di nome! Come s’era potuta divulgare a danno di Maria Zara quella bugiarda fama di megera poliandrica e furibonda, che destava il riso degli uomini e il ribrezzo delle signore? Egli osservava il suo bel collo diritto, il suo busto fermo, la sua immobilità di statua: tutta la sua persona spirava forza e alterezza. Gli vennero in mente quelle ragazze russe di famiglia ricca, che si tagliavano i capelli e si vestivan di saio, per andar ai più duri lavori dei campi e delle officine, o per chiudersi a scrivere opuscoli di propaganda in sotterranei sepolcrali, da cui uscivano invecchiate a vent’anni; e pensò che ella doveva esser di quella tempra medesima e che, come quelle, avrebbe affrontato con fronte impassibile ogni rischio. A questo pensiero gli sorse bruscamente dinnanzi un’immagine che gli diede un brivido: egli vide per aria, dietro il capo di lei, una forca. Cacciò con orrore quell’immagine, e tornò a fissarla, con più viva simpatia, interrogando se stesso. Era ragazza? Era maritata? D’onde veniva? Di buona famiglia era certo; ma doveva esser passata per periodi di vita dura, e fors’anche di fatiche fisiche, a giudicar dalle sue dita un po’ ingrossate alle estremità. Dalla sua pronunzia non si capiva di che parte d’Italia fosse: aveva la pronunzia indeterminata di chi è vissuto a lungo in regioni diverse. E in che maniera viveva? Gli passò per il capo che fosse l’amante del Rateri, e questa idea gli ripugnò, senza ch’ei ne dicesse a se stesso la ragione. Perché lo guardava con diffidenza? Che cosa pensava, che cosa sapeva di lui? Ne diffidava forse perché egli non aveva fatto ancora una manifestazione pubblica del suo pensiero, e lo credeva uno di quei neofiti oscillanti, che tremano di compromettersi, e voglion tenere un piede nei due campi? A quel sospetto gli ribollì il sangue; ma lo riprese subito un sentimento d’ammirazione affettuosa e di pietà pensando che ella era così derisa, vilipesa, detestata da tanta gente che non la conosceva, e con questo un desiderio vivissimo di dirle qualche buona parola, benché fosse più che certo che non aveva bisogno di conforti. E mentre il suo viso esprimeva più intensamente quel desiderio, essa, alzando gli occhi per caso, incontrò i suoi. Parve che gli leggesse nel cuore; ma non s’alterò punto l’espressione severa del suo sguardo. Vide però Alberto in quello sguardo, come già l’altra volta, quasi il riflesso d’una rimembranza, e una curiosità indagatrice, che rivelava un ordine di pensieri antecedenti. E stava per rivolgerle la parola, quando le si avvicinò il giovane dagli occhiali e le domandò notizie d’un ragazzo, lavorante in una fabbrica di chiodi, che aveva avuto un braccio preso tra gli ingranaggi d’una macchina. La Zara gli rispose, con un leggiero tremito nella voce: - La mano è perduta.
Queste quattro parole operarono come un miracolo istantaneo nella mente d’Alberto. Egli vide, capì, sentì, immaginò, decise mille cose in un punto, come se in quel punto si fossero centuplicate tutte le facoltà della sua intelligenza e del suo cuore. Era il soggetto cercato, un libro, un mondo, che gli si levava nell’anima sotto il soffio d’una vertiginosa ispirazione: i fanciulli sfruttati dall’industria, una esposizione viva e terribile, con cifre, fatti, esempi, ragioni, delle fatiche e degli stenti abbominevoli a cui è sottoposta la fanciullezza in tutte le forme del lavoro e in tutti i paesi del mondo, con tutti i loro effetti spaventosi di degenerazione fisica, di mortalità, di corruzione, d’abbrutimento, di delitti; e questa istoria miseranda, scritta per la fanciullezza agiata ed amata, dedicata alle anime innocenti ancora aperte alla pietà e alla tenerezza, per mostrar loro di quanti sudori, pianti e sangue dei loro piccoli fratelli poveri stilli la ricchezza sociale e sia fecondata la loro florida vita, e farle piangere, pensare ed amare, e uccidervi in germe l’orgoglio e l’egoismo di classe, che le fa sorde più tardi al singhiozzo delle moltitudini e al grido della giustizia. In pochi momenti, come per effetto d’una successione di raggi che gli s’accendessero l’un sull’altro nella mente, il vasto soggetto gli si rischiarò con una rapidità maravigliosa, a grandi cerchi concentrici e crescenti, fin che tutto l’orizzonte del suo pensiero fu luminoso, e gli sonò in fondo all’anima un grido di trionfo e di gioia.
Salutò la Zara, a cui, in quel momento, avrebbe dato un bacio sulla fronte, strinse la mano al Rateri, e proseguendo il suo lavoro mentale, cercando in furia quali materiali avrebbe potuto rinvenire nei libri, quali raccogliere dalla bocca di operai, quali trovare egli stesso nelle officine, uscì rapidamente dall’ufficio e infilò la strada, dove s’imbatté in Mario Barra.
Questi gli fece festa, come a un amico, col suo sorriso cordiale. Ma mutò viso subito. Era di malumore. Il lavoro di propaganda s’urtava a mille ostacoli. E per prima cosa si lagnò degli operai governativi, pieni d’incertezze e di paura, che non s’arrischiavan neppure a farsi veder per la strada con un giornale socialista alla mano. Poi se la prese con altri operai, socialisti a chiacchiere, che facevano i mangiaborghesi nelle adunanze, e andavano in brodo quando ricevevano in pubblico una stretta di mano da un signore. L’aveva anche con una nuova società operaia che, come tante altre, buttava via seicento lire in una bandiera di lusso, invece di impiegarle a formare una biblioteca socialista circolante, come prima era stato deciso. Era in un brutto momento.
Ma si rasserenò quando il Bianchini gli espose il concetto del suo lavoro, e questi fu maravigliato della prontezza con cui l’afferrò e della sagacia dei commenti incoraggianti che vi fece, mostrando una schietta contentezza; a cui pareva mista, però, una certa invidia benevola della gioia che quell’idea, e la coscienza di riuscire ad attuarla potentemente, gli facevano raggiare sul viso. Gli domandò se ne avesse parlato al Rateri e alla Zara.
Alberto rispose di no. E per aver notizie, senza mostrar di chiederle, di quella signora, disse che il suo aspetto e il suo contegno non gli parevan punto fatti per incoraggiare alle confidenze.
- Oh! non ne faccia caso, signor professore gli rispose il Barra sorridendo - È un po’ il suo modo di fare con tutti - Ma non bisognava giudicarla dalle apparenze. E ne parlò in tuono di grande rispetto. Neppure non si doveva giudicare il suo naturale da come scriveva, così "ritenuto", come un uomo di scienza.
- È una legge che lei si fa, di non scrivere di sentimento, perché ci si appassiona troppo, e ne soffre; tanto che, nelle conferenze, quando le occorre di toccar certi tasti, certe volte, diventa bianca come una morta, e le tocca di smettere. Non può -, disse scrollando il capo -, non ci regge! - Secondo lui, era una donna che aveva molto patito. C’era del mistero nella sua vita. Neanche il Rateri, benché fossero in confidenza, non ne doveva saper gran cosa. Era vedova; non stava a Torino che da due anni: credeva che fosse venuta dalla provincia di Udine. Dava delle lezioni a figliuole e a mogli d’operai, a bottegaie, che avevan bisogno di scrivere e di far di conto. Ma poco le occorreva perché campava di nulla, e trovava ancor modo di aiutare dei bisognosi. A volte faceva colazione in ufficio con pane e ciliegie. E per la Quistione scriveva gratis. Aveva molta istruzione, anche di letteratura, ma una mente pratica. Il suo gran lavoro era d’organizzare in Società le operaie dei diversi mestieri, che era un’impresa da cavare i sudori dalla fronte - Perché lei sa -, soggiunse -, le operaie sono impregnate di spirito borghese peggio degli uomini, piene di spocchia e di pregiudizi fino agli occhi. Le sarte che lavoran per le signore, per dirla, si tengon da più delle sarte da uomini; queste qui, stanno su con le cucitrici di tela; le modiste si mettono al di sopra di tutte. Una quantità d’aristocrazie! Le une sdegnano di far causa comune con le altre, anche vedendoci il proprio interesse. Non gli si può piantar nella testa il concetto della solidarietà... - Ma la pazienza che ci aveva la Zara era incredibile. Lei le radunava, le persuadeva, si sforzava d’interessarle nell’amministrazione delle Società, le avvezzava a parlare nelle riunioni, solleticava il loro amor proprio, vinceva l’opposizione delle mamme che non volevan lasciar andare alle adunanze. E a furia d’insistere, otteneva. Perché eran teste leggiere; ma quando cominciavano a intenderla, andavano avanti più presto degli operai. Aveva già fatto delle conversioni miracolose: certe fraschette, che non pensavano che al fronzolo e alla civetteria, s’eran mutate da così a così: essa era riuscita a spostare la loro ambizione, voltandola verso l’interesse di classe e la causa sociale. E queste l’adoravano, le baciavano perfin le mani. A questo punto, gli tornò a brillar negli occhi la sua fede serena nell’avvenire. - Oh! si va avanti -, esclamò - si fa del gran cammino! - E battendo una mano sulla spalla d’Alberto, disse con allegrezza: - Ed ora abbiamo anche lei!
Poi, domandato da Alberto se gli sapesse indicare degli operai capaci di fornirgli le notizie che gli occorrevano, intorno al lavoro dei fanciulli, si mise a pensare, accarezzandosi la barba rossiccia, come se passasse in rassegna una quantità di soggetti. Ne aveva parecchi, infatti, e avrebbe scelto i migliori. Intanto ne proponeva uno, un lavorante in lime, un operaio istrutto, un po’ originale, socialista legalitario, che aveva lavorato un pezzo in due grandi fabbriche di Marsiglia. Glielo avrebbe mandato a casa. E ci sarebbe stato un altro, il più intelligente di tutti, un operaio metallurgico, che aveva visto le zolfatare in Sicilia, ed era stato nel Belgio e in Germania; egli avrebbe potuto dare una messe: un certo Baldieri, un anarchico...
Era l’"amico" del Cambiasi: Alberto si ricordò d’averlo inteso nominar da suo padre.
Ma -, continuò il Barra, corrugando la fronte -, non sono in buone relazioni - E, di scatto, si sfogò contro il Baldieri e tutti gli altri di quel partito, i quali non intervenivano alle riunioni socialiste che per combattere tutte le idee, respingere tutte le proposte, assalire tutte le "personalità" con l’unico scopo di seminar discordie e provocar dei disordini. E disse questo con quel tremito nervoso delle labbra che Alberto aveva già osservato altre volte. Poi tacque ad un tratto, come per troncare un discorso che lo esasperava, e rasserenandosi da capo, gli afferrò un braccio e gli disse: - Ah! lei fa bene a scrivere quello che ha detto... e vedrà... se ne troverà contento!
E dicendo quelle parole, fissò Alberto con uno sguardo così schietto di benevolenza e di ammirazione giovanile, così diverso per lui da ogni altra espressione di simpatia ch’egli avesse mai ricevuto per l’opera sua, che egli ne risentì una dolcezza nuova e profonda, come se nell’occhio azzurro e sorridente di quell’operaio avesse visto brillare la gratitudine dei millioni di piccoli oppressi a cui stava per consacrare la sua penna.