Primo maggio/Parte prima/VI
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Egli uscì con l’animo lieto e come rinvigorito dall’immagine che portava nella mente; ma maravigliato, ad un tempo, dell’espressione di diffidenza con cui l’aveva accolto la Zara, e punto meno nella vanità che nell’amor proprio, perché il suo aspetto e i suoi modi non avessero destato in lei nemmeno un segno di quella vaga simpatia, che, al suo primo presentarsi, tutti i visi femminili gli dimostravano. E risentiva ancora questa maraviglia piacevole quando, il giorno dopo, gli capitò in casa inaspettato l’operaio Barra con la raccolta della Quistione sociale, mandatagli dal direttore.
Lo ricevette con grande piacere. Era il primo operaio socialista, ch’egli poteva interrogare, scrutare, sviscerare come un libro, e che gli avrebbe dato la chiave d’un mondo. Quegli si presentò con la disinvoltura garbata d’un amico, sorridendo, come se la visita del Bianchini all’ufficio del giornale fosse stata un’aperta confessione delle sue idee. Il Bianchini lo fece entrare e seder nel suo studio, e sedette davanti a lui, scusandosi d’essergli stato cagione d’un incomodo. Ma il Barra sorrise della scusa, dicendogli che all’ufficio della Quistione facevan tutti, per necessità, un po’ di tutti i mestieri. E ragionò del giornale senza riserbo, come avrebbe fatto con un amico intimo, con una parlantina rapidissima, giovialmente. La Quistione sociale era tenuta in gran conto da tutta la parte colta del partito, in tutte le città d’Italia; ma aveva poca diffusione e le mancavano i denari per procurarsela; il Rateri ci rimetteva del proprio, dovendo anche trascurare l’avvocatura; faceva tutto lui; qualche volta scriveva persino gli indirizzi sulle fasce; i redattori stessi galoppavano coi pacchi alla posta; il direttore medesimo, certe sere che il giornale usciva tardi, lo portava in carrozza ai chioschi che restavano aperti fino a mezzanotte, spendendo per la scarrozzata più di quello che rendevan le copie.
Parlando, aveva un sorriso simpatico, ma strano, che ogni tanto svaniva all’improvviso, come per un subitaneo mutamento di pensiero, per dar luogo a un’espressione fuggitiva di grande serietà, nella quale le sue labbra si contraevano e i suoi occhi s’offuscavano; e aveva dei modi naturalmente gentili, ma in cui appariva anche il proposito di mostrare un’educazione superiore a quella della sua classe. Il Bianchini notò pure la finezza e la bianchezza delle mani, con le quali si accarezzava la barba rossiccia, accuratamente tagliata e pettinata; e gli prese un dubbio spiacevole: - Con quelle mani, non poteva essere un operaio -
Per accertarsene, gli espresse la propria maraviglia che il lavoro giornaliero gli lasciasse il tempo d’occuparsi del giornale.
- Ah! Non dubiti -, rispose il Barra sorridendo -, il tempo non mi manca: ho tutta la giornata a mia disposizione.
Un disoccupato! Anche questo gli spiacque. Non era più l’operaio ammirabile; da lui immaginato, che dopo una giornata di fatica, rinunzia al sonno e consacra il resto delle sue forze alla grande causa. Era un socialista di professione, non faceva al caso suo.
Ma, seguitando il Barra a parlare, egli si ricredette. Non era disoccupato che da due mesi: s’era ritirato spontaneamente dalla fabbrica di macchine, dove lavorava da disegnatore, perché aveva perduto la simpatia del padrone in causa della sua propaganda socialista: non aveva potuto reggere al mutamento di lui, diventato chiuso e freddo, di benevolo e quasi amico che gli era stato sempre. Stava allora cercando un altro posto; ma non ne trovava, per la stessa ragione che gli aveva fatto perdere il primo. - Ma - disse, con un sorriso -, ne ho già passate tante! - E vedendo negli occhi del Bianchini una curiosità piena di benevolenza, gli raccontò alla spiccia la sua storia, con effusione di confidenza giovanile, con un accento e un modo, come se raccontasse la più allegra vita di questo mondo. Era figliuolo d’un povero operaio incisore, che aveva fatto i più duri sacrifici per mandarlo alle scuole. Ma quando egli aveva compiute le scuole tecniche, suo padre era stato colpito da una terribile malattia d’occhi, e, mancandogli i mezzi, dopo aver cercato invano per mare e per terra, anche con qualche protezione, un assegno, un posto gratuito, un aiuto qualsiasi per proseguire gli studi, nei quali s’era sempre fatto onore, egli era stato costretto a rinunziarvi e a mettersi al lavoro. Aveva cominciato da tipografo, ma dovuto smettere in capo a un anno, perché il bisogno stringeva, e accettare un posto di scrivano in una società d’assicurazioni, dove gli davan