Poesie (Francesco d'Altobianco Alberti)/CXLII

CXLII

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CXLI CXLIII

 
Se inclinar ti può miseria umana,
giusto Signor, plecaro Redentore,
fa’ la disgrazia tua a me lontana,

sì che ’l servo fedel con tutto il core,
che devote oblazion porge compiute,
benigno essaudi; trâlo d’afanno fore.

Drizza i miei gressi e l’ore invan perdute
nel mio peregrinar; placido piaccia
ridurre al fin d’etterna mia salute;

né all’essito mio, Signor, dispiaccia,
ma in quello e suprema ora assister voglia,
sì ch’io possa fruirti a faccia a faccia,

né ti ricordi in sulla estrema soglia
di mie iniquità fragili e ’nferme,
sì che ’l danno s’acresca oltre alla doglia.

Ma quando del corpo esce ’l spirto inerme,
placato acogli e ’n tua grazia raccetta,
sì che in perenne gaudio lo conferme.

Non intrare in giudizio a far vendetta
col servo tuo, di grazia o vivo fonte,
favorevol ricuopri, atta e rassetta;

e mie deformità, ingiurie e onte
nel novissimo dì, per tua clemenza,
fa’ oltre a’ merti miei delet’e sciolte.

Né patisca la tua magnificenza
questa alma, opera propia di tue mani,
pervenga al mio inimico a mia impotenza,

né esser ludibrio a’ famelichi cani,
o di spiriti immundi strana preda,
sì che, Signor, da te mai m’alontani,

altro ch’i’ speri in te trino e un creda.