subito un po’ di stipendio. E qui gli era ripreso l’ardore di studiare: pure attendendo al suo ufficio, era andato a scuola di disegno di macchine, al circolo filologico a imparare il francese e l’inglese, al Museo di sericoltura a fare un corso di bacologia, vegliando le notti, mangiando di sfuggita, menando una vita "strangolata", che teneva sua madre in un’ansietà continua della sua salute. Poi, riacquistata in parte la vista, suo padre, non più atto all’arte propria, aveva tentato la fortuna, con trecento lire ereditate da un fratello, mettendo su una piccola rivendita di commestibili, e preso lui a bottega; e allora egli aveva fatto per due anni il bottegaio, il ragioniere, il commesso viaggiatore, il facchino, un po’ di ogni cosa. Ma, andando male gli affari, era dovuto entrar come disegnatore in un Istituto del governo, pagato, ma sottoposto a un orario che lo stroncava, dovendo spesso lavorare dalla sera all’alba; e non di meno, durante quel tempo, aveva ripreso a studiare come poteva, frequentando le biblioteche, leggendo a letto e per strada, e dando lezioni di francese e di disegno, stanco, disfatto al punto qualche volta, che s’addormentava camminando e parlando. Infine, essendosi aperta una nuova fabbrica di macchine, egli v’era stato preso a buone condizioni, in qualità di disegnatore, di computista e d’operaio all’occorrenza; e tutto, per un pezzo, era andato bene. Ma il socialismo aveva guastato tutto. Se n’era dovuto andare. Suo padre era morto. Campava allora con qualche lezione, mantenendo sua madre inferma, malamente. Ma che colpa ce n’aveva? Pazienza.
Nel dir questo, gli tremò la voce. Ma tornò subito a rasserenarsi, e fissato il Bianchini con gli occhi socchiusi e sorridenti, batté la mano sulla raccolta della Quistione sociale che era sul tavolino, dicendo che il giornale era buono, che l’avvocato era una testa forte; ma che scriveva troppo elevato per gli operai, e quanto più glie lo dicevano, tanto più s’ostinava a non mutare, rispondendo che non voleva fare la dottrinetta socialista.
E soggiunse che egli pure ci scriveva qualche cosa, alla buona. Ma gli mancavano gli studi, gli mancavano i libri, gli mancava tutto.
E nel dir queste parole, stringendosi la barba sul mento con la mano agitata, girò sulle belle librerie, che coprivano quasi tutte le pareti, uno sguardo largo e lento, in cui il Bianchini vide una così ardente avidità intellettuale, una così triste e umile invidia, un così amaro rammarico della sua carriera fallita, che n’ebbe un senso di pietà, e capì per la prima volta tutta l’ingiustizia d’un ordinamento sociale, in cui la povertà sbarrava a una intelligenza così viva e a una volontà così indomita la via degli studi, mentre oziavano petulantemente in tutte le scuole tanti danarosi imbecilli. Certo, era la coscienza offesa da quell’ingiustizia che aveva spinto quel giovane nelle file del socialismo. Nato per salire, e ricacciato a terra, per istinto egli si sollevava alla vita intellettuale per un’altra via, e questo nobile sforzo gli costava anche il suo pane d’operaio. Ma per che ordine di pensieri e di letture era venuto all’idea socialista? Punto dalla curiosità, il Bianchini glie lo domandò di punto in bianco, e il giovane gli rispose con certa furia ingenua di parole, che non lasciava alcun dubbio sulla sincerità della sua confessione.
Aveva avuto tendenze repubblicane fin da ragazzo, leggendo la storia romana: s’era entusiasmato dei grandi uomini della repubblica. Poi aveva letto alla rinfusa il Mazzini, Alberto Mario, il Lamennais, degli opuscoli del Kropotkine, uno del Lassalle. E di ciascuno di questi diede, passando, un giudizio, con formole curiose, che erano reminiscenze inesatte di giudizi letti, a cui mescolava del suo, usando certi vocaboli letterari in senso improprio; ma in modo da far intendere che aveva capito più che non sapesse esprimere, e pensato molto da sé. Fra queste diverse letture, era rimasto fedele al Mazzini. Più tardi, aveva letto una traduzione francese del Capitale di Carlo Marx, che gli aveva fatto una grande impressione. In fine, era stato definitivamente persuaso da una conferenza d’Andrea Costa, e s’era dato alla politica, per dedicarsi tutto alle idee socialiste. Leggeva quanto gli cadeva tra mano, andava a qualche lezione d’economia e di diritto all’Università, teneva qualche conferenza sul collettivismo a certe associazioni operaie. Ma era sopra tutto inclinato a occuparsi di quistioni agricole, a cui aveva preso passione girando la campagna per il commercio di suo padre, perché contava d’andare a far propaganda di socialismo tra le popolazioni rurali.
- Perché è lì che bisogna battere -, soggiunse -, non pare anche a lei? sopra tutto in Italia, che ha una grande popolazione agricola, in peggior stato dell’operaia. Ora la cominciano a capire. Ma non qui. Chi va tra i contadini a destare in loro la coscienza di classe? Chi scrive per essi? Lasciati soli, attaccati alle loro vecchie abitudini, diffidenti di tutti, non faranno mai un passo innanzi da sé. E fin che loro non si svegliano, saremo sempre al primo principio. Il socialismo italiano sarà agricolo, o non sarà. Non è il suo parere?
Piacque al Bianchini la sicurezza con cui quegli mostrava di considerarlo come uno dei suoi, benché non si fosse dichiarato ancora, parlandogli così aperto e guardandolo con quel sorriso pieno di simpatia; e interrogato direttamente a quel modo, rispose, acconsentendo, ed esprimendo meglio la stessa idea; ma con una incertezza non mai provata con altri, con una specie d’imbarazzo, come chi non sapesse bene con chi parlava, se con uno della sua condizione o d’un’altra, se ad una persona colta o no: si trovava davanti, per così dire, a un uomo nuovo, che sconcertava un poco nella sua mente le regole del linguaggio e delle convenienze.
- Infine - disse il Barra giovialmente, alzandosi -, qualche passo si farà. - E parlò dell’ordinamento del partito a Torino. Ma si rannuvolò all’improvviso, accennando all’ignoranza restia di tanta parte degli operai, alle associazioni ostili all’idea, ai corrotti e ai malfidi e agli invidiosi d’ogni compagno che si alzasse un dito sopra di loro e agli intralci d’ogni sorta che metteva la polizia all’opera della propaganda; e mentre diceva queste cose, gli occhi gli s’offuscavano, la sua voce usciva stridente dalle labbra contratte, l’agitazione nervosa di tutto il suo corpo faceva indovinare un altr’uomo, irritato dagli ostacoli, dalle inimicizie, dalle ingiustizie, e soggetto qualche volta a scoraggiamenti dolorosi e profondi, che non doveva confessare ad anima viva. Ma si rifece sereno ad un tratto, con una scrollata di capo, dicendo:
- Basta, l’avvenire è per noi, è chiaro come il sole. - Sì, quasi tutti i giovani operai che venivan su, eran per la causa, perché intendevan le cose meglio dei vecchi. Ed erano i meglio della classe perché capivano che bisognava istruirsi, portarsi con dignità, rendersi degni del nome di socialisti. Quelli là non s’ubbriacavano, non battevan la moglie, non sacrificavano una conferenza a una partita alle bocce. Eran giovani di cuore, che davan l’ultimo centesimo per aiutare un compagno di fede gettato sul lastrico, che compravano i giornali del partito per chi non aveva soldi, e che quando si trovavan senza lavoro, sopportavano l’appetito con coraggio, senza commetter bassezze. - E quando la maggior parte saran così... - concluse -; ci vorrà del tempo: io non lo vedrò il nuovo mondo; ma... sarà!
E nel dir quel "sarà" parve che gli uscisse un raggio dagli occhi, un raggio di gioia e di alterezza, con cui facevano uno strano contrasto i suoi panni logori, benché puliti, che eran tenuti su, si capiva, dall’ago di sua madre, e dicevano una vita di dure privazioni.
- Ho parlato troppo? - disse poi di sull’uscio, con un sorriso - Ma lei già, senza saperlo, era una mia conoscenza. - E soggiunse che aveva letto la Storia d’una casa in biblioteca, perché aveva inteso che vi si parlava d’operai. Ma spiacque quell’accenno al Bianchini, perché aveva coscienza d’aver parlato degli operai in quel libro con quel tono convenzionale e falso di bonarietà protettrice, che è d’uso nei libri educativi scritti per loro. Il Barra, però, non espresse alcun giudizio. Lo esortò invece a scriver qualche cosa egli pure per la Quistione, perché c’era bisogno di giornalisti che sapessero dir le cose. - O ci metton troppa scienza, e non si fan capire, o infilano dei frasoni di sentimento, che ristuccano anche gli operai. Ma chi trovasse il vero modo di dirci quello che ci si deve dire, quello ci farebbe un servizio!
Il Bianchini credette di dovergli fare un complimento per i suoi articoli, che erano pratici, e scritti con forza.
L’operaio rise, facendo l’atto familiare di afferrargli il braccio, come per scrollarglielo, e dirgli che scherzava; ma ritirò la mano senza toccarlo. Poi gli gridò dal pianerottolo: - Se permette, ci rivedremo!
E inteso il sì cordiale del professore, se n’andò, lasciando questo maravigliato e pensieroso di quel misto singolare di cultura e d’ignoranza, di cortesia e di franchezza, di semplicità, d’entusiasmo e di forza; e contento di se stesso come se, penetrando nell’animo di quell’operaio, avesse rinfiammata e rinsaldata la sua nuova fede